martedì 25 febbraio 2020

A proposito di Azione comunista. Passioni, ambivalenze e l’ordito con il Pci





Raffaele K. Salinari

A proposito di Azione comunista. Passioni, ambivalenze e l’ordito con il Pci

SAGGI. Un volume di Giorgio Amico in cui spiccano lettere, testimonianze, rigorose ricostruzioni


Azione comunista, chi erano i compagni che la fondarono, i loro riferimenti ideologici, e infine, come si diceva una volta, quale la fase e i compiti che si prefiggevano? A queste domande, e molte altre, cerca di rispondere, con notevole densità analitica e riferimenti bibliografici, il piccolo libro dello storico Giorgio Amico, Azione Comunista, da Seniga a Cervetto (1954-1966), per i tipi di Massari Editore (pp. 350, euro 20). Già dall’introduzione di Paolo Casciola si coglie l’atmosfera di quei tempi, le feroci e titaniche contese ideologiche tra le grandi correnti del movimento comunista, lo stalinismo, il leninismo, il trotskismo, con il corteo dei gruppuscoli più o meno organizzati e interpreti della purezza originaria. Ma, come ben sappiamo, le idee marciano con le gambe degli uomini e delle donne che le rappresentano, anch’essi dunque strumenti ma altre volte strumentalizzatori, di quelle stesse ideologie che li animavano.

ED È ESATTAMENTE a questo punto di intersezione tra personale e politico, a volte tra vita privata sentimentale e passioni spesso inconfessate ai protagonisti stessi, che il libro-cronaca di Giorgio Amico trova la sua originalità e il suo ritmo, intrecciando l’evidenza dei fatti storici – attraverso lettere, testimonianze di prima mano, ricostruzioni rigorose – a una introspezione quasi psicoanalitica dei protagonisti. Qui Seniga e Cervetto, in particolare, in qualche modo epitomizzano dunque non solo la storia di questa formazione a sinistra del PCI, con tutte le sue «contraddizioni in seno al popolo» ma, più in generale, quelle che poi saranno le dinamiche personali e politiche di tutta la cosiddetta sinistra extraparlamentare degli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso.

Sta in questa continua sovrapposizione di piani, infatti, il vero pregio del libro che interseca la trama di Azione Comunista, la sua nascita, le relazioni con il Pci di Togliatti, Amendola, Pajetta e Secchia, all’ordito formato dai gruppi che si rifanno alla Quarta Internazionale e non solo, con tutte le sue scissioni, anatemi, denunce, ma anche passioni politiche fortissime, di una intensità che oggi, nel clima narcotizzato a sinistra da una parte, e decisamente parafascista dall’altra, si fa persino fatica a comprendere.

E ALLORA CHI ERA Giulio Seniga, partigiano della prima ora e poi uomo responsabile dell’«apparato parallelo» del Pci, la struttura che doveva assicurare case sicure ai compagni in caso di repressione e la tenuta dell’archivio riservato del Partito, ma anche colui il quale rubò una ingente somma dai suoi fondi segreti (mai si è saputo quanto) per dare vita proprio ad Azione Comunista o, come fu insinuato dall’apparato togliattiano, un semplice ladro traditore? La vicenda personale di Seniga interroga così quella politica di Secchia, illumina i termini oscuri e sotterranei dell’aspra sua lotta all’interno del Pci contro Il Migliore, ma anche la fittissima rete di relazioni tra i servizi segreti americani ed esponenti del Partito, oltre alle contese ideologiche tra operaismo e socialdemocrazia, rivoluzione armata e via parlamentare al potere.

LUNGO L’ARCO di una dozzina d’anni, dunque, si snoda un percorso tortuoso di Azione Comunista, metafora ed epitome di una sinistra certo molto ideologizzata, ma ancora capace di produrre una visione prospettica dell’umano e del suo divenire, degli strumenti per la liberazione concreta dal bisogno e dalle ingiustizie. Dalle pagine del saggio emerge allora un mondo quasi dimenticato, la Cina di Mao, l’Urss della destalinizzazione, le relazioni tra i partiti socialdemocratici e gli Usa, il grande affresco della Guerra Fredda, la galassia irredenta dei gruppuscoli dei duri e puri del marxismo leninismo, ma anche il corollario lessicale dell’epoca con il corteo di slogan capaci di racchiudere tutta una Weltanschauung fino alla nascita del ‘68. In sintesi un testo che dalla vicenda di un segmento del movimento comunista e dei suoi protagonisti, ricostruisce lo spirito di quei tempi, il genius loci di un periodo storico al quale siamo ancora debitori spesso inconsapevoli; almeno sinché non si leggono le sue pagine.

il Manifesto - 25 febbraio 2020

domenica 23 febbraio 2020

Da Greta alle Sardine, un nuovo modo di fare politica

L'incontro avrà inizio alle ore 16.00

sabato 22 febbraio 2020

Quanto eri viva Savona, quando Pertini era giovane



"Sandro Pertini. Gli anni giovanili" di Giuseppe Milazzo. Un libro da leggere.

Giorgio Amico

Quanto eri viva Savona, quando Pertini era giovane



Al di là della favola massmediatica di "nonno degli italiani" Sandro Pertini resta figura controversa e di difficile interpretazione. Esponente di secondo piano del PSI, assolutamente non paragonabile ai Nenni, Basso, Morandi né per capacità politiche né per originalità di pensiero, fu più che altro sempre molto attento a mettersi a vento nella feroce lotta di correnti che sempre travagliò il partito. Autonomista prima, fautore dell'unità d'azione con il PCI poi, stalinista quando era opportuno esserlo: fu lui a tenere in Parlamento per conto del PSI l'elogio funebre del "compagno Stalin" presentato come un simbolo luminoso di progresso, democrazia e pace, tanto da dichiarare con l'enfasi retorica tipica della sua oratoria:

«Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L'ultima sua parola è stata di pace. [...] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura che la morte pone nella sua giusta luce. Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto.»

Di nuovo autonomista negli anni del centrosinistra e della destalinizzazione, strettamente legato ad Alberto Teardo negli anni in cui questi egemonizzava il PSI a Savona, suo collegio elettorale. Rapporti politici su cui per carità di patria, perché è sempre brutto smontare le favole, nessuno allora volle andare a fondo e su cui solo un giornalista savonese, Bruno Lugaro, in un suo recentissimo libro su Teardo, ha iniziato a gettare un poco di luce.

Una figura complessa e controversa di cui i suoi compagni di partito savonesi, prima della elezione alla massima carica dello Stato, non parlavano con grande simpatia, soprattutto a causa della spigolosità del carattere e dell'atteggiamento dispotico spesso manifestato nei rapporti interni.

Un personaggio controverso su cui, al di là del mito del presidente nonno, così simile a quello del "Papa buono" Giovanni XXIII, è stato scritto veramente poco. Tanto che ancora non esiste una vera biografia redatta con toni non agiografici.

Un vuoto che finalmente si è iniziato a colmare con il lavoro, scrupolosissimo e approfondito, di Giuseppe Milazzo, che ancora una volta si conferma quanto di meglio sul piano della ricerca storica Savona abbia espresso in questi ultimi anni.

In "Sandro Pertini. Gli anni giovanili", appena uscito per le Edizioni l'Ornitorinco, Milazzo ricostruisce con estrema attenzione gli anni giovanili del futuro Presidente fino all'espatrio in Francia nel 1927. Passo dopo passo, Milazzo delinea la controversa formazione politica di Pertini, dall'adesione iniziale al Partito dei Combattenti, all'elezione nel Consiglio comunale di Stella nelle liste liberali, all'adesione infine al Partito Socialista e ad un coraggioso ed esplicito impegno antifascista che gli valse aggressioni verbali e bastonature in strada.

Nel suo libro, cinquecento pagine che si leggono come un romanzo grazie ad una scrittura estremamente accattivante ed efficace, l'autore ricostruisce non solo il percorso politico di un uomo, ma un momento storico ed un territorio. Ne esce un quadro affascinante di una Savona, ormai quasi del tutto scomparsa, con i suoi caffè, le sue fabbriche, le sue strade e le sue piazze. Una Savona di inizio Novecento mai raccontata così bene nella sua vita di ogni giorno e nei suoi protagonisti, che da sola merita la lettura del libro anche per chi non fosse particolarmente interessato agli aspetti politici della vicenda.

Insomma, un libro da leggere.

giovedì 20 febbraio 2020

Una lingua "travolgente e incendiaria". Studi sul Futurismo




Biblioteca Universitaria di Genova
Via Balbi 40 (Sala Conferenze)
Mercoledì 19 febbraio 2020, ore 17

Presentazione del volume:

UNA LINGUA “TRAVOLGENTE E INCENDIARIA.
STUDI SUL FUTURISMO”
di STEFANIA STEFANELLI
Editrice Clinamen – Firenze

Intervengono:
Paolo Giannone, Direttore Biblioteca Universitaria di Genova
Marco Berisso, DIRAAS, Università di Genova
Marcello Frixione, DAFIST, Università di Genova
Marco Innocenti, scrittore e saggista
Stefania Stefanelli, già docente alla Scuola Normale di Pisa
Modera il dibattito:
Giuliano Galletta, giornalista e scrittore

«È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii». Così esordiva Marinetti nel suo Manifesto di fondazione del Futurismo, dando l’avvio a quella furia incendiaria e distruttrice che coinvolse l’universo dell’arte in tutte le sue manifestazioni e non poté certo risparmiare lo strumento creativo forse più potente e più diffuso, la lingua letteraria, ma anche quella del quotidiano parlare. Gli scrittori futuristi generarono un’antilingua che coinvolse un pubblico ampio ed eterogeneo, e che, attraverso la sapiente strategia retorica dei manifesti e dei volantini, investì tanto il linguaggio cόlto quanto il linguaggio diretto. Ma principalmente investì il linguaggio iconico delle tavole parolibere, nelle quali ogni norma grammaticale viene abbandonata per colpire l’occhio dello spettatore con parole che liberamente si scatenano sullo spazio bianco del foglio. La rivoluzione del Futurismo si propagò a campi inconsueti, come il teatro, la politica, la gastronomia, l’aviazione, la moda, creando ferventi seguaci in tutta l’Italia ed anche, soprattutto, oltre i confini: dalla Russia, alla Romania, al Portogallo, alla Spagna, fino al Giappone. Un potente impulso rivoluzionario che si è allargato nello spazio e nel tempo, come un incendio alimentato dai turbini del vento.

STEFANIA STEFANELLI è stata ricercatrice di Linguistica italiana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Manifesti futuristi. Arte e lessico (Sillabe 2001); Va in scena l’italiano (Cesati 2006); Scrittura verbovisiva e sintestetica (con L. Pignotti, Campanotto 2011). Ha curato: Avanguardie e lingue iberiche nella prima metà del Novecento (Edizioni della Normale 2007); Varietà dell’italiano nel teatro contemporaneo (Edizioni della Normale 2009); La lingua italiana e il teatro delle diversità (Accademia della Crusca 2012). Ha altresì curato e introdotto la ristampa anastatica di F. T. Marinetti - F. Azari, Primo Dizionario aereo (futurista) (apice libri 2015).

In concomitanza con la presentazione del volume, viene allestita nella Sala Conferenze una mostra di pubblicazioni futuriste appartenenti alle raccolte della Biblioteca Universitaria.
La mostra sarà visitabile dalle ore 16 del 19 febbraio 2020.



Paolo Argeri, Progressioni




PAOLO ARGERI
Progressioni
a cura di Riccardo Boglione e Erminio Risso

Entr'acte
via sant'Agnese 19R – Genova
12 febbraio – 3 marzo 2020
orario: mercoledì-venerdì 16-19

Dal 12 febbraio 2020, Entr’acte ospita Progressioni, una personale di Paolo Argeri, a cura di Riccardo Boglione e Erminio Risso.

Il procedimento di composizione di Argeri – annota nel catalogo Riccardo Boglione – è, per sua stessa ammissione, rousseliano, parte cioè da un’immagine iniziale e un’altra finale e dall’ambiguità che, con anche minime variazioni, trasudano le stesse figure, famose o meno, una volta contaminate, mixate: i personaggi, gli oggetti, ritagliati da riviste di moda, magazines, foto personali e private, di epoche distinte, e poi alterati e riassemblati, si reiterano sotto spoglie diverse, creando, nel quadro generale della serie e singolarmente, ripetizioni, rime, contrappunti visivi. Il metodo è evidentemente combinatorio, e per nulla caotico: è infatti la sua rigidità quasi matematica nella costruzione delle distinte scene che dona alle Progressioni il carattere inquietante che le caratterizza.

Formalmente –puntualizza Erminio Risso– il rettangolo allungato delle Progressioni ci pare un richiamo alle predelle dei polittici o delle pale d’altare, cioè i riquadri deputati a narrare, quasi filmicamente, la storia. Qui, in queste predelle laicizzate si racconta la storia della distruzione dell’uomo: orizzontale è il destino dell’uomo e lo si riproduce in un widescreen dove scorrono fantasmi, ‘ospiti’ come in Solaris di Tarkovskij, in dolorosa ricerca di autenticità e umanità.

Paolo Argeri è nato a Genova nel 1970. Per il poeta visivo Rolando Mignani ha realizzato, in veste di illustratore, “PILGRIMAGE”, 57 vignette satiriche, dove vari scrittori, poeti, filosofi, si interrogano sull’opera del poeta americano E. E. Cummings, esposte originariamente da Leonardi V-Idea nel 2001 e al Museo d’arte contemporanea di Villa Croce nel 2011.
Collaboratore della rivista letteraria Passaggi, ha pubblicato nel 1997 sul numero monografico Dissenso, il racconto “Il soggiorno turistico”.
Interessato alle tematiche che attraversano la fantascienza, ha esordito in questo campo con la mostra di collage “L’ultima morte del capitano Nemo”, allestita nella galleria Spazio Espositivo Aperto presso lo Studio De Bernardi. Nel 2015 ha pubblicato per le Edizioni Vallescrivia il volume “I racconti dei giovani eterni”.

martedì 11 febbraio 2020

A proposito delle foibe. Ricordare anche gli orrori dello stalinismo


 


Giorgio Amico

A proposito delle foibe. Ricordare anche gli orrori dello stalinismo

Ieri era la giornata dedicata alla memoria delle vittime delle foibe. Molti hanno ricordato i crimini del fascismo contro gli slavi che precedono quei terribili fatti ed è giusto farlo, ma questo non spiega veramente quello che accadde perchè la persecuzione degli italiani è solo un aspetto della trageda istriana. Per capire davvero, bisogna andare oltre al problema dei rapporti fra italiani e slavi, il fenomeno è molto complesso e va affrontato con grande scrupolo in tutti i suoi aspetti.

Soprattutto occorre tener presente che le foibe rientrano a pieno nel fenomeno dello stalinismo e dei suoi metodi terroristici di azione politica. I partigiani di Tito usarono gli stessi metodi anche contro quei croati, sloveni, bosniaci e serbi che per motivi sociali o politici erano considerati nemici di classe. 

A Trieste eliminarono fisicamente la piccola sezione del PC Internazionalista (bordighista) e liquidarono quei pochi trotskisti che c'erano in Jugoslavia. Era la loro concezione della dittatura del proletariato: l'annientamento anche fisico di ogni possibile opposizione. 

A questo va aggiunto un nazionalismo esasperato grande serbo (anche se Tito era croato). Poi, naturalmente, verso gli italiani c'era anche l'odio accumulato negli anni del fascismo. 

Tutto questo mi conferma nella convinzione che la recente, criticatissima, risoluzione della UE sui totalitarismi del Novecento, nonostante la forzatura politica che la destra ha cercato di farne, sia stata un atto doveroso. La Shoah resta un crimine assoluto che non può essere paragonato a nessun altro orrore della storia, ma sul piano della repressione feroce e sistematica di ogni forma di dissenso nazismo e stalinismo sono assolutamente simili ed è giusto che siano entrambi condannati e ricordati come l'orrore che furono.

sabato 8 febbraio 2020

In ricordo di Ettore Amico



Ciao Ettore

Siamo cresciuti insieme, tu a Genova e io in giro per la Liguria. Poi dopo il '68, tu a fare l'hippy e io il marxista rivoluzionario accanito. Poi, dopo che gli zii si sono trasferiti in Sicilia, ti ho rivisto una volta sola. Ricordi: andavi da Messina in Francia in autostop con una vecchia sacca da marinaio come bagaglio e ti sei fermato per un paio di giorni da noi a Savona. Ti ho ritrovato molti anni dopo su FB. Entrambi invecchiati, ma con lo stesso cuore giovane che avevamo allora. La vita e gli anni ci avevano cambiati fuori, ma il mondo non era riuscito a svuotarci dentro, a renderci massa, a farci abbandonare i nostri sogni. Tu la musica, io l'impegno politico. Sognavamo un mondo diverso, più pulito e umano, Abbiamo cercato di testimoniarlo, con la nostra vita e i piccoli gesti di ogni giorno, per quelli che ci vivevano intorno. Addio, cuginazzo (come mi chiamavi tu). Un abbraccio forte e continua a fare buona musica dove sei ora. Perché nulla finisce mai per sempre e per davvero.

Tuo cugino

Giorgio

mercoledì 5 febbraio 2020

Franco Astengo, PCI e comunismo in Italia




Franco Astengo

PCI e comunismo in Italia
A proposito di "Azione comunista, Da Seniga a Cervetto" di Giorgio Amico

Giorgio Amico, attento osservatore di tutti i risvolti che hanno accompagnato le diverse realtà della sinistra italiana, ha appena pubblicato un testo:“Azione Comunista : da Seniga a Cervetto 1954 – 1966”. Una ricerca che tiene assieme due risvolti: quello riferito a un episodio clamoroso di lotta interna al PCI con l’abbandono del partito da parte di Giulio Seniga (già braccio destro di Secchia) e quello seguente relativo alla formazione del gruppo di “Lotta Comunista”, ancor oggi attivo in diverse parti d’Italia e in particolare in Liguria, tra Genova e Savona.

Il lavoro di Amico si addentra nei veri e propri meandri di composizione ricomposizione dei diversi gruppi all’epoca operanti alla sinistra del PCI, sia di origine trotzskista, sia di origine bordighista, e ancora dei loro contatti con altri gruppi di origine libertaria e di strani intrecci mantenuti da alcuni dei personaggi che si muovevano all’interno o ai margini di questa area politica con settori anticomunisti tra i quali quelli di origine socialdemocratica e altri di chiara natura provocatoria (il famigerato “Pace e Libertà” di Edgardo Sogno e Luigi Cavallo) fino a prolungati contatti con i servizi segreti mantenuti addirittura nella persona di Umberto D’Amato. Una storia complessa, per certi versi affascinante e inquietante come riflesso dei tempi in cui la lotta politica, condotta per alti ideali, finiva con lo sconfinare in livelli di scontro particolarmente aspri con particolari aspetti che possono essere giudicati come oscuri.

Non è facile riassumere un lavoro di così forte spessore in alcune proposizioni politiche. Mi permetto così di utilizzare una sintesi, una vera e propria “reductio”, raccolta attorno a due elementi. Il primo elemento me lo ha suggerito una mirabile sintesi formulata nel libro dallo stesso Amico interrogandosi sulle ragioni di questa lotta politica condotta sul filo di sottilissime diaspore nell’illusione di ravvedere in piccoli, se non inesistenti, movimenti l’avvio di una nuova tensione rivoluzionaria.

Spiega Giorgio Amico: “Il fenomeno è vecchio almeno quanto l’esistenza di gruppi rivoluzionari. E’ proprio il minoritarismo, vissuto come condizione politica permanente, a portare alla chiusura settaria e autoreferenziale (come nel caso di Bordiga e Maffi) o al sovraccaricare di valenze messianiche ogni evento che solo sembra spezzare la routine terribile e frustrante dell’isolamento e dell’impotenza pratica”.

Il secondo punto da sviluppare riguarda la lotta condotta contro il PCI in nome di diverse forme di ortodossia comunista. La lettura del testo di Giorgio Amico mi conferma in un punto di analisi che mi pare debba essere ancora sostenuta oggi a tanti anni di distanza dallo scioglimento del Partito Comunista Italiano. Il PCI ha rappresentato la forma politica del comunismo italiano, almeno fino alla formulazione della strategia del compromesso storico poi ridotta alla tattica della “solidarietà nazionale”. Strategia del “compromesso storico” attraverso la quale si segnava un punto di decisivo distacco anche da quella dei “fronti popolari”.

Una forma politica specifica era già identificabile in quella del PCd’I la cui particolarità era principiata fin dallo stesso congresso di Livorno attraverso il confronto fra le componenti originarie e poi aveva trovato una sua prima sistematizzazione nel III congresso di Lione del 1926, ben in precedenza alla “svolta di Salerno”.

La ragione per la quale si può considerare il PCI,almeno nella fase delle segreterie di Togliatti e Longo, quale forma politica compiuta, complessivamente esaustiva nel bene e nel male del comunismo italiano risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci, infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni. Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.

Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo. La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico.

Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza. Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale. La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato. Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista.

L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.

Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difese, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.

Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale. In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali. Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1975) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito attraverso l’estensione dello storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso. La concezione del marxismo in Gramsci è stata quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale (esattamente il contrario di quanto elaborato nei gruppi di cui scrive Giorgio Amico).

Il più valido spunto critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 da Raniero Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività. Panzieri era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”.

La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord” di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono agli spunti di analisi di Panzieri e dei “Quaderni Rossi” di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano.

Non risultò neppure all’altezza di quel confronto il punto  di dibattito apertosi al momento della scomparsa di Togliatti, ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista” (termine del resto rivendicato anche dalla stessa “Azione Comunista”, a mio giudizio in maniera erronea). L’iniziativa della “sinistra comunista” raccolta attorno a Pietro Ingrao all’XI congresso era stata avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri ( una riflessione ancora parzialmente diversa da quella avanzata con la successiva vicenda del “Manifesto”, il cui gruppo fu inizialmente influenzato dalle vicende del ‘68 e della stessa rivoluzione culturale cinese). Quella riflessione, sviluppata appunto a cavallo dell’XI congresso il primo svoltosi in assenza di Togliatti, rimproverava, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”) e di aver annacquato il marxismo nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi rivendicando un primato del politico sull’economico che aveva smarrito il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria (attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico.



Restarono così punti irrisolti di dibattito, cui i gruppi la cui attività è stata analizzata da Giorgio Amico nel suo testo non riuscirono a partecipare produttivamente rimanendo marginalizzati (come del resto verificatosi successivamente con il gruppo di “Lotta Comunista”) e rimasti fuori dal filone centrale della presenza comunista in Italia. Rimane, a questo proposito la testimonianza di elementi di dibattito nell’area comunista attraverso la cui rievocazione si possono comprendere meglio spunti di evoluzione e di modificazione progressiva nella proposizione del pensiero politico legato all’idea della rivoluzione e della lotta di classe rimasti comunque confinati in quella logica minoritaria cui si è già fatto cenno citando la formulazione adottata dall’autore.

Torniamo allora a quei punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo da chi era stato capace di individuarli e argomentarli. Nella nuova sinistra post – sessantottesca dentro le cui diverse soggettività pure si trovavano fermenti molto significativi emersero limiti forti di vero e proprio politicismo.

Il PCI dal canto suo, con l’elaborazione berlingueriana del “compromesso storico” negli anni’70, sviluppò una sorta di visione distorta del “primato della politica” . Una visione distorta che portò, sulla base del prevalere del concetto di governabilità, al collasso della teoria: ciò avvenne ben in precedenza alla stagione degli anni’80 nel corso della quale si pose la questione della liquidazione del partito avvenuta poi semplicisticamente all’insegna dello “sblocco del sistema politico” nell’esasperazione dell’utilizzo dell’autonomia del politico proprio in funzione della governabilità.

Per questi motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico (mantenendo comunque sul piano politico e anche economico il “legame di ferro”), primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI togliattiano è stato il soggetto politico che si può considerare quasi complessivamente rappresentativo del comunismo italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha ruotato attorno.

Lo scioglimento del  partito, avvenuto in condizioni di evitabile frettolosità e al di fuori da una qualsiasi ricerca di impostazione teorica alternativa ma semplicisticamente sull’onda dell’attualità, di una presunta “fine della storia” e della necessità già citata ( di natura davvero provinciale e politicamente angusta) di “sblocco del sistema politico”) ha dato origine ad un cesura epocale  che al momento apparve irrecuperabile: il patrimonio della stessa “sinistra comunista” che si era opposta all’operazione liquidatoria risultò disperso, al momento dell’esperienza del seminario di Arco del 1990 e del mancato raccoglimento del messaggio lanciato da Lucio Magri con la sua relazione “Il nome delle cose”. La diaspora tra Cossutta ed Ingrao ed il ritiro di Natta privò quell’area politica di riferimenti unitari per proseguire nella sua storia.

Nacque un soggetto come Rifondazione Comunista all’interno del quale il portato ideal – storicista del PCI e della stessa sinistra comunista non trovò particolare accoglienza sovrastato, in particolare nella fase dell’assunzione della segreteria di Fausto Bertinotti, dai concetti effimeri della personalizzazione e di un impasto tra movimentismo e governativismo, che hanno decreto in poco tempo la pressoché definitiva conclusione di quell’esperienza ed, in ogni caso, il suo essere superfluo al riguardo della realtà del sistema politico italiano e, soprattutto, rispetto all’apertura di una ricerca sull’attualità di un nuovo comunismo, dopo l’esperienza fallita dell’inveramento statutale dei fraintendimenti marxiani del ‘900.

I tempi sono sicuramente maturi per avviare una proposizione di un discorso di sinistra che affronti, finalmente, il tema delle nuove contraddizioni cercando anche di mantenere aperto il confronto con quelli che sono stati i punti più alti della sua storia sul piano teorico e politico.


sabato 1 febbraio 2020

Lo starnuto di Wuhan e il raffreddore mondiale



Coronavirus e economia mondiale
Raffaele K. Salinari

Lo starnuto di Wuhan e il raffreddore mondiale

Il coronavirus è arrivato in Italia mentre l’Oms dichiarava l’epidemia cinese da 2019-nCoV una «emergenza globale» elevandola così al rango di pandemia. La sua genesi sembra oramai accertata come proveniente dalla carne di pipistrello macellata a mani nude, il cui sangue ha poi infettato il paziente zero.

La densità di popolazione, l’iniziale cautela dei dirigenti cinesi e la virulenza del virus ha poi fatto il resto, scatenando l’epidemia che è già costata centosettanta morti e oltre ottomila persone colpite, un migliaio delle quali in gravi condizioni. Il contagio si è velocemente propagato al di fuori della città di Wuhan, epicentro del problema, raggiungendo, seppur ancora con pochi casi, tutti gli altri continenti. La memoria risale subito all’epidemia causata da un altro coronavirus, la Sars (Severe acute respiratory syndrome) del novembre 2002 iniziata nel Guangdong, e che uccise ottocento persone. Quella storia fu molto diversa dall’attuale: il paziente zero poco dopo i sintomi morì, ma non fu fatta una diagnosi precisa sulle cause del decesso. In quell’occasione i responsabili del governo cinese non informarono l’Oms fino al febbraio 2003, coprendo la notizia per questioni di ordine pubblico.

Quelle reticenze permisero al virus di diffondersi creando un’altra pandemia che si spense progressivamente, ma dopo ave creato un’ondata di panico globale. In questo caso invece, nonostante le lentezze iniziali, dovute anche all’elefantiaco apparato del Partito ed alla non sempre facili relazioni tra centro e periferia, la dirigenza ha dimostrato un’apertura rispetto ai dati clinici, e soprattutto alla loro condivisione, che ha permesso di organizzare, a livello mondiale, una rete di ricerca che indaga la natura mutante del virus e come contrastarlo. Ma non è certo solo questa la differenza, come pure la capacità dimostrata dai cinesi di governare l’emergenza sanitaria approntando presidi sanitari eccezionali, come la costruzione di ospedali ad hoc a Wuhan.

Dalla dinamica complessiva, infatti, e non solo dal punto di vista epidemiologico, possiamo dire che siamo di fronte alla prima vera pandemia globale nel senso più ampio della parola. Ciò che la globalizza non è dunque solo la diffusione intercontinentale, ma le relazioni economiche che legano il suo andamento ai mercati mondiali. La Cina della Sars, infatti, non era ancora quel gigante che rivaleggia con gli Usa e l’Europa per la supremazia economica, politica e militare.

Fu agli inizi degli anni dieci di questo secolo, con le olimpiadi di Pechino del 2008, che la Cina si preparò al sorpasso o almeno a diventare il global player che è oggi. Era l’anno che vide la Grande Crisi dell’economia finanziaria che dura ancora oggi con i suoi meccanismi di divisione internazionale del lavoro sempre più escludenti ed iniqui. Per capire quella temperie, ed ancora una volta la sua relazione con la pandemia di coronavirus, basti ricordare le affermazioni che all’epoca fece l’economista Nouriel Roubini:«Vi ricordate il detto che quando gli Usa starnutiscono, il mondo si prende il raffreddore? Ebbene: adesso gli Usa hanno la polmonite!».

Oggi la polmonite, non solo in senso figurato, ce l’hanno i cinesi, e la metafora, anche dal punto di vista economico, è più valida che mai. Non a caso le notizie che riguardano l’andamento della pandemia sono sempre più affiancate da quelle sull’andamento delle borse valori di tutto il mondo. Esiste infatti un nesso oramai più che evidente tra le percentuali del contagio ed il calo del Pil cinese che, a cascata, si ripercuote su quello mondiale. Se la «fabbrica del mondo» rallenta, o i suoi cittadini non si arricchiscono più con le percentuali a due cifre, tutto il sistema globalizzato dell’economia commerciale e finanziaria si ammala.

Se la «piccola» città di Wuhan viene isolata, o addirittura l’intera Cina restringe gli spostamenti interni o internazionali, la decrescita, infelice, della produzione si infrange come uno tsunami sulla già fragile economia mondiale, sempre sull’orlo della recessione. Ecco , allora, oltre alla solidarietà internazionale ed alla collaborazione tra scienziati, spiegata questa corsa ad annientare il virus, perché quando si è più fragili i danni possono essere letali.

il Manifesto, 1 febbraio 2020