mercoledì 27 giugno 2012

martedì 26 giugno 2012

Un processo per stregoneria nella Val Bormida del Seicento



Solitamente si associa la caccia alle streghe al periodo più cupo del Medioevo, in realtà si trattò di una intossicazione collettiva delle coscienze in un periodo di fortissima crescita intellettuale, quello del Rinascimento, della Riforma e della rivoluzione scientifica. Quasi che la fine di un mondo e la nascita di un'epoca nuova scatenasse fantasmi che andavano esorcizzati con l'eliminazione di ogni manifestazione di diversità. 

Giorgio Amico

Un processo per stregoneria nella Val Bormida del Seicento

I primi decenni del XVII secolo furono anni di ferro, segnati da guerre, carestie, pestilenze. Infuriava in Europa la guerra detta dei trent'anni che vedeva le grandi potenze di allora, Francia e Spagna, contendersi il dominio del continente. L'Italia, debole e divisa, era diventata terra di conquista e campo di battaglia e la Valle Bormida non era certo un'oasi felice. Anzi, il fatto che il Marchesato del Finale rappresentasse la principale base mattima spagnola al Nord faceva della Valle la via principale per raggiungere Milano e la Germania dalla Spagna e dunque l''itinerario preferito dagli eserciti imperiali con tutto quello che ciò comportava. Per anni la Valle Bormida e il Monferrato furono oggetto di saccheggi e violenze continue da parte degli eserciti regolari in transito, delle truppe mercenarie al soldo dei vari signori e di bande di fuorilegge e di disperati che approfittavano della mancanza di un'autorità stabile che facesse rispettare la legge. Lo stato di devastazione delle campagne che ne conseguì provocò il crollo della produzione agricola, in gran parte rivolta all'autoconsumo, e dunque l'insorgere di frequenti carestie che indebolirono la popolazione. Si crearono così le premesse per il rapido e terribile diffondersi della peste portata in Italia dai soldati. Lo scenario e gli anni in cui Alessandro Manzoni ambienta il suo capolavoro "I promessi sposi".

Particolarmente grave risultava all'inizio degli anni Trenta del Milleseicento la situazione del tratto di Valle fra Dego e Spigno, governato dal Marchese di Garessio Francesco Spinola per i feudi di Dego, Piana e Giusvalla e dal Marchese Marco Antonio degli Asinari Del Carretto di Asti per la parte di Spigno, Rocchetta e Turpino. Nell'aprile del 1631 truppe tedesche di passaggio dopo aver devastato alcune frazioni isolate avevano imposto ai cittadini di Cairo Montenotte il pagamento di una ingente somma per evitare l'occupazione e il saccheggio del borgo. Con gli "Alemanni", come venivano chiamati quei soldati, era arrivata la peste che in particolare aveva colpito la zona di Piana, quasi spopolandola.

"In Piana - si legge in una cronaca del tempo - del continuo morono del morbo contagioso, et quello [il Marchese di Garessio Antonio Spinola] procede in non voler far nettare le case infette; il signor Marchese ha abbandonato detto locho, e, per quello si va dicendo, credo vi sijno più poche persone".

Il malcontento popolare causato dalla guerra e dalla fame e il terrore per il dilagare inarrestabile del morbo trovarono presto uno sfogo nella caccia alle streghe. In Valle si diffusero voci, portate da viaggiatori provenienti dal Milanese dove si era aperta la caccia agli "untori" accusati di diffondere la pestilenza, che i mali sofferti fossero il frutto dell'operare di streghe e stregoni agenti agli ordini del Demonio. In una società piccola e chiusa come quella valligiana i sospetti caddero su chi veniva considerato marginale, estraneo (e dunque ostile) alla comunità, quasi sempre donne di umilissima condizione il cui modo di vivere aveva per le più varie ragioni determinato sospetti e risentimenti da parte dei maggiorenti (sempre maschi) dei borghi.

Accadde così che due donne di Cairo Montenotte, Lucia e Maria Langherio fossero accusate di aver ballato col Diavolo in una località detta Pianazzo e aver ricevuto l'ordine di andare a spargere la peste nella città di Savona. Ma arrivate a San Bernardo nei pressi del luogo dove nel 1536 la Madonna era apparsa a Antonio Botta, il Demonio stesso le aveva fermate dicendo a Lucia: "Fermati, non andare più avanti, perchè Maria Vergine Madre di Dio non vuole, essendo la città di Savona sua divota, ed essa l'ha in protezione".

Una storia confusa, di cui non si sa altro e che non ha lasciato tracce storiche. Non si conservano documenti relativi ad un processo e tantomeno ad una esecuzione, nonostante la tradizione popolare parli di roghi, ma questo avvenimento, sia o no realmente accaduto, rende bene il clima esistente sul territorio e in qualche modo fa da introduzione al dramma, questo vero e documentato, che stava per svolgersi più a valle, nel paese di Spigno.
Il 9 luglio 1631 il procuratore fiscale della curia vicaria di Spigno denuncia a Giovanni Verruta, parroco di Spigno e vicario foraneo, come “alla villa di Rocchetta di Spigno siano cristiani e cristiane puoco timorati di Dio Benedetto che commettono molti disordini come inobbedienti a Santa Chiesa, massime di streghe, commettendo molti affascinamenti et stregherie contro gli ordini di Santa Madre Chiesa...”

Il parroco inizia l'indagine, si reca a Rocchetta, raccoglie testimonianze e denunce da parte di alcuni abitanti, tutti uomini, economicamente benestanti, definiti "dabbene" e dunque considerati affidabili. Queste testimonianze sono concordi nel segnalare alcune donne considerate potenzialmente sospette. Immediatamente iniziano gli arresti. Complessivamente vengono inquisite quattordici donne, abitanti in varie località della vicaria (comprendente le parrocchie di Piana, Giusvalla, Spigno, Merana, Turpino e Rocchetta e alle dipendenze della diocesi di Savona) . Sono donne di varia età e tutte hanno in comune una cosa: appartengono allo strato più povero della popolazione e si comportano in un modo giudicato strano, non consono alle regole comunitarie e ai precetti della Chiesa.

Le poverette, accusate di non partecipare con assiduità ai riti religiosi, di avere avuto commerci con il Diavolo e di "mascare", cioè di spargere il malocchio provocando con le loro arti la morte di bambini in fasce e animali e la distruzione dei raccolti, si proclamano innocenti. A questo punto, il parroco, che vuole ottenere al più presto delle confessioni, scrive a Savona al suo vescovo richiedendo il permesso di usare la tortura negli interrogatori.

“Si sono interrogate una volta - scrive in una lettera del 21 luglio - le donne incarcerate et il Dottore [l'incaricato della giustizia civile] dice che converrà torquerle.”

Il vescovo prende tempo, evidentemente qualcosa nella relazione del parroco non lo convince. Decide dunque di coprirsi le spalle, rivolgendosi ad una autorità superiore, quella del Padre Inquisitore di Genova e ordina pertanto al Verruta di non procedere ulteriormente, ma di trasmettergli gli atti dettagliati dell'inchiesta.

La posizione della Chiesa è cauta, non si vuole ripetere il caso di Triora dove qualche anno prima decine di donne erano state arrestate, torturate e (alcune) uccise, senza che l'indagine fosse poi approdata a qualcosa di concreto. Monsignor Spinola investe dunque della questione i domenicani genovesi e il Padre Inquisitore gli risponde consigliando prudenza e comunicando la necessità di trasmettere gli atti a Roma per avere lumi “come stimerei bene facesse anco VS ill.ma, avvisando intanto con sue lettere quel Signor Marchese che s'astenghi di tentar cosa alcuna contro di dette streghe, dovendo prima esser conosciuta la loro causa dal Sant'Offizio”

Agendo di conseguenza, il vescovo Spinola informa Roma, dichiarando di non aver acconsentito a dare “autorità assoluta” al vicario foraneo che con l'assistenza del giudice secolare intendeva procedere immediatamente e l'intenzione di non fare nulla “che prima non ricevi dalle SS.VV. Eminentissime espresso ordine di quello dovrò fare in causa si grave”.

Nella bozza della missiva al Santo Uffizio lo Spinola aveva scritto di trasmettere "il sommario della causa contro alcune streghe", ma la parola "streghe" risulta poi cancellata e sostituita con il più neutro termine "persone". Una correzione che la dice lunga su quanto la Curia di Savona prendesse sul serio la denuncia del parroco di Spigno.

Una cautela non gradita dal vicario, sostenuto dal Marchese Asinari, che, nonostante gli inviti ad astenersi da ogni ulteriore azione, continuò a premere su Savona per ottenere il permesso di procedere nell'inchiesta. Il fatto era che il potere politico, allarmato dal montare del malcontento popolare e della richiesta di misure drastiche e immediate contro le donne incarcerate, non intendeva andare tanto per il sottile, nè temporeggiare. Per cui, nonostante la mancata autorizzazione vescovile, a Spigno l'inchiesta andò avanti e con i mezzi spicci considerati necessari, tanto che presto iniziarono le confessioni.

In una lettera del 29 settembre 1631 don Verruta relaziona sul processo in corso nonostante l'ordine vescovile di non procedere, e comunica che dopo "hore di corda et altri tormenti" le accusate avevano confessato, "fuor d'una convinta da complici nè delitti che per opera del diavolo nega tuttavia". Dalle dichiarazioni estorte con la tortura risultava che le quattordici donne si erano date al diavolo, descritto come un bel giovane vestito di verde, che “puoi si fece adorar con farsi baciar il cullo e conobbe sodomitice carnalmente”.

Le imputate dichiaravano di aver stretto un patto con il Maligno in cui si impegnavano a non dire mai la verità in confessione, a non inghiottire l'ostia, ma tenerla per poterla poi calpestare. Le poverette avevano confessato anche di aver volato a cavallo di un bastone fino al luogo del Sabba dove “dopo aver ballato con il diavolo da esso furono tutte conosciute carnalmente sodomitice”, di aver fatto morire bambini e bestiame, di aver causato tempeste. E questo nel seguente modo: “fatto un fosseto, ivi tutte orinarono, com'anco il diavolo, indi mescolando quell'orina il diavolo vi mise un poco di polvere et, levandosi in alto fumo, si fanno nuvole da dove dicono al diavolo metti giù metti giù”. Per delitti così gravi la pena non poteva essere che la morte e questa il parroco chiedeva per tutte.

Ma la risposta della curia è di nuovo negativa. Il 3 ottobre il vescovo di Savona intima al parroco: “non innovi, né permetta che s'innovi cosa alcuna, in far essecutione contro dette incolpate, sino all'ordine e all'avviso della Sacra Congregatione”

Spinto dal Marchese, che gode dei favori del re di Spagna e che si sente dunque intoccabile, il Verruta protesta “nei luoghi circonvicini si è venuto all'essecutione contro simili bestie, il che fa stupir qui s'usi tanta difficultà...”, ma assicura comunque il rispetto degli ordini del vescovo

Passano alcuni mesi e il 31 gennaio 1632 arriva finalmente la risposta da Roma: l'inchiesta è giudicata molto difettosa, il processo contiene una moltitudine di nullità procedurali, non ci sono prove, c'è stato un uso eccessivo della tortura. Il vescovo viene invitato a far trasferire presso di sé le accusate per interrogarle personalmente senza usare alcuna forzatura:

“Di nuovo ex integro si sentano, senza suggerirle cosa alcuna, ma solo interrogarle se sappiano la causa della loro carceratione, e si devono lasciar dire da sé, perchè apparischino le contrarietà e variationi degli esami”.

A febbraio una lettera del Padre Inquisitore di Genova preme ulteriormente perchè la causa passi direttamente nelle mani della Curia savonese: “Juntanto sarà bene che VS Ill.ma avvisi quel Signor Marchese che non eseguisca cos'alcuna se prima il Sant'Officio non ha fatto la sua parte, acciò non incorresse nelle censure come già fece il Commissario di Triora...”

Richiesta che non ebbe seguito perchè il 29 febbraio Don Alfonso, figlio del Marchese Asinari, rispose con arroganza al vescovo che il problema si era risolto da solo: “Già che, per la longhezza e la dilatione, sono tutte morte, et con haver finito avanti hieri di passar la barca di Caronte, ci hanno levato a tutti questo impiccio...”.

Non c'era dunque più alcun motivo di contrasto tra potere religioso e potere civile. Diventate un problema, le donne erano state tolte di mezzo senza clamori o pubblicità inopportuna e inutili risultarono i tentativi di Monsignor Spinola di far luce su quanto era realmente accaduto nelle carceri di Spigno.

Il 10 maggio la Curia chiede al parroco di Spigno “ se dette streghe sono morte da se stesse naturalmente o vero di morte violenta e per ordine di chi e se son statte fatte morire inanti l'inhibitione che fu fatta sotto li 22 febbraio passato...”.

Il 20 giugno il parroco rispose prendendo tempo e dicendo che appena possibile “saria mandato un sommario amplissimo”.

Poi più nulla. Il "sommario amplissimo" non giungerà mai, nè verrà più richiesto o sollecitato. Quei devoti uomini di Chiesa (il vescovo di Savona, gli inquisitori di Genova, il Santo Uffizio di Roma) non insistettero: ritenevano di aver fatto comunque il loro dovere e tanto bastava. A nessuno interessava veramente di quattordici povere contadine che contavano meno di niente.

mercoledì 20 giugno 2012

Castellermo montagna sacra





Inizia all’alba del 21 giugno, il giorno più lungo del 2012, la missione promossa dalla Fondazione Tribaleglobale destinata a documentare le tracce millenarie dei riti antichi praticati sul Monte Castellermo dal popolo Ingauno .
Solis Statio” significa la fermata, l’arresto del Sole, e il Solstizio identifica il giorno in cui il Sole raggiunge la massima distanza dall’Equatore determinando così il giorno più lungo dell’anno.
Il luogo più noto in questo contesto è forse Stonehenge, ma praticamente ogni cultura antica ha celebrato questo evento, collegandolo a rituali propiziatori del benessere delle Comunità, così come sono numerosi i Megaliti in pietra che in questo esatto momento rappresentano allineamenti tra la posizione delle stelle e i punti di osservazione creati dall’uomo.
Per questo motivo gli studiosi di Tribaleglobale hanno scelto il 21 giugno per iniziare una serie di osservazioni volte a documentare alcune ipotesi legate alla millenaria sacralità di questa montagna che domina le valli Arroscia e Pennavarie.
Dalle prime ricerche emergono ipotesi sorprendenti sia circa le tracce di culture Megalitiche, sia circa le ritualità medioevali e più recenti legate al culto di San Calocero, martire cristiano del II secolo : si indaga anche su notizie che narrano di un presidio Templare.
La missione è coordinata da Giuliano Arnaldi , sovrintendente del MAP Museo di Arti Primarie .
Ne fanno parte Carmelo Prestipino, Ispettore Onorario del Ministero per i Beni Culturali e grande esperto di culture mediterranee antiche, Maria Chiara di Pace, responsabile del Dipartimento di Archeologia del MAP, Andrea Mordacci, Paleoarcheologo e profondo conoscitore della cultura delle Statue Steli della Lunigiana, Angelo Resmini, Speleologo esperto in ricerca archeologica in grotta: Andrea e Davide Bronda curano la logistica sul campo , Giorgio Amico e Renato Breviglieri coordinano la ricerca storica.
Gli obiettivi concreti sono
- L’esatta individuazione del “Tre pé” , il Dolmen andato distrutto da un atto vandalico nel 1946.
- L’individuazione di ulteriori reperti destinati alla esatta collocazione temporale dei primi riti praticati su Castellermo
- L’approfondimento delle origini della Storica Processione che si svolge sul Monte ogni 5 anni, in memoria di San Calocero.
- il ripristino di una “cengia” destinata alla possibilità di realizzare anche in questa suggestiva valle arrampicate e una palestra per rocciatori.
Ogni novità verrà documentata sul canale http://www.youtube.com/tribaleglobale con appuntamenti giornalieri il 21, 22,23 giugno alle ore 18.
Venerdì 22 alle ore 12 presso il Comune di Vendone conferenza stampa di resoconto circa gli elementi emersi dalla Missione.
Pensando a questa montagna come ad un luogo vivo come la memoria che custodisce, sono previsti per sabato 23 a partire dalle 15 una serie di eventi aperti a chiunque abbia voglia di fare una passeggiata sul Monte:
LEGGERE SULL’ERMO COLLE”
E’ stata allestita una biblioteca con una piccola selezione di libri legati aI temI connessi alla Missione ma anche di poesia e narrativa
alle 18 verrà inaugurata la mostra
WISHESI
Piccole sculture rituali in cemento di Filippo Biagioli.
Alle 18.30 Giorgio Amico e Renato Breviglieri presenteranno
EREMITI
Conversazione a margine dell’omonimo libro di Espedita Fisher
alle 19.30
UN’ORA DI ASCOLTO DEL SILENZIO
Segue la proiezione del film
IL GRANDE SILENZIO DI Philip Groning

Ha ancora senso scrivere?




Il testo che segue uscirà come introduzione ad una raccolta di poesie e racconti di prossima pubblicazione.

Giorgio Amico

Ha ancora senso scrivere?

Introdurre una raccolta di poesie e testi come questa, risultato della partecipazione ad un premio letterario, non è facile. Una domanda nasce spontanea già da una prima scorsa delle pagine qui raccolte, complessivamente di buon livello, alcune di notevole qualità. Che cosa significa scrivere? Perchè si scrive?

Vecchia, eterna domanda a cui ogni epoca e ogni cultura ha cercato di rispondere. Ma così la domanda è malposta, forse, tutto sommato, sarebbe meglio chiedersi "per chi"si scrive. Così formulata, la questione ci pare più semplice. Nipotini di Freud e di Jung, la risposta sgorga spontanea e limpida come acqua di fonte: si scrive innanzitutto per se stessi. Per dare senso, ordine e significato alle proprie esperienze, al proprio vissuto, al proprio mondo interiore.

Ma a complicare tutto giunge la considerazione che da parte di chi scrive tale significato si vuole poi condividere con gli altri, far diventare patrimonio collettivo. Elemento in sé positivo che fa sì che scrivere sia anche atto pubblico e dunque già solo per questo politico. Scrivere è testimoniare, ma su questo ritorneremo. Ciò che ci importa ora è vederne le conseguenze. Perchè questa legittima aspirazione determina, è ovvio, la spinta a pubblicare. E a questo punto le cose si complicano, perchè entrano in gioco le leggi del mercato e del profitto. Perchè pubblicare significa quasi sempre sottostare a regole non scritte, ma non per questo meno costrittive. E il mercato editoriale italiano non fa eccezione, soprattutto in momenti di crisi accentuata come l'attuale con il tracollo delle piccole librerie e della piccola editoria militante e indipendente ad aggravare la situazione.

Sappiamo di andare controcorrente e che la nostra affermazione potrà suonare strana a molti, ma riteniamo fermamente che pubblicare non sia una conseguenza naturale dello scrivere, ma solo un suo possibile, ma non necessario, sviluppo. Per noi l'atto creativo vale in sè e in sè si esaurisce. Di questo siamo certi. Scrivere è prima di tutto intraprendere un viaggio alla ricerca di sè. Impresa certo non facile e comunque pericolosa, perchè (ed è la lezione grande del surrealismo) chi vi si accinge entra in un campo di forze che non è possibile controllare, alle quali ci si deve comunque abbandonare se si vuole essere davvero creativi. Perchè qualunque sia la storia narrata o il pretesto del verso è sempre di altro che si scrive, è sempre ad un altrove che si rimanda.

Ma tutto quanto finora detto non esauirisce il tema. Perchè scrivere è anche un lavoro, o meglio un'arte, che ha le sue regole e i suoi segreti. Un'arte che comporta un non facile apprendistato. E dunque scrivere è faticoso e riempire una pagina stanca. Lo ricordava Beppe Fenoglio in una lettera a Italo Calvino, polemizzando con chi a proposito dei suoi racconti parlava di felice e spontaneo realismo:

"Scrivo per un'infinità di motivi. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti."

Ma poichè non si vive isolati come monadi leibniziane, scrivere è infine testimoniare di un'epoca e di un mondo che non è, ma potrebbe essere. Qui narrare diventa costruzione inesausta del mito e si salda con quanto già detto in apertura. Perchè il mito, c'è l'ha insegnato Eliade, non è il contrario della realtà, ma prima di tutto un racconto la cui funzione è rivelare in che modo qualcosa è avvenuto, non più a livello individuale, ma collettivo. E allora scrivere significa comporre una narrazione capace di contenere un universo di significati assai utile per comprendere il mondo, grande e terribile, avrebbe detto Antonio Gramsci, in cui viviamo.

E l'uomo moderno, che troppo spesso è visto come collocato nella dimensione unica della tecnologia, ama come i suoi predecessori, almeno dalla rivoluzione del neolitico in avanti, sentire raccontare delle storie e raccontarne, perchè questo è ancora il modo più efficace per sentirsi parte di un mondo articolato e significante. E in questo nulla è cambiato dai tempi di Omero.

domenica 17 giugno 2012

Bordighera: Sguardi sul Novecento




Bordighera Villa Margherita
Sguardi sul Novecento
27 giugno - 30 settembre 2012

A partire da mercoledì 27 giugno, e fino al 30 settembre, la Fondazione Famiglia Terruzzi–Villa Regina Margherita, affiancherà all'entusiasmante percorso museale inaugurato nel mese di giugno dello scorso anno, la mostra “Sguardi sul Novecento”, un’intensa carrellata di grandi autori che hanno segnato l’arte del XX secolo: De Pisis, Severini, De Chirico, Casorati, Morandi, Fontana, Martini, Rosai, Schifano, Manzù e molti altri, con 55 opere tra gli anni Venti e Sessanta prestate, per l’occasione, non solo dalla collezione Terruzzi ma anche da altre, importanti raccolte private italiane.

La Mostra è la testimonianza di un clima culturale, di un intreccio tra artisti, nuovi collezionisti e mercato che ha percorso tutto il Novecento a partire dal terzo decennio, consentendo il diffondersi dell’arte contemporanea, motivando il supporto a maestri spesso squattrinati, coltivando passioni, sostenendo genialità ancora in ombra, dando vita a raccolte che , oggi, ci permettono di avere riscontro dell’opera dei maggiori protagonisti del Novecento. Ed è appunto all’arte italiana del secolo scorso attraverso gli occhi e i gusti del collezionismo privato,risorsa culturale che è rimasta viva e vitale per tutto il Novecento, che la Fondazione Famiglia Terruzzi- Villa Regina Margherita (costituita da Famiglia Terruzzi, Comune di Bordighera, Provincia di Imperia e Regione Liguria ) dedica questa importante esposizione dal 27 giugno al 30 settembre, a Bordighera a pochi passi dalla Francia, in quel nuovo e straordinario polo museale sorto dal connubio pubblico-privato, che è Villa Regina Margherita. La villa, che fu residenza dei Savoia, dallo scorso anno è aperta al pubblico -dopo un integrale restauro finanziato dalla Fondazione Anna Fiamma Terruzzi- esponendo oltre 1200 pezzi di grande pregio della collezione del noto mecenate: più di 170 dipinti dal Tre al Settecento, superbi arredi d’alto antiquariato, arazzi, tappeti, argenti,ceramiche, porcellane.Opere selezionate e allestite in via permanente nel fascinoso edificio , circondato da un parco secolare e dotato dei servizi di un grande museo: biblioteca specialistica , gabinetto di restauro, caffetteria con terrazza panoramica e vista fino a Monaco, bookshop Skira. 

mercoledì 13 giugno 2012

Le case di Dino Gambetta





Venerdi’ 22 Giugno p.v. alle ore 18

nei locali della casa natale del Presidente della Repubblica Sandro Pertini (1896/1990)
a Stella San Giovanni (Savona)

inaugurazione della mostra del Maestro

Dino Gambetta

Dal titolo:
Dino Gambetta – Le Case”

La personale del Maestro Dino Gambetta, vuole essere un omaggio al territorio locale, con particolare riferimento agli inserimenti abitativi storici, mantenuti o scomparsi, ma in ogni caso ben vivi nella sua memoria e presenti nelle sue opere.
L’esposizione gode del Patrocinio del Comune di Stella San Giovanni e dell’Associazione “Sandro Pertini”.

La mostra proseguirà nei giorni 23/2429/30 giugno e 1 luglio pp.vv..

Orari di visita: dalle ore 18.30 in poi.
Visite su appuntamento telefonando al n. cell.: 339 3921666.




Mauro Baracco

Le case di Dino Gambetta

Amo pensare che ben lieto sia il Presidente de il “…si riempiano i granai..” guardando, dal suo laicissimo Aldilà dei Giusti, le opere che Dino Gambetta presenta qui, nella sua amata Stella San Giovanni nella quale egli nacque, mosse i primi passi di giovane amante della Libertà ed infine volle tornare a riposare nel tempo: contento per il clima di allegria che sempre accompagna le iniziative d’arte dell’Amico Dino, felice per il valore di “mostra-manifesto” che questa personale racchiude.

Uso tale definizione perché Dino con il suo collettivamente accessibile linguaggio espressivo, del quale non gli saremo mai sufficientemente grati, ci offre alla vista una serie di acquarelli su carta che assumono, appunto, la valenza di un vero e proprio manifesto ambientale.

L’Artista, con le sue preziose immagini, rende omaggio a nostri avi certamente poveri di capitale ma ben dotati di saggezza che furono capaci di pensare ed erigere umili contenitori delle proprie vite, averi e valori, nel massimo riguardo di ciò che Madre Natura aveva posto nelle loro mani e porge idealmente un ringraziamento a tutti coloro che nel tempo seppero onorare tanta trascorsa sapienza, consegnando a se stessi e contemporaneamente a tutti gli amanti del “Bello”, edifici come “A Cà da Melin-na” e “A Cà du Paxio”.

Fra di essi, voglio nominare due “furesti” che più di altri reputo meritino una citazione: per prima voglio menzionare Margherita Christian Stein, donna di cultura immensa a mio parere non sufficientemente ricordata, dalle nostre parti, da chi dovrebbe (come spesso accade ai migliori); a lei dobbiamo la salvezza dalle ruspe scellerate eternamente insonni, di quel diamante splendente e sommerso dal cemento che è, in Albissola Marina, la millenaria “Pittalodola”: autentico capolavoro di cultura contadina, da pochi conosciuto e nel quale l’amico Dino ebbe il privilegio e la fortuna di operare.

A seguire, considero doveroso ricordare in questa occasione, al di là del suo conclamato valore intellettuale e della generosità immensa dimostrata a tempo debito per il nostro territorio, Asger Jorn, al quale va il merito di aver recuperato dall’oblio la casa sulla collina dei Bruciati che trasformò in allora in un centro vitale della cultura internazionale, nel più alto rispetto della sua essenza originale.

Dino Gambetta, con la leggerezza che gli è propria, lancia un appello accorato e un’invettiva ferocemente soave: appello in quanto “A Cà de Culumba” ed altre ancora delle quali questa esposizione fa’ dovizioso elenco, sono alcune delle antiche case in disperata attesa che qualche Amministratore lungo-vedente o qualche indigeno o furestu dotati della dovuta sensibilità ed intelligenza diano loro nuova vita.

Invettiva feroce infine: diverse delle abitazioni raffigurate nelle opere di Dino Gambetta, vivono, infatti, unicamente nel suo ricordo, annichilite dall’insipienza di chi non ha saputo conservare il prezioso patrimonio che antenati poco facoltosi e quasi certamente altrettanto carenti di ortodosso sapere scolastico aveva avuto l’intelligenza di “creare”.

Eh…sì: penso proprio che il nostro amato, intelligente e a tempo dovuto impetuoso Sandro Pertini, “U Prescidente”…avrebbe ben gradito.

martedì 12 giugno 2012

Elementi libertari nel Risorgimento livornese e toscano




Circolo Culturale "Errico Malatesta" con la collaborazione del Comitato Livornese per la promozione dei valori risorgimentali

Giovedì 14 Giugno ore 17
Sala consiliare della Provincia di Livorno

Presentazione del volume:

Elementi libertari nel Risorgimento livornese e toscano

Atti del convegno di studi organizzato nel marzo 2010 dal Circolo Culturale "Errico Malatesta"

Quella che si propone è una ricerca sulle commistioni tra Risorgimento e primo movimento operaio, sugli spunti libertari e le radici dell'anarchismo a dimensione "italiana".

Al centro di questi studi c'è la Toscana del primo Ottocento, cuore politico e culturale, ma anche luogo di movimenti collettivi legati ai grandi cambiamenti economici in atto. Un Risorgimento popolano e refrattario, più sovversivo che patriottico. Una realtà politica e sociale interessantissima e poco conosciuta: la diffusione dei circoli libertari a Prato, nella zona apuana e a Livorno; i contatti dei libertari toscani con mazziniani e  garibaldini; il messaggio inequivocabilmente libertario di Pisacane, la visita di Bakunin a Livorno e i suoi incontri e scontri con Mazzini e Guerrazzi e, ancora, la partecipazione ai tanti eventi insurrezionali, dagli assalti alle guarnigioni, agli attentati, alle rivolte contro il carovita. E poi i fogli di agitazione, i giornali, i luoghi di ritrovo, la presenza attiva delle donne, i primi nuclei sindacali, i locali da ballo.

In breve una lettura inedita del Risorgimento, diversissima da quella elitaria consegnatoci dalla storiografia più consueta.

sabato 9 giugno 2012

Bruno Cassaglia, Saturazioni poetiche




Inagurazione  della personale di Bruno Cassaglia

alla Galleria Ghiglieri di Finale Ligure

con la performance art "poco prima del silenzio"
di "Alidermes" ( Bruno Cassaglia, Alessandra Cevasco)
sabato 9 giugno alle ore 17.    

Omaggio a Andreu Nin nel 75° anniversario della sua scomparsa



75 anni fa veniva assassinato dagli stalinisti Andreu Nin, fondatore e leader del POUM (Partido Obrero de Unificacion Marxista), rappresentante di un marxismo libertario e critico ancora oggi attuale. Una grande manifestazione lo ricorda a Madrid. Pubblichiamo quanto ricevuto dai compagni (e amici) della Fundacion Andreu Nin.

FUNDACIÓN ANDREU NIN



JORNADAS ESTATALES DE LA FUNDACIÓN ANDREU NIN EN MADRID

Homenaje a Andreu Nin en el 75 aniversari​o de su desaparici​ón

6 de junio de 2012

Centro Social Tabacalera (C/ Embajadores, 53)


-10,30 h. Inauguración: Mª Teresa Carbonell y Enrique del Olmo.

-10,45 h. El POUM en Madrid. Ponentes: Paco Carvajal y Jaime Pastor.

-12,00 h. Mujeres del POUM. Proyección documental “Doblemente Olvidadas”. Ponentes: Mª Teresa Carbonell, Jordi Gordon (autor del documental). Moderadora: Ana Fernández Asperilla.

-14,30 h. Comida en el Centro Social Tabacalera

-17 h.Presentación de los libros “Loredo Aparicio en el país de los soviets” (presenta Boni Ortiz) y “Virgilio Leret, una vida al servicio de la Segunda República (presenta Antonio Cruz)


Salón de actos del Ateneo de Madrid (C/ Prado 21)

-18,30 h. Homenaje a Andreu Nin. Presentación Paco Lobatón. Se ha invitado a participar a un amplio colectivo de personas y entidades de todo el ámbito político y sindical de la izquierda, así como a personas del mundo cultural y de la comunicación

Proyección del documental “Operación Nikolai”


Librería La Marabunta /C/ Torrecilla del Leal 32

-22 h. Encuentro de jóvenes poumistas


17 de junio de 2012

Plaza de Canalejas esquina calle de la Cruz.

-11 h. Recorrido por el Madrid republicano con Fernando Cohnen.

-14 h. Aperitivo de confraternización.  

La Rafanhauda


E' disponibile il secondo numero della nuova serie de "La Rafanhauda" pubblicazione di cultura e studi della Rinascita Occitana. Il fascicolo, illustratissimo, contiene saggi sulla lingua occitana, sulle modalità tradizionali di distillazione a Chaumont, sui Santoun (le statuette del presepe occitano), sugli strumenti musicali tradizionali delle valli occitane e sulla enclave occitana di Guardia Piemontese in Calabria.

La rivista, frutto del lavoro di studio e animazione culturale, di un gruppo di giovani ricercatori rappresenta una delle voci più vivaci degli occitani d'Italia e il tentativo di far circolare nell'ambito più vasto possibile informazioni e curiosità su una realtà culturale e sociale, quelle delle valli occitane "piemontesi", ricchissima e millenaria, ma ancora troppo poco conosciuta. 

La Rafanhauda
N.2, Primma de 2012

Sommario

- Derant prepaus (Alessandro Strano)
- La Juliverto (Valerio Coletto)
- Ricordi di distillazione a Chaumont (Tiziano Strano)
- Glossaire etimoligique sus la distillacion (Alessandro Strano)
- La piva d'Estròp (Dino Tron)
- Santoun, presepe d'Occitania (Elisa Salvalaggio)
- Appunti storici su Guardia Piemontese (Domenico Iacovo)
- Sinhalacions: Lou Dalfin, Cavalier Faidit (Emanuele Rizzo)

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giovedì 7 giugno 2012

Gianluca Paciucci, Su guerre e violenza




Una riflessione di Gianluca Paciucci su un tema purtroppo sempre molto attuale. L'articolo verrà pubblicato sul numero di settembre di Guerre&Pace.


Gianluca Paciucci

Su guerre e violenza. Alcuni libri


Il primo libro di cui ci occupiamo è un libro agghiacciante: Perché siamo così ipocriti sulla guerra? (Milano, Chiarelettere, 2012, pp.84) del generale Fabio Mini, “capo di stato maggiore del Comando Nato in Sud Europa”, “comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo”, leggiamo nella nota bio-bibliografica. È agghiacciante perché con secca enfasi vuole mostrarsi controcorrente ('ora vi mostro come sa scrivere un generale italiano, come sa essere superiormente anticonformista...') e che invece è pieno di luoghi comuni. Nei capitoli del volume, una domanda, quella del titolo, e cinque risposte, Mini pronuncia accuse implacabili al complesso militare-industriale che domina il mondo: uso costante dell'inganno (il banale “la verità è la prima vittima della guerra”, p.21); legame tra guerra e potere economico (“...la guerra è una questione di profitto, spesso sporco, e gli Stati sono al servizio dei grandi affari mettendo a disposizione le risorse pubbliche e dando la copertura di legittimità all'uso della forza...”, p.35 con elenco di imprese i cui profitti sono aumentati a dismisura negli ultimi dieci anni); violazioni del diritto internazionale (come in Kosovo dove “abbiamo partecipato alla guerra umanitaria (...) senza alcun avallo preventivo delle Nazioni Unite, senza essere minacciati e schierandoci dalla parte di bande armate irregolari addestrate da mercenari americani [statunitensi, ndr]”, p.51); fascino della guerra (“l'ipocrisia serve a coprire il gusto della guerra, il piacere del combattimento, della conquista e della razzia”, p.61). 

Tutto bene, allora? Questo è un libro condivisibile anche dai pacifisti? No. L'alternativa che Mini propone non è certo, e nemmeno potrebbe esserlo visto il suo grado e la sua storia, un passaggio dalla denuncia all'azione contro la guerra, ma un'uscita dall'ipocrisia che permetta di dire la parola guerra, solo aggiungendovi l'aggettivo “necessaria” (“La guerra stessa non è una vergogna se è necessaria, se viene condotta salvaguardando la dignità e se viene affrontata come una cosa seria, una questione di vita o di morte per lo Stato”, pp. 56-7): un'uscita ipocrita dall'ipocrisia, una delle tante proposte dei finti anticonformisti degli anni nostri, come Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri, Massimo Fini, e tanti altri, troppi, e tutti maschi. Come può la montagna della requisitoria di Mini partorire il topolino di una proposta riassumibile nella massima di Sun-Tzu, ovvero che il generale migliore è “colui che è in grado di vincere senza combattere” (p.7)? Non gli passa per la testa che è in quel vincere che si riassume tutta la violenza del secolare dominio di patriarchi, generali e uomini d'affari? Di vittorie giuste e sanguinarie è piena la storia, a partire dagli sforzi antiumani compiuti per ottenerle: intere economie e milioni di vite programmate per il massacro. 

Che il libro di Mini piaccia anche a certa sinistra (“un lucido e attualissimo pamphlet (...) scritto da un tecnico che più politico e controcorrente non si può”, nell'intervista a Mini di Tommaso Di Francesco, “L'ipocrisia, un affare di guerra”, Il Manifesto 15.05 2012) non stupisce più di tanto. Una sinistra, questa, affascinata dalla geopolitica per cui poco resta all'autonomia dei popoli e niente, nei popoli, a quella del genere femminile, non a caso solo di sfuggita citato da Mini: la “nota debosciata” (che trivialità anticonformista) Elena (p.8) e Pentesilea: quando Achille “si rende conto di aver colpito a morte Pentesilea, l'avvenente regina delle Amazzoni, la stupra morente e dopo morta...” (pp.62-3). Certo, crimine di Achille, ma senza autonomie femminili, che pure la letteratura classica fornisce: pensiamo a Lisistrata (colei che scioglie gli eserciti) in Aristofane, su cui ragiona Rosangela Pesenti in “Lisistrata, l'ironica” (pp.83-88, in Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi, Napoli, Intra Moenia, 2003, pp.287), oppure a altre figure della tragedia attica, studiate da Imma Barbarossa in “Cassandra e Medea: appunti sull'alterità femminile” (pp.89-108, nel volume appena citato), che scrive: “In guerra anche i vincitori perdono l'anima. E i vincitori della guerra di Troia troveranno durante e/o dopo il viaggio di ritorno lutti e devastazioni, anche dentro la cerchia familiare...”. Questo non consola, ma fa domande su cosa sia la vittoria, nei fatti, qualunque vittoria, e se le armi della pace, così disprezzate da Mini (v. paragrafo “L'ipocrisia della non violenza”, pp.26-28) non debbano essere rigenerate. È facile ironizzare su certi premi Nobel per la pace, alcuni dei quali autentici criminali, ne conveniamo, per sbarazzarsi di tutte le categorie di costruzione della pace. È ipocrita inganno.

È anche su questi nodi che si esercita il pensiero di Luisa Muraro in Dio è violento (Roma, Nottetempo, 2012, pp.75), già al centro di un dibattito in rete, in continuo aggiornamento. Il libro ruota attorno a punti di forte intensità. Innanzitutto Muraro propone un 'pensiero della diserzione' dalla politica corrente dato che, da molto tempo in qua, "niente è servito a niente" (p.15, nel caso paradigmatico dell'opposizione alla costruzione di una base militare USA a Vicenza) e che la "buona volontà" di chi si dà da fare per la pace e i diritti umani, cui va l'ammirazione dell'autrice, e l' "indignazione" sono solo "spreco di energia": "...La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l'arroganza dei potenti" (pp.26-29). La stessa "predicazione antiviolenza" (sempre quel sostantivo, predicazione, che, se non dispregiativo, è certo svilente) "nella misura in cui esclude a priori l'idea di una violenza giusta, favorisce l'abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria" (p.34). Qui, oltre ai sostantivi, sono gli aggettivi a farsi avanti: giusta, necessaria (come in Mini, ahinoi), e poi -negli ultimi decenni- etica, umanitaria, etc. Certo il caso di Srebrenica subito dopo riportato da Muraro, tocca una ferita aperta e formula domande a chi assistette al crimine: alle forze ONU, innanzitutto, complici del massacro, ma anche a chi non alzò la voce –a meno che non si creda nell'inevitabilità di certi crimini, in condizioni estreme, e quindi nell'inutilità di ogni intervento- e coltivò, nei casi migliori, l'umanitario.

Da qui Muraro passa alla definizione di azioni utili a mutare l'esistente, partendo dal pensiero della differenza (Carla Lonzi, e Clarice Lispector, in una citazione da Luisa Muraro, L'ordine simbolico della madre, 1991: "il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa", p.121). La prima azione è la promozione di una "indipendenza simbolica nei confronti dei mezzi e delle mediazioni del potere costituito, e dal potere stesso" (p.66), e cioè uno sganciarsi dal pensiero dominante per servirsi della differenza e praticarla cercando strade che non siano i sensi unici in cui il lessico dell'oppressione economica e di genere costringe tutte/i, compresi i più intransigenti nemici del sistema. La seconda è quella di combattere il torpore che si è impadronito di molti, cui unica presente soluzione sembra essere la jacquerie o un qualsiasi gesto esemplare, discutendo dei mezzi che ci si dovrà dare: non è l'azione violenta ad essere proposta, "ma l'azione possibile ed efficace" che può comportare "a volte una certa violenza" (pp.70-1). Quanta? "Quando è il caso di decidere come comportarci, regoliamoci come fanno le cuoche con il sale: 'Quanto basta'..." (p.71). Che è conclusione sconcertante di un discorso attento e profondo. 

È su quel 'quanto basta' che si infrange ogni parola e azione, e che rischia di promuovere sfiancanti discussioni e nuove disperazioni: devono essere i singoli protagonisti di un atto di ribellione a decidere fin dove arrivare? Concretamente, in una manifestazione di piazza, con gruppi diversi (il 15.10 2011 a Roma, ad esempio), ognuno potrà spingersi fin dove vuole? Dal nonviolento radicale a chi ricerca lo scontro col nemico e, oltre, a chi sceglie armi da fuoco, purtroppo non prive di virile fascino per troppi (padri di famiglia, malviventi, poliziotti, antagonisti...)? Qui si ricade nel mondo dell'opinione, e dei diritti postmoderni: io ho diritto a esercitare la violenza (o la nonviolenza) che io reputo necessaria, e se tu me lo impedisci sei un servo. Opinione contro opinione, preda dell'estro (da non confondersi con lo spontaneismo), senza i minimi fondamenti di verità e nemmeno di pratiche politiche consolidate, essendosene interrotta la trasmissione generazionale. Questo dibattito invece tocca corde di tale sensibilità, che è opportuno poggiarlo su parole e pratiche di classe e di genere libere dagli sterili dualismi del pensiero dominante (violenza/nonviolenza), da questo simbolicamente e, quindi, politicamente indipendenti. In questo, non conseguente con sé stessa, Muraro ha ragione.

mercoledì 6 giugno 2012

Mauro Faroldi, Atene non è Sarajevo




Com'è la vita di ogni giorno nella Atene travolta dalla crisi? Ce lo racconta questa corrispondenza di Mauro Faroldi, giornalista e traduttore, che nella capitale greca vive e lavora,


Mauro Faroldi

Atene non è Sarajevo

In un'estate che ha stentato a venire Atene sta vivendo i suoi più difficili momenti dalla caduta della dittatura. A breve ci saranno le elezioni, le ultime, tenute meno di un mese fa, non hanno sbloccato l'impasse in cui è caduta la politica greca. Le prossime elezioni, indipendentemente dal loro esito, non risolveranno una situazione che promette incertezza e un oscuro avvenire.

La vita quotidiana si trascina sempre più faticosamente, siamo al quarto anno di crisi e la Grecia è stata ricacciata repentinamente e brutalmente di un quarto di secolo indietro, circola l'euro ma siamo tornati alla metà degli anni '80.

Athanasía abita nel mio quartiere, nella mia stessa via, è insegnate universitaria, lavora al TEFAA, l'Istituto Superiore di Educazione Fisica, è una "privilegiata" non ha perso il lavoro, e lavorando per lo stato, per ora non lo perderà. Ma il suo stipendio è stato massacrato, ora guadagna quanto un bidello in Italia. Prezzi europei, salari balcanici, così hanno ridotto la Grecia. Nel condominio dove abita molti hanno perso il lavoro, quest'inverno non hanno nemmeno acceso il riscaldamento centrale, molti inquilini non erano in grado di pagare, già si parla di bloccare anche l'ascensore, le fatture non pagate dell'energia elettrica condominiale si accumulano una sull'altra.

Renata è polacca, è qui da vent'anni, è arrivata con la prima ondata di immigrazione. Ha vissuto facendo manicure a domicilio, e quando non bastava non si è tirata indietro è andata a fare pulizie nelle case. Anche il suo uomo è polacco, qui ha lavorato come edile, montava strutture di cartongesso, da due anni è disoccupato, ha cinquant'anni e se rimane ad Atene il suo destino sarà la disoccupazione a vita. Hanno deciso di tornare in Polonia, laggiù almeno hanno una casa di proprietà dove vive la suocera di Renata. Ma non è una scelta facile, debbono abbandonare tutto, debbono abbandonare una vita che si erano costruiti giorno per giorno.

Chrístos lavorava per Eleftherotypía, uno dei principali quotidiani del paese. Il giornale ha cessato le pubblicazioni intorno a Natale, i suoi dipendenti, alcune centinaia, che già non erano pagati dall'inizio dell'estate, sono in mezzo alla strada. Chrístos ha dovuto lasciare la casa di Atene dove era in affitto e si è trasferito nella sua casa fuori Atene, una casa che, facendo sacrifici, aveva comprato negli ormai lontani tempi delle "vacche grasse", quando il costo delle abitazioni era ragionevole. Ora sopravvive con qualche lavoretto facendo il giornalista freelance, inoltre ha scritto un libro "I nuovi poveri". Chrístos, nel libro, partendo dalla propria esperienza di vita, racconta delle condizioni in cui sono caduti, a causa della crisi, centinaia di migliaia di membri della classe media. Il libro ha avuto un certo successo, ma un libro venduto in poche migliaia di copie non può far vivere nessun autore. Chrístos è stato invitato a partecipare, in televisione, ad alcuni dibattiti sulla crisi, esempio vivente di come la crisi abbia cambiato la vita dei greci.

Come tutte le mattine, molto presto, esco di casa e vado a fare una passeggiata al Pedíon tou Áreos li grande parco che non è molto distante dal Museo archeologico nazionale. Nel parco, all'ombra degli alberi, ogni mattina i pensionati si riuniscono per fare delle interminabili partite a távli, il backgammon greco, mi fermo a salutare Spíros, ottant'anni portati benissimo, conosce benissimo il francese e per questo ha passato la vita lavorando nelle reception di molti, anonimi alberghi ateniesi. Gli hanno tagliato la pensione e gioca a távli senza gustare, come faceva fino a poco tempo fa, il suo caffè ellinikò, non può più permettersi 30 o 40 euro il mese di caffè. Non molto lontano su di una panchina, poco lontano da immigrati che dormono nel parco perché non hanno un tetto, due pensionati discutono animatamente, mentre mi allontano sento dire da uno di questi, "Non c'è niente da fare, noi greci non siamo e non potremo mai diventare europei...". È la Grecia che ha gettato le basi della civiltà europea occidentale, ma i greci verso gli "occidentali" vivono un sentimento che è un misto fra il complesso d'inferiorità, il rancore e l'orgogliosa consapevolezza di essere gli eredi di un glorioso passato.

Tornando a casa mi fermo al bancomat, vicino all'ingresso di una banca, una donna greca ancora giovane, con i vestiti poveri ma decorosi, chiede degli spiccioli. Ma chiede i denari vergognandosi, cercando di non farsi notare. Si capisce subito che non è una mendicante, probabilmente il marito ha perso il lavoro e sono costretti a chiedere soldi così, per strada.

Continuo a camminare, la città è più sporca del solito, per terra quantità di volantini di propaganda elettorale si alternano a volantini di negozi che comprano oro pagandolo in contante. Atene è una città ferita, ma non è Sarajevo, nonostante che la sua inetta, corrotta classe politica e un pugno di banchieri di casa a Francoforte stiano tentando, in tutti i modi, di ricacciarla nei Balcani.

martedì 5 giugno 2012

Due romanzi di Guido Seborga




Dedicato a Laura Hess Seborga che oggi compie gli anni.

Francesco Improta

Due romanzi di Guido Seborga: Morte d'Europa e Ergastolo


Con la pubblicazione in un solo volume di Morte d’Europa ed Ergastolo, la casa editrice Spoon River, prosegue, grazie all’affetto e alla devozione della figlia Laura Hess e alla sensibilità culturale di Massimo Novelli, la riscoperta della figura e dell’opera di Guido Seborga, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita*[l'articolo è del 2009].

Torinese di origine, ma bordigotto di adozione, Guido Seborga, pseudonimo di Guido Hess, fu poeta, pittore, giornalista e polemista e riscosse nell’immediato dopoguerra, in seguito alla pubblicazione di L’uomo di Camporosso, un buon successo di pubblico oltre a riconoscimenti convinti da parte della critica, ma per il suo carattere ribelle, indomito e anarchico e ancor più per il conformismo culturale dominante è stato relegato ai margini della nostra storia letteraria, finendo nel dimenticatoio. Necessaria e meritoria, quindi, l’opera di Laura Hess e di Massimo Novelli che per l’occasione hanno pubblicato un volume Guido Seborga, scritti, immagini, lettere, teso a dare visibilità e a valorizzare un artista così complesso. Si tratta di una raccolta ragionata di lettere, testimonianze e immagini che ci consente di ripercorrere alcune fra le tappe più significative dell’itinerario umano, culturale e artistico di Guido Seborga, nonché le sue amicizie e le sue frequentazioni, gettando, inoltre, fasci di vivida luce su un periodo storico ricco di fermenti, di speranze e di eventi. 

Torniamo, però, ai due romanzi, pubblicati rispettivamente nel 1959 e nel 1963, dopo un decennio di vita sregolata, trascorsa nelle taverne a bere e a misurarsi a braccio di ferro con “camalli” e marinai oppure sul mare in compagnia di pescatori o dinanzi ai cancelli delle fabbriche insieme ai metalmeccanici, amareggiato probabilmente dall’indifferenza se non dall’ostilità con cui era stato accolto Il figlio di Caino, il suo romanzo forse più originale, per la capacità di trasformare una vicenda drammatica e sofferta come la Resistenza in una ballata popolare di grande respiro. In entrambi i romanzi ritroviamo le tematiche a lui più care e congeniali: le ingiustizie sociali, le discriminazioni di classe, i conflitti generazionali, l’immigrazione, il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, il fascino ambiguo e perverso del denaro, la donna che rappresenta un richiamo fortissimo per i sensi, ma anche un’occasione di stabilità e di fermezza in un mondo sempre più incerto e precario, in cui sono naufragati miseramente i valori di un tempo. 

Il primo romanzo, Morte d’Europa, si svolge tra Bordighera e Nizza, in piena estate, in un’atmosfera trasognata e ha come protagonisti due giovani innamorati appartenenti a classi sociali diverse e, in parallelo, una giovane ragazza calabrese, che svolge mansioni di domestica e che finisce in carcere con l’accusa di aver trafugato dei gioielli; il secondo, Ergastolo, più complesso e articolato e, a mio avviso, decisamente più maturo, pur ruotando intorno a diversi personaggi, operai, disoccupati, contrabbandieri, pescatori e malavitosi, tutti sufficientemente caratterizzati, ha come protagonista indiscusso il porto di Genova, che in quegli anni costituiva una speranza di occupazione o di lavoro in nero, ma avvelenava il cielo e la città con il fumo delle sue ciminiere, il calore degli altiforni e lo stridio delle macchine. La descrizione, nelle pagine conclusive, delle agitazioni dei portuali e dei metalmeccanici è straordinariamente mossa e drammatica e giustifica da sola la definizione di realismo libero e tragico che è stata data alla sua produzione narrativa. Egli stesso in un’intervista ha confessato di considerare suoi maestri P. Eluard, C. Alvaro e G. Verga di cui si rilevano reminiscenze e citazioni (vita da ostriche). Io, però, vorrei avvicinarlo a due maestri della nostra cinematografia del dopoguerra a R. Matarazzo, per quella vena patetica e melodrammatica presente soprattutto in Morte d’Europa e a P. Germi, per il respiro corale e il registro forte e vigoroso che si rintraccia in Ergastolo

In entrambi i romanzi si avverte, soprattutto nei giovani, una forte tensione, legata in parte allo sfaldamento di vecchi ideali e principi morali, e in parte alla volontà di andare avanti, di rompere con un passato di miseria e privazioni, che è stato il mondo dei loro genitori e che loro, nella stragrande maggioranza, non possono e non vogliono più accettare. Pur avendo privilegiato l’uomo e i suoi problemi rispetto alla forma e allo stile, pur essendo, cioè, più attento ad analizzare i fatti che a vagheggiar parole, la sua scrittura, talvolta ruvida, scabra e altre volte ricercata e musicale, ha un fascino indiscutibile e riesce a catturare l’attenzione del lettore, avvolgendolo nelle sue spire.

(Da: http://www.bartolomeodimonaco.it/)

venerdì 1 giugno 2012

Antonio Martino, La guerra e le parole



















Giorgio Amico

A proposito dell'ultimo lavoro di Antonio Martino

“Lo scopo di questa ricerca è stato quello di recuperare dalla dispersione e dal progressivo deterioramento la stampa della resistenza savonese, e di analizzarne i contenuti. La stampa clandestina, tutta tirata a ciclostile, è nella quasi totalità comunista ed è stata il veicolo più evidente del messaggio antifascista. Per questo riteniamo che la salvaguardia di questo materiale sia importante per la storia locale contemporanea. La stampa clandestina è articolata in varie testate che si rivolgono a tutti i soggetti della società: in generale (Savona proletaria, L'Unità, Il Corrieredel Popolo) e in particolare, per i giovani (La Voce dei Giovani), gli studenti (Nuova goliardia), gli intellettuali, i professionisti, il ceto medio (Democrazia), le donne (Noi donne, Donne in Lotta, La donna nuova), i contadini (Il solco). I temi sono essenzialmente: l'informazione (gli scioperi, le azioni rivendicative del "fronte operaio", le azioni dei partigiani e delle SAP, le rappresaglie dei nazifascisti, le deportazioni), il proselitismo politico (con l'esempio dei caduti), l'incitamento alla lotta e all'insurrezione liberatrice, per giungere alla nuova società del dopoguerra (con uno sguardo rivolto all'Unione Sovietica).”

Così Antonio Martino presenta la ristampa del suo lavoro dedicato alla stampa clandestina della Resistenza nella Savona del 1944-45. Un'opera che raccoglie e rende finalmente disponibile ad un pubblico largo i risultati di una paziente ricerca su ciò che ancora rimane dei giornali ciclostilati che il movimento partigiano redasse e fece circolare negli anni della guerra civile allo scopo di allargare l'area di sostegno popolare alla lotta armata e di costruire un fronte il più possibile ampio di organizzazioni di massa (donne, giovani, studenti, contadini, ceto medio). 

Un libro che, come i precedenti, persegue un duplice scopo: sottrarre all'oblio materiali di grande interesse per la comprensione di ciò che fu, nella sua complessità e contradditorietà, la Resistenza e insieme sensibilizzare Istituzioni ed Enti ad una migliore salvaguardia di un patrimonio documentale che lasciato a se stesso rischia un progressivo deterioramento se non la scomparsa.

Un lavoro di ricerca e di sistematizzazione capace di andare oltre la semplice memorialistica e l'agiografia corrente che in gran parte esauriscono la bibliografia resistenziale savonese e che appare sempre più necessario per ridare senso e significato a quegli avvenimenti contro l'usura inevitabile del tempo, i rigurgiti revisionisti e l'errore grave commesso in passato di ridurre l'approccio storico alla guerra partigiana a costruzione di un mito che si voleva fondante di una democrazia repubblicana per tanti versi incompiuta e fragile. Un approccio che ha portato a una dittatura ferrea del "politicamente corretto" fatto di retorica, di omissioni e silenzi che ha impedito finora una comprensione autentica di ciò che, nella sua estrema complessità, è stata la Resistenza anche nello specifico savonese. Basti pensare al rifiuto persistente e ottuso di accettare la categoria di guerra civile come elemento centrale della ricerca, privandosi così di ogni possibilità di comprensione (e dunque di ricostruzione storica) di episodi che pure ci furono e che rivestirono carattere non marginale come, solo per citare fatti ripresi recentemente in modo strumentale da destra, la strage di Cadibona (materia non a caso di un'altra importante ricerca di Antonio Martino) e la serie di omicidi politici successivi alla Liberazione.

Non è un caso, ne siamo sempre più convinti, che mentre troviamo una storia in più volumi della Resistenza imperiese di grande spessore storiografico e documentale, nulla di simile esista per Savona, città medaglia d'oro della Resistenza, ma dove a lungo ha pesato una visione minimalista e conservatrice della ricerca orientata prima di tutto alla difesa ostinata di assetti ed equilibri politici e personali considerati immodificabili. 

Manca dunque, al di là degli studi importanti di Guido Malandra, delle attività dell'ISREC e di poco altro, un lavoro complessivo di risistemazione della materia di cui si sente sempre più l'esigenza e che non potrà, crediamo che essere opera collettiva e di cui l'impegno di Antonio Martino rappresenta uno dei presupposti.