I fuochi di San
Giovanni rappresentano da sempre la manifestazione di una dimensione
magica dell'esistenza. Riprendiamo l'introduzione di una ricerca in
via di pubblicazione.
Giorgio Amico
Una notte cara ai
poeti
“Tersa per chiari
fuochi
festosi, la notte odora
acre, di sugheri arsi
e di fumo”. (1)
Sono versi di Giorgio
Caproni. Festa del fuoco e dell'acqua, la notte di San Giovanni è da
sempre cara ai poeti che ne hanno cantato il prepotente simbolismo
luminoso:
“Son Juon nou tup i
quiar e pohuen sierne:
Beliere, arlusi, fiour di
quiar, luzerne“.
[San Giovanni ci spegne
la luce e possiamo scegliere: fuochi notturni, lampi, fiori di luce,
lucciole](2)
Così Antonio Bodrero,
poeta occitano delle valli cuneesi, esalta il carattere solstiziale
della festa collocata nel momento in cui il sole [la luce] lentamente
inizia a declinare sulla linea dell'orizzonte.
“Questo lungo giorno,
al sol che gioca tra i
Gemelli e il Granchio” (3)
scrive ancora Bodrero in
un'altra poesia, questa volta in italiano, sempre dedicata a San
Giovanni Battista, in cui con poetica precisione individua le
caratteristiche astronomiche e astrologiche della festa.
Un lungo giorno, seguito
dalla notte più corta dell'anno, quella in cui «ci sono più falò
che stelle» (4), la più magica delle notti, in cui il tempo è
sospeso e davvero tutto può accadere. Lo sapeva bene Shakespeare,
attivo partecipante dei circoli esoterici e rosacruciani
dell'Inghilterra elisabettiana, che vi ambientò Sogno di una notte
di mezza estate, una delle sue commedie più belle e più complesse
quanto a riferimenti simbolici. (5)
Festa dai mille volti,
solare e lunare, della luce e delle tenebre, nata con l'agricoltura
ai primordi della società umana, da tempo immemorabile la festa di
San Giovanni si inserisce nel ciclo delle stagioni e dei lavori dei
campi. Piena ancora di echi pagani, la celebrazione cristiana dei due
San Giovanni riprende il mito antichissimo del Dio che nasce al
Solstizio d'inverno per morire una volta raccolte le messi al
Solstizio d'estate. Da queste antichissime credenze deriva
l’abitudine, ancora oggi praticata in tante parti d'Europa, di
bruciare le sterpaglie e i resti del raccolto per garantire nuova
fertilità alla terra.
Inizio di un ciclo
cosmico, momento magico in cui il tempo è sospeso, in quella notte
gli elementi della natura acquistano poteri del tutto straordinari e
prodigiosi. L’acqua, il fuoco, le erbe diventano veicolo di
operazioni magiche. Il fuoco dei falò rende puri i campi e i
vigneti, feconda gli animali domestici e le giovani coppie che ne
attraversano le braci o ne saltano le fiamme. Certe erbe, intrise
della magica rugiada di quella notte, acquisiscono il potere di
proteggere la casa da ogni influenza negativa e dai malefici delle
streghe, oltre che arrecare prosperità e gioia a chi la abita. In
quella notte fatata tutto è davvero possibile. Ce lo ricorda la
gioiosa canzone di Oberon, il Re della Fate,
che chiude la commedia scespiriana:
“E così di stanza in
stanza
ogni spirito si aggiri
fino allo spuntar
dell'alba.
A ogni talamo nuziale
recheremo buoni auspici,
che la prole generata
sia felice e fortunata,
e le tre coppie di amanti
sempre ai voti sian
costanti.
Nessun scherzo di natura
tocchi i figli di
costoro:
siano immuni da ogni neo,
labbro leporino, sfregio,
da ogni voglia mostruosa
aborrita dalla nascita.
Ogni spirito rechi con sé
la rugiada consacrata
che diffonda dolce pace
del palazzo in ogni
stanza:
e sicuro sia il riposo
del signore della casa.
Presto, su, non
indugiate,
ed all'alba a me
tornate”. (6)
Una notte incentrata
sugli elementi primordiali del fuoco e dell'acqua, che esalta la
forza generativa della natura e una sessualità libera e gioiosa
vista come manifestazione diretta del sacro. Abituati come siamo a
relegare il dato religioso in un ambito asettico estraneo alla vita
quotidiana, questa libertà assoluta che assume spontaneamente la
forma del rito ci sconcerta. Ci pare una mescolanza innaturale di
sacro e profano, una mancanza di misura se non di rispetto verso
realtà che esigono il silenzio e l'ordine del luogo consacrato.
Preoccupazioni che
sarebbero risultate incomprensibili per gli uomini e le donne del
Medioevo, abituati ad attribuire valenza religiosa ai più ordinari
gesti quotidiani (lavorare, cibarsi, riposare) e a convivere con il
sacro. E' il motivo per cui facciamo fatica a comprendere il senso
profondo delle rappresentazioni erotiche scolpite sui capitelli delle
chiese romaniche.
C'è chi addirittura si
ritrae infastidito davanti a quegli accoppiamenti esibiti senza
timore o a quegli organi sessuali ipertrofici posti orgogliosamente
in bella vista in luoghi dedicati alla preghiera, ritenendoli mera
pornografia che contamina uno spazio sacro. In realtà si tratta di
ben altro.
Quelle coppie avvinghiate
e quei falli non rappresentano, come qualcuno sempre prova a dire, la
condanna severa dei peccati e della carne, ma esattamente il
contrario. Contro i divieti e i tabù che la Chiesa tenta di
introdurre in un mondo fisicamente molto libero e che non ha (ancora)
il senso del peccato, quelle pietre scolpite, espressione di una
religiosità popolare primordiale, esaltano la sessualità naturale e
non peccaminosa delle piante, degli animali, degli uomini,
manifestazione prima della forza generatrice che muove il cosmo. C'è
gioia e non vergogna alla base di quelle figure. Ce lo racconta Risus
paschalis, piccolo grande libro della teologa e antropologa Maria
Caterina Jacobelli:
“Quando l'ombra
collettiva della chiesa ufficiale respinge la bontà, la sacralità
della sessualità e del piacere, ecco la prassi popolare mantenere
accesa questa verità attraverso i secoli, a modo suo, cioè spesso
in modo impertinente. (…) Il piacere sessuale che non trova spazio
nella dottrina ufficiale della chiesa, persiste tenacemente
nell'ambito del sacro, osteggiato e protetto, condannato e portato in
auge, adombrato da fragorose risate o scolpito nei capitelli o
dipinto negli affreschi”. (7)
Tutti questi elementi li
troviamo presenti nella festa di San Giovanni ad esaltare il fluire
eterno e multiforme della vita di contro alla vittoria apparente
della morte. Tra i moderni un giovanissimo Giorgio Caproni alle sue
prime prove poetiche ne ha saputo meglio di tutti trasmettere in una
manciata di versi di grande freschezza la spontanea e innocente
carica erotica:
“Voci e canzoni
cancella
la brezza: fra poco il
fuoco
si spenge. Ma io sento
ancora
fresco sulla mia pelle il
vento
d'una fanciulla passatami
a fianco
di corsa”. (8)
Note
1. Giorgio Caproni, San
Giovambattista, in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2004 (II ed.),
p. 25.
2. Antonio Bodrero, Opera
poetica occitana, Milano, Bompiani, 2011, p. 382.
3. ivi., p. 383.
4. Cesare Pavese,
Dialoghi con Leucò, Milano, Mondadori, 1966, p. 99.
5. Cfr. Frances Yates,
Gli ultimi drammi di Shakespeare: un nuovo tentativo di approccio,
Torino, Einaudi, 1979.
6. William Shakespeare,
Sogno di una notte di mezz'estate, Milano, Mondadori, 1998, p.171.
7. Maria Caterina
Jacobelli, Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere
sessuale, Brescia, Queriniana, 2004 (IV ed.), pp. 86-87.
8. Caproni, Tutte le
poesie, cit., p. 25.