All'inizio degli anni '50 Giulio Andreotti, sottosegretario allo spettacolo con delega alla censura, impedì la circolazione di un film sulla fucilazione di Mussolini a Dongo. La storia di un film che non si doveva vedere.
Giorgio
Amico
“Tragica
alba a Dongo”. Il film che non si doveva vedere
“Pensiamo che verrà
un giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il
fascismo. E costituirà colpa essere stati in carcere e al confino
per questo”.
Così nel 1946 Sandro
Pertini, dai banchi del Senato della Repubblica, denunciava i primi
tentativi da parte della DC e delle forze moderate di rimuovere ciò
che la Resistenza aveva significato e di chiudere definitivamente
quella esperienza di lotta e di partecipazione popolare.
Una volontà di
restaurazione che si accentua dopo l'estromissione delle sinistre dal
governo nel 1947 e le elezioni politiche del 1948 e che si inserisce
nel clima internazionale sempre più teso della Guerra fredda.
Inizia quello
che lo storico inglese Lowe definisce “un
clamoroso tentativo di intimidazione”
del movimento operaio e popolare. Mentre i criminali di guerra
repubblichini escono dalle galere e si reinseriscono in posizioni
anche importanti nella società italiana e negli apparati dello stato
(esercito, polizia, magistratura, ministeri) gli antifascisti e i
partigiani finiscono a migliaia davanti ai giudici.
“Questo «processo
alla Resistenza» - scrive
ancora Lowe - fu molto più severo di quanto non fosse
mai stata l'epurazione dei fascisti. Il messaggio era chiaro: gli
«eroi»
del 1945, che avevano liberato il Nord d'Italia dal governo fascista,
erano diventati alla fine il nuovo nemico”. Proprio
quello che solo pochi anni prima aveva denunciato Sandro Pertini.
A
parte i giornali del movimento operaio, la stampa sostiene questo
processo di restaurazione. Cavalcando il
desiderio popolare di un ritorno alla normalità dopo anni di
tragedie, i grandi quotidiani operano attivamente al tentativo di
rimozione della memoria stessa della Resistenza. Soprattutto
dopo le elezioni del 1948 la guerra partigiana diventa una realtà
scomoda su cui stendere un velo di silenzio. De partigiani si parla
ormai solo in occasione di processi e sempre male. Una campagna
destinata a durare a lungo insieme al silenzio ostinato delle
Istituzioni a partire dal Ministero della Pubblica Istruzione che,
per il decennale della Resistenza, il 25 aprile 1955, invia una
circolare ai presidi di tutte le scuole italiane per invitarli a
festeggiare, quel giorno, non la Liberazione ma l’anniversario
della nascita di Guglielmo Marconi.
In questo clima, scrive
lo storico Giovanni De Luna “per sopravvivere, l’antifascismo
si costruì una sorta di nicchia difensiva, con una battaglia
politico-culturale condotta all’insegna del «dovere di non
dimenticare» che indusse molti ex-partigiani a farsi storici della
propria memoria, a diventare «archivisti», gelosi custodi dei
«documenti» che testimoniavano di una pagina di storia che troppo
presto gli altri volevano cancellare”.
Fare
un film sui fatti di Dongo
Proprio per non
dimenticare tra il 1949 e il 1950 due ex partigiani, Emilio Maschera
e Ugo Zanolla, decisero che era necessario produrre un film sugli
eventi relativi alla fucilazione di Benito Mussolini e Claretta
Petacci. Improvvisatisi produttori, i due, con l’aiuto di due
giornalisti (Vittorio Crucillà e Ettore Camesasca) costituirono nel
1949 una cooperativa allo scopo di trarne un film, basato su
testimonianze di prima mano e il rispetto scrupoloso dei fatti che si
erano verificati a Dongo fra il 27 e il 28 aprile 1945. A occuparsi
delle riprese fu chiamato un professionista, Duilio Chiaradia, che
poi negli anni '50 verrà assunto in RAI dove nel 1954 firmerà la
regia del primo telegiornale.
Un film realizzato con
tecniche e tempi più amatoriali che professionali, con mezzi
finanziari e tecnici assai ristretti. Girato al modo del cinema
“neorealista” il film si basava su attori non professionisti, in
molti casi gli stessi personaggi che avevano partecipato a quei
fatti: alcuni dei partigiani che avevano arrestato Mussolini e
Claretta Petacci, un soldato tedesco che faceva parte della colonna
in fuga e i coniugi De Maria nella cui cascina il duce e la sua
amante avevano passato la loro ultima notte.
Consapevoli delle
difficoltà del momento, gli autori si prodigano fin da subito a
mantenere un basso profilo. Il film, dichiarano, non ha intenti
politici, ma solo documentaristici: “Gli interpreti di questo
film-documentario sono, in gran parte, gli stessi interpreti e
testimoni oculari dell’episodio storico […] La macchina da presa
ha ricostruito e ripete fedelmente fatti, cose, ambienti e uomini
così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate di aprile.
Il tempo, i luoghi, i costumi e financo i gesti sono gli elementi che
caratterizzano il valore essenzialmente documentaristico di questa
minuziosa ricostruzione della più misteriosa tragedia politica del
secolo. Ogni riferimento personale appartiene alla storia dei fatti”.
Lungo 38 minuti, il film
ha un taglio cronachistico. Dopo i titoli di testa, le inquadrature
di due soldati tedeschi alla guida di un camion si alternano a
riprese in movimento del paesaggio sulle rive del lago di Como. Il
commento fuori campo riassume in poche battute il ventennio fascista
dall’ascesa della dittatura al tragico epilogo della guerra. Dopo
immagini sull’entrata in guerra, scene di bombardamento e di
distruzioni nelle città, il film ritorna al racconto dei fatti: la
cattura di Mussolini travestito da soldato tedesco nel pomeriggio del
27 aprile, l'arrivo di Clara Petacci, la notte passata dai due in
una cascina isolata nella frazione di Giulino di Mezzegra, la loro
fucilazione e poi quella a Dongo dei gerarchi catturati dai
partigiani. Il film – nota
un giornale dell'epoca- termina facendo vedere il camion
carico dei diciassette cadaveri che, seguendo una fila di pioppi, si
dirige verso Milano, verso Piazzale Loreto. È l’alba del 29 aprile
e la visione di questo tragico fardello umano suggerisce il
significato allegorico di tutta un’epoca che se ne va per dar luogo
a una nuova, che porti nuove speranze”.
L'intervento della
censura
La lavorazione del film
non era nemmeno terminata che già iniziarono i guai con la censura.
Introdotta in epoca fascista con la creazione di una Direzione
generale per la cinematografia, la censura prevedeva forme di
controllo sulla circolazione dei film tramite la concessione di
appositi nulla osta. Nel dopoguerra normativa e apparati erano
rimasti immutati: presso la Presidenza del Consiglio continuava a
funzionare un Ufficio Centrale per la Cinematografia. Dal 1947
sottosegretario allo spettacolo era il giovane Giulio Andreotti,
nominato a soli 28 anni da De Gasperi su consiglio di monsignor
Montini (il futuro Paolo VI). Andreotti (a cui dalla fine del 1953
succederà un ancora più rigido Oscar Luigi Scalfaro, allora
esponente della destra DC) si accanì a tagliare tutto quello che
appariva una minaccia anche minima alla pace sociale e alla morale
cattolica.
E così sotto i colpi di
forbice di Andreotti (e Scalfaro) finiranno tutti i film che
trattavano argomenti scomodi, come l'esistenza in Italia di un
partito comunista di cui non si doveva assolutamente parlare. E poco
importava se si trattava di un film comico. E' rimasta celebre la
scena di Totò e Carolina, in cui Totò poliziotto alla guida
di una jeep finita fuori strada viene soccorso da una camionetta
carica di militanti comunisti che cantano Bandiera rossa e
naturalmente il canto è cancellato e invece di «ehi compagni!» a
Totò si fa esclamare perché accorrano in aiuto: «ehi giovanotti!».
Come si taglia ne La Spiaggia (bellissimo film di Lattuada
girato nel 1954 a Spotorno), la figura del sindaco comunista. Andò
meglio ad Achtung! Banditi!, di Carlo Lizzani, che raccontava
la lotta partigiana alle spalle di Genova. Giudicato in prima istanza
«dannoso sia per i riflessi interni nel momento attuale, sia per
i riflessi esterni in quanto ripropone, in tutta la sua asprezza,
l’odio contro i tedeschi», in quello stesso 1951, pur tagliato
e sforbiciato, il film arrivò comunque nelle sale. Ma i partigiani
del film combattevano con fucili di legno, abilmente riprodotti da
artigiani locali, perché il ministero della Difesa nell'intento
manifesto di creare difficoltà alla produzione, aveva proibito che
nelle riprese si usassero fucili veri, anche se disattivati. Un
particolare che oggi suona ridicolo, ma che è illuminante sul clima
di quegli anni.
Ma se Lizzani trattava di
una storia inventata e tutto sommato marginale anche se molto
significativa, il film sulla fucilazione del Duce a Dongo colpiva i
nervi scoperti di una DC che stava aprendo a fascisti e monarchici
in funzione anticomunista.
Così l' Ufficio Centrale
per la Cinematografia nel gennaio 1951 esprime parere contrario
all’esportazione, “in quanto si ritiene che il film possa
ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro
Paese”. Decisione sottoscritta
dal sottosegretario. Inutile si rivela la richiesta di revisione da
parte dei produttori e anche un tentativo di Vittorio Crucillà di
appellarsi direttamente a Andreotti con una lettera dai toni
umilianti: “Illustre Onorevole, sarei molto lusingato e
altamente onorato se la S. V. mi concedesse una udienza per un breve
colloquio in merito alla cronaca cinematografica TRAGICA ALBA A DONGO
– di cui sono l’umile regista e soggettista – realizzata
unicamente per l’estero da un gruppo di giornalisti milanesi.
RingraziandoLa, La prego di gradire i sensi della mia grande
ammirazione”.
Andreotti rimase
irremovibile e il clima si fece, se possibile, ancora più pesante.
Contro la programmazione intervennero anche la famiglia Mussolini con
una diffida a «non alterare arbitrariamente nel detto film la
realtà storica» e, successivamente l'amministrazione comunale
di Dongo spaventata anche solo dall'idea di essere accomunato ad un
film potenzialmente sovversivo, che si affanna con toni che sfiorano
il grottesco a assicurare la lealtà filo-governativa del Comune:
«questa popolazione è sempre stata, per sé stessa, elemento di
ordine sotto l’Alta guida di ben quattro Deputati, tre Senatori,
più volte di un Ministro».
Reazioni non ce ne
furono, tranne un breve trafiletto non firmato apparso su “La
voce dello spettacolo”: “
I censori della Direzione Generale Dello Spettacolo si palleggiano,
spaventati, da oltre 6 mesi il film-documentario ALBA TRAGICA A
DONGO. Come è noto, un gruppo di giornalisti italiani ha realizzato
una cronaca cinematografica della fine del fascismo e del suo capo:
essa, prima ancora di apparire, suscitò un’eco internazionale e
disparati commenti. Niente paura, signori Censori della Direzione
Dello Spettacolo: si tratta soltanto di un film-documentario
assolutamente obbiettivo sulla fine di Mussolini e dei suoi
fedelissimi.”
La non uscita del film
provocherà il fallimento della società di produzione, come si
evince da una lettera del 27 marzo 1952 anche questa indirizzata
all’On. Giulio Andreotti: “ Eccellenza, come volevasi
dimostrare siamo giunti alla liquidazione della ns. società. E
purtroppo a questo ci siamo arrivati spendendo e impegnandosi fino
all’ultimo limite delle ns. risorse economiche mentre i molti
risorsi presentati sono stati tranquillamente ignorati sebbene le ns.
visite e i ns. scritti si sono costantemente susseguiti dall’8
gennaio 1951 a tutt’oggi.[…] Le confessiamo con ciò la ns.
amarezza tanto più sentita in quanto da parte ns. ci riteniamo in
perfetta regola perché prima di iniziare il film Vi abbiamo inviato
con lettera raccomandata il copione, in seguito a ciò abbiamo
seguito scrupolosamente le Vs. istruzioni impartiteci tramite
l’Ufficio Stampa di Milano, durante la lavorazione poi Vi abbiamo
chiesto se il film si doveva interrompere della qual cosa gli
interpellati hanno sempre invitato a continuare; abbiamo pagato le
tasse di censura oltre a quelle di visione copione, e con tutto ciò
abbiamo avuto il noto esito”.
La
riscoperta del film
Un
esito del tutto scontato alla luce di ciò che avviene qualche mese
più tardi, quando ad Arcinazzo, un piccolo comune in provincia di
Roma, il 3 maggio 1953 nel corso della campagna elettorale per le
elezioni politiche il sottosegretario Andreotti incontra il generale
Graziani, responsabile delle stragi in Etiopia nel 1936 e ministro
della Difesa della Repubblica Sociale Italiana, condannato a 19 anni
per collaborazionismo con i nazisti ma subito amnistiato. Dal palco
Graziani, presidente del MSI (partito formalmente all'opposizione),
elogia la DC e Andreotti per la decisa politica filoatlantica e di
ferma contrapposizione al comunismo
In un tale contesto, un
film che ricostruiva le ultime ore di Mussolini non poteva che dare
fastidio e così “Tragica alba a Dongo” non circolò mai
nelle sale e fu presto dimenticato. Un ulteriore tentativo di
riaprire la questione avvenne tra il maggio 1959 e l'ottobre 1961,
quando gli autori, forse confidando nel mutato clima politico
caratterizzato dall'apertura ai socialisti, tentarono di ottenere un
nuovo nulla osta della censura, ma senza riscontri positivi. Forse,
nonostante il clima di apertura, la porcata commessa era stata
davvero troppo grossa e si giudicò prudente lasciare le cose come
stavano.
La pellicola sembrava
dunque ormai scomparsa, quando verso il 2010 ne venne del tutto
fortunosamente ritrovata una copia in casa di un vecchio
collezionista che negli anni Sessanta o Settanta l'aveva acquistata
in un mercatino dell'antiquariato di Trieste. Consegnata al Museo
Nazionale del Cinema di Torino la pellicola venne restaurata ed è
oggi dopo più di sessant'anni finalmente in circolazione,
testimonianza non solo delle Resistenza ma anche (e forse
soprattutto) di un periodo buio della giovane democrazia italiana che
pure quei partigiani oscurati dalla censura avevano conquistato a un
così caro prezzo di sacrifici e di sangue.
I Resistenti, n.1/2016