Sui giornali si parla tanto dell'atomica iraniana e del regime degli ayatollah, ma l'Iran resta per noi un pianeta sconosciuto. Chi sa veramente cosa pensano i giovani iraniani? Un film, arrivato da poco in Italia, ci offre uno spaccato di quella realtà che ci aiuta a comprendere cosa accade a Teheran più di mille articoli di giornale.
Armida Lavagna
C'é da rimettere insieme la banda (I gatti persiani)
C'è da rimettere insieme la banda.
Se non fosse che questa è una tragedia, sembrerebbe una nuova e aggiornata versione dei Blues Brothers (molto più fedele dell’indecoroso sequel di qualche anno fa).
Dove la musica è la lente attraverso la quale osservare il mondo che la circonda e la comprime o la trascura. Dove la musica è quello che resta quando non resta altro. E serve ad esprimere ogni stato d’animo, la disperazione più cupa, l’elegia, la speranza, l’amore, la rabbia verso un Cielo che era goccia d’acqua che univa Dio e uomini ora così lontani dal cielo e tra loro. In una Teheran dove ogni cosa che guardi ti colpirà, te gatto persiano che ci vivi e ci sprofondi, te uomo occidentale che credi di conoscerla e la scopri diversa, in un’altalena vertiginosa che ora l’avvicina ora l’allontana dal nostro mondo.
Rap, metal, indy rock. E grattacieli, strade intasate, suburbi degradati, vetrine, cantieri. Ritmi antichi, percussioni, voci modulate. E veli sulle donne, vicoli e tetti, campagne dove la musica si balla, in un paese dove qualcuno si sente in diritto di concederti di ascoltare canzoni ma vietandoti di ballarle, come se la musica si potesse ascoltare senza muoversi, senza che dietro il battito dei tamburi vadano i passi e le anime che la amano.
La contaminazione dei generi e delle culture nella musica si accompagna alla contaminazione visiva tra Oriente e Occidente, nella Persia che fu porta all’Est ed oggi è una creatura strana, di contraddizioni lancinanti, dove una ragazza può cantare solo se in coro con altre, dove un ragazzino che vuol giocare ai soldatini gioca con persone vere denunciandole alla polizia per immoralità, e dove però un giovane con la massima naturalezza stira e butta un’occhio alla padella sul fuoco come in qualunque delle nostre case.
Sono quei giovani la speranza, è quel cantante che dovrebbe aiutare i protagonisti a munirsi di documenti per volare via dall’Iran ma mentre lo fa cerca di trattenerli mostrando a loro e a noi che c’è chi la musica continua a suonarla nella sua terra, nella sua città, senza fuggire, sfidando il pericolo. Che pure pericolo non dovrebbe esserci, se si suona una musica che non lede la moralità né parla di politica, come si affanna a ripetere a chi deve concedere l’Autorizzazione.
Ma anche una canzone – o un film – che non ledono la morale e non parlano di politica possono essere opera di denuncia. Di una denuncia che ci strappa le lacrime, perché vietare la musica ai giovani è come voler togliere loro il respiro, il cuore, i sogni. La vita.
I ragazzi che suonano la musica la sognano (sognano solo quella: una stanza insonorizzata con una batteria, un concerto davanti a duemila persone...) e sognano un’improbabile fuga in paesi dove la musica possa non essere clandestina, ma intanto ancora continuano a suonarla, nei sottoscala e negli allevamenti, in un cantiere o in una casa, e mentre organizzano la partenza organizzano un concerto, come nei Blues Brothers appunto, dove a sala piena e pubblico caldo si aspettano i due cantanti che sembrano non arrivare mai e poi arrivano. Ma quella, appunto, è un’altra storia.
Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.