Una riflessione di Gianluca Paciucci su un tema purtroppo sempre molto attuale. L'articolo verrà pubblicato sul numero di settembre di Guerre&Pace.
Gianluca Paciucci
Su guerre e violenza. Alcuni libri
Il primo libro di cui ci
occupiamo è un libro agghiacciante: Perché siamo così ipocriti
sulla guerra? (Milano, Chiarelettere, 2012, pp.84) del generale
Fabio Mini, “capo di stato maggiore del Comando Nato in Sud
Europa”, “comandante della forza internazionale di pace a guida
Nato in Kosovo”, leggiamo nella nota bio-bibliografica. È
agghiacciante perché con secca enfasi vuole mostrarsi controcorrente
('ora vi mostro come sa scrivere un generale italiano, come sa
essere superiormente anticonformista...') e che invece è pieno di
luoghi comuni. Nei capitoli del volume, una domanda, quella del
titolo, e cinque risposte, Mini pronuncia accuse implacabili al
complesso militare-industriale che domina il mondo: uso costante
dell'inganno (il banale “la verità è la prima vittima della
guerra”, p.21); legame tra guerra e potere economico (“...la
guerra è una questione di profitto, spesso sporco, e gli Stati sono
al servizio dei grandi affari mettendo a disposizione le risorse
pubbliche e dando la copertura di legittimità all'uso della
forza...”, p.35 con elenco di imprese i cui profitti sono aumentati
a dismisura negli ultimi dieci anni); violazioni del diritto
internazionale (come in Kosovo dove “abbiamo partecipato alla
guerra umanitaria (...) senza alcun avallo preventivo delle Nazioni
Unite, senza essere minacciati e schierandoci dalla parte di bande
armate irregolari addestrate da mercenari americani [statunitensi,
ndr]”, p.51); fascino della guerra (“l'ipocrisia serve a coprire
il gusto della guerra, il piacere del combattimento, della conquista
e della razzia”, p.61).
Tutto bene, allora? Questo è un libro
condivisibile anche dai pacifisti? No. L'alternativa che Mini propone
non è certo, e nemmeno potrebbe esserlo visto il suo grado e la sua
storia, un passaggio dalla denuncia all'azione contro la guerra, ma
un'uscita dall'ipocrisia che permetta di dire la parola
guerra, solo aggiungendovi l'aggettivo “necessaria” (“La guerra
stessa non è una vergogna se è necessaria, se viene condotta
salvaguardando la dignità e se viene affrontata come una cosa seria,
una questione di vita o di morte per lo Stato”, pp. 56-7):
un'uscita ipocrita dall'ipocrisia, una delle tante proposte dei finti
anticonformisti degli anni nostri, come Giuliano Ferrara, Vittorio
Feltri, Massimo Fini, e tanti altri, troppi, e tutti maschi. Come può
la montagna della requisitoria di Mini partorire il topolino di una
proposta riassumibile nella massima di Sun-Tzu, ovvero che il
generale migliore è “colui che è in grado di vincere senza
combattere” (p.7)? Non gli passa per la testa che è in quel
vincere che si riassume tutta la violenza del secolare dominio
di patriarchi, generali e uomini d'affari? Di vittorie giuste e
sanguinarie è piena la storia, a partire dagli sforzi antiumani
compiuti per ottenerle: intere economie e milioni di vite programmate
per il massacro.
Che il libro di Mini piaccia anche a certa sinistra
(“un lucido e attualissimo pamphlet (...) scritto da un tecnico
che più politico e controcorrente non si può”,
nell'intervista a Mini di Tommaso Di Francesco, “L'ipocrisia, un
affare di guerra”, Il Manifesto 15.05 2012) non stupisce più di
tanto. Una sinistra, questa, affascinata dalla geopolitica per cui
poco resta all'autonomia dei popoli e niente, nei popoli, a quella
del genere femminile, non a caso solo di sfuggita citato da Mini: la
“nota debosciata” (che trivialità anticonformista) Elena
(p.8) e Pentesilea: quando Achille “si rende conto di aver colpito
a morte Pentesilea, l'avvenente regina delle Amazzoni, la stupra
morente e dopo morta...” (pp.62-3). Certo, crimine di Achille, ma
senza autonomie femminili, che pure la letteratura classica fornisce:
pensiamo a Lisistrata (colei che scioglie gli eserciti) in
Aristofane, su cui ragiona Rosangela Pesenti in “Lisistrata,
l'ironica” (pp.83-88, in Donne disarmanti. Storie e
testimonianze su nonviolenza e femminismi, Napoli, Intra Moenia,
2003, pp.287), oppure a altre figure della tragedia attica, studiate
da Imma Barbarossa in “Cassandra e Medea: appunti sull'alterità
femminile” (pp.89-108, nel volume appena citato), che scrive: “In
guerra anche i vincitori perdono l'anima. E i vincitori della guerra
di Troia troveranno durante e/o dopo il viaggio di ritorno lutti e
devastazioni, anche dentro la cerchia familiare...”. Questo non
consola, ma fa domande su cosa sia la vittoria, nei fatti, qualunque
vittoria, e se le armi della pace, così disprezzate da Mini (v.
paragrafo “L'ipocrisia della non violenza”, pp.26-28) non debbano
essere rigenerate. È facile ironizzare su certi premi Nobel per la
pace, alcuni dei quali autentici criminali, ne conveniamo, per
sbarazzarsi di tutte le categorie di costruzione della pace. È
ipocrita inganno.
È anche su questi nodi
che si esercita il pensiero di Luisa Muraro in Dio è violento
(Roma, Nottetempo, 2012, pp.75), già al centro di un dibattito in
rete,
in
continuo aggiornamento. Il libro ruota attorno a punti di forte
intensità. Innanzitutto Muraro propone un 'pensiero della
diserzione' dalla politica corrente dato che, da molto tempo in qua,
"niente è servito a niente" (p.15, nel caso paradigmatico
dell'opposizione alla costruzione di una base militare USA a Vicenza)
e che la "buona volontà" di chi si dà da fare per la pace
e i diritti umani, cui va l'ammirazione dell'autrice, e l'
"indignazione" sono solo "spreco di energia":
"...La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti
morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste
pretese e abbassare l'arroganza dei potenti" (pp.26-29). La
stessa "predicazione antiviolenza" (sempre quel sostantivo,
predicazione,
che, se non dispregiativo, è certo svilente) "nella misura in
cui esclude a priori l'idea di una violenza giusta, favorisce
l'abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria"
(p.34). Qui, oltre ai sostantivi, sono gli aggettivi a farsi avanti:
giusta, necessaria (come in Mini, ahinoi), e poi -negli ultimi
decenni- etica, umanitaria, etc. Certo il caso di Srebrenica subito
dopo riportato da Muraro, tocca una ferita aperta e formula domande a
chi assistette al crimine: alle forze ONU, innanzitutto, complici del
massacro, ma anche a chi non alzò la voce –a meno che non si creda
nell'inevitabilità
di certi crimini,
in condizioni estreme, e quindi nell'inutilità
di ogni intervento-
e coltivò, nei casi migliori, l'umanitario.
Da qui Muraro passa alla
definizione di azioni utili a mutare l'esistente, partendo dal
pensiero della differenza (Carla Lonzi, e Clarice Lispector, in una
citazione da Luisa Muraro, L'ordine
simbolico della madre,
1991: "il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa
esservi inclusa", p.121). La prima azione è la promozione di
una "indipendenza simbolica nei confronti dei mezzi e delle
mediazioni del potere costituito, e dal potere stesso" (p.66), e
cioè uno sganciarsi dal pensiero dominante per servirsi della
differenza e praticarla cercando strade che non siano i sensi
unici
in cui il lessico dell'oppressione economica e di genere costringe
tutte/i, compresi i più intransigenti nemici del sistema. La seconda
è quella di combattere il torpore che si è impadronito di molti,
cui unica presente soluzione sembra essere la jacquerie
o
un qualsiasi gesto esemplare, discutendo dei mezzi che ci si dovrà
dare: non è l'azione violenta ad essere proposta, "ma l'azione
possibile ed efficace" che può comportare "a volte una
certa violenza" (pp.70-1). Quanta? "Quando è il caso di
decidere come comportarci, regoliamoci come fanno le cuoche con il
sale: 'Quanto basta'..." (p.71). Che è conclusione sconcertante
di un discorso attento e profondo.
È su quel 'quanto basta' che si
infrange ogni parola e azione, e che rischia di promuovere sfiancanti
discussioni e nuove disperazioni: devono essere i singoli
protagonisti di un atto di ribellione a decidere fin dove arrivare?
Concretamente, in una manifestazione di piazza, con gruppi diversi
(il 15.10 2011 a Roma, ad esempio), ognuno potrà spingersi fin dove
vuole? Dal nonviolento radicale a chi ricerca lo scontro col nemico
e, oltre, a chi sceglie armi da fuoco, purtroppo non prive di virile
fascino per troppi (padri di famiglia, malviventi, poliziotti,
antagonisti...)? Qui si ricade nel mondo dell'opinione, e dei diritti
postmoderni: io
ho diritto a esercitare la violenza (o la nonviolenza) che io
reputo
necessaria, e se tu
me
lo impedisci sei un servo. Opinione contro opinione, preda dell'estro
(da non confondersi con lo spontaneismo), senza i minimi fondamenti
di verità e nemmeno di pratiche politiche consolidate, essendosene
interrotta la trasmissione generazionale. Questo dibattito invece
tocca corde di tale sensibilità, che è opportuno poggiarlo su
parole e pratiche di classe e di genere libere dagli sterili dualismi
del pensiero dominante (violenza/nonviolenza), da questo
simbolicamente e, quindi, politicamente indipendenti. In questo, non
conseguente con sé stessa, Muraro ha ragione.