lunedì 31 dicembre 2018

"Ligues". I Liguri: un popolo misterioso



I Liguri furono un popolo antichissimo e misterioso anche per chi, come i Greci, entrò a partire dal VII secolo a.C. in contatto con loro. Ne tratteremo in un corso presso l'UniSabazia nei mesi di gennaio e febbraio di cui diamo un breve cenno.

Giorgio Amico

Ligues. Un popolo misterioso


La storia la scrivono i vincitori. Si sa. Mai detto fu più appropriato per i Liguri. Tutto quello che conosciamo di loro ci viene da altri, prima i Greci fondatori di Marsiglia e poi i Romani.

Lo stesso nome con cui sono conosciuti è dovuto ai Greci. Di ligure restano i numerosissimi nomi tribali, ma per identificarli come popolo da sempre si utilizza un termine greco. Liguri è infatti il modo in cui li chiamarono i Greci quando intorno al VII secolo a.C. entrarono in contatto con loro. In realtà, prima dei Greci e dei Romani, altri popoli avevano stabilito con i Liguri legami intensi e duraturi. Fenici, Cartaginesi, Etruschi e Celti convissero con loro lasciando molte tracce del loro passaggio, ma nessuna scritta.

Popolo sfuggente, i Liguri hanno lasciato molte tracce della loro cultura materiale, ma nessun documento scritto. Per sapere qualcosa di più organico su di loro dobbiamo rivolgerci a Greci e Romani che ne parlarono diffusamente in termini geografici, economici, politici, sociali, ma soprattutto mitici.

Il termine con cui i Greci chiamavamo i Liguri è Ligues che diventerà poi Ligures. Terra ligustica è detto il territorio che abitano. In realtà si tratta di una serie di termini: Ligues, ligustiché ghé, ligus, ligur, ligusticus, ligures. Tutti derivano dalla radice lig che indicherebbe un suono stridente, acuto. Insomma coloro che parlano un linguaggio barbarico, non comprensibile. Ma anche sonoro, armonico.



Un'altra ipotesi vuole invece che il nome venisse da liga (acquitrino) e indicasse in origine le paludi alle foci del Rodano dove appunto arrivarono i Focei.

Oggi tutti concordano sulla prima ipotesi che compare già in Omero che usa il termine oltre che per il canto delle sirene anche per indicare il fischio del vento.

Un'altra fonte è Platone che nel Fedro fa dire a Socrate “Suvvia, o Muse, dette dalla voce sottile [ligeiai] per il tono del canto o perchè prendete questo soprannome dalla stirpe musicale dei Liguri”.

Dunque i Liguri parlano un linguaggio particolare che colpisce chi entra in contatto con loro perchè non è simile a nessuna lingua conosciuta, ma ricorda il canto delle sirene, il fischio del vento o come nel mito di Fetonte il canto straziante del cigno morente. Una lingua misteriosa, mai sentita dagli altri popoli mediterranei, di cui restano tracce (toponimi e nomi di persona) che hanno fatto pensare a un idioma antichissimo precedente all'arrivo degli Indoeuropei (come l'attuale basco). Tesi che ebbe grande fortuna in passato, ma che oggi è quasi del tutto abbandonata. L'ipotesi più accreditata oggi è che il ligure sia stata una lingua già indoeuropea ma con significativi lasciti anteriori e poi fortemente influenzata dal celtico.

Di certo c'è che per i Greci (e poi per i Romani) i Liguri sono un popolo misterioso e non solo per la lingua, ma anche per le origini. Esiodo (VIII sec. a.C.) li colloca tra i popoli che vivono alle estremità del mondo conosciuto.

Gli Etiopi, i Liguri e gli Sciti allevatori di cavalli”, scrive e li pone all'estremo Nord.

Anche altri autori li danno come originari del Nord. C'è addirittura chi li considera gli eredi dei mitici Iperborei, seguaci di Apollo, che avrebbero vissuto addirittura oltre il Circolo polare.

In epoca romana ebbe gran fortuna la tesi di Rufo Festo Avieno, un poeta del IV secolo d.C., che ne collocava la sede originaria nelle lontanissime isole Estrimiche, con grande probabilità identificabili con le Cassiteridi (oggi Scilly), dove secondo il greco Pitea i mercanti fenici andavano a acquistare lo stagno:

Se di qui dalle isole Estrimniche qualcuno osa spingersi la prora sulle onde, là dove dal carro di Licaone [l'Orsa] l'aria è fatta ghiaccia, troverà la terra originaria dei Liguri vuota dei suoi abitanti, perchè a causa dei Celti e a causa delle frequenti guerre essa è stata spopolata […] I Liguri scacciati giunsero nella terra che ora abitano, quasi ovunque irta di boschi, colma di asperità, dove rupi a picco e monti minacciosi sembrano toccare il cielo.”

E' dunque con gli occhi dei Greci che noi guardiamo agli antichi Liguri che fin dagli inizi entrano nella storia nel segno del mistero.



domenica 30 dicembre 2018

"Caro Umberto, mi recò vera gioia il caro tuo saluto". L'ultima lettera di Bordiga a Terracini (1969).



Ieri abbiamo postato un'intervista di Giampiero Mughini a Umberto Terracini sulla figura e l'opera di Amadeo Bordiga. Nella presentazione abbiamo accennato ai fraterni rapporti intercorsi fra i due esponenti comunisti nonostante l'ostracismo del PCI. La cosa, poco nota, ha suscitato curiosità e qualche polemica. La lettera che pubblichiamo oggi, una delle ultime scritte da Bordiga che morirà l'anno seguente, dimostra come il trascorrere del tempo e le vicissitudini politiche non avessero incrinato il rapporto fraterno fra i due vecchi compagni di lotta.


Formia, 4 marzo 1969

Caro Umberto, mi recò vera gioia il caro tuo saluto per l'inizio di quest'anno ed è chiaro che convengo con entusiasmo nel tuo auspicio di tempi migliori.
Seguo le notizie della tua attività e penso che date le situazioni (quella di Lenin a riguardo, era una tirata di orecchi al mio indirizzo, ma non la ho accusata né allora né oggi), Tu procedi sempre per il meglio, come quaranta anni fa.
Ricordo bene l'affettuosa visita che mi facesti a Napoli, e di tutta la tua vecchia e solida amicizia mi compiaccio e ringrazio con cuore uguale.
Io attendo, in posizione sempre cocciuta e settaria che, come ho sempre preveduto, entro il 1975 giunga nel mondo la nostra rivoluzione, plurinazionale, monopartitica e monoclassista, ossia soprattutto senza la peggiore muffa interclassista, quella della gioventù così detta studente.
Dal canto nostro, quando avevamo quei verdi anni abbiamo fatto il meglio che si doveva.
Io non torno in quella fetida metropoli di Napoli perché spero di arrivare alla guarigione in questo clima migliore ed avere, da vivo, ancora il tempo di ribadire quanto ho nel passato difeso. Vado infatti migliorando con sicurezza e conto che il mio cervello, non certo elettronico, avrà ancora a servire a qualche cosa, non essendo del tutto astemio di scienze, di tecniche e di filosofia storia.
Ti mando un caldo ed affettuoso saluto con i migliori auguri per te insieme a mia moglie Antonietta che si prodiga per la mia cura con i più estremi sacrifici, sebbene non ricordi dopo tanto tempo te; bensì Gramsci, che per mio desiderio le impartì alcune lezioni di filosofia quando era ragazza.

Con affetto tuo
Amadeo

Permettimi di segnalarti il mio vecchio articolo scritto nel 1949, dal titolo: "Come abbiamo sempre posto la questione de 'Gli intellettuali e il marxismo'", è riprodotto nel n. 4 di "Programma comunista" testé uscito. Non penso che lo troverai nelle emeroteche parlamentari. In ogni modo a Roma si vende nelle seguenti edicole: Piazza di Spagna; Piazza Cavour; Piazza Bologna; Piazza dei 500; Piazza Croce Rossa; Via Carlo Felice; (San Giovanni) Ed. Cirioni alla Città degli Studi. Se ti dà troppa noia potrò mandartelo io se me lo dici.

Amadeo Bordiga



sabato 29 dicembre 2018

Un gigante in tempi "di ferro e di fuoco". Terracini parla di Bordiga




Prima di diventare l'attuale personaggio televisivo, Mughini fu per molti anni un intellettuale impegnato, persino maoista. Fondatore di Giovane Critica, rivista prima di cinema e poi di politica,lavorò poi a lungo al settimanale di Parri L'Astrolabio. Su questa rivista pubblicò l'articolo che proponiamo oggi, frutto di una lunga intervista a Umberto Terracini che, nonostante l'ostracismo del PCI, con Bordiga mantenne per tutta la vita rapporti fraterni.

Terracini parla di Bordiga

Quel «gauchiste» di 50 anni fa


Amadeo Bordiga merita oggi certamente attenzione politica. Non però quella retorica e di comodo riservata ai «vinti». Dinanzi a siffatti protagonisti, comunque, non c'è da chiedersi che cosa di essi resiste al nostro confronto, ma che cosa di noi resiste di fronte a loro.

Ignazio Silone, il quale per un lungo tempo della sua vita si chiamò Secondino Tranquilli, racconta in quella che è forse la più bella fra le testimonianze raccolte nel volume Il Dio che ha tradito, come durante una seduta cui partecipavano alcuni fra i massimi dirigenti dei Partiti Comunisti della III Internazionale, Trotckij finisse un suo intervento usando un'espressione italiana aggiungendo, rivolto a Bordiga, "per parlare nella lingua di Dante e di Bordiga". Era un omaggio dell'organizzatore dell'Armata Rossa, certo non usueto in bocca sua, a una delle figure che nell'Internazionale del tempo irradiava maggior prestigio.

Amadeo Bordiga è morto. Il compagno Amadeo Bordiga. Perchè lui, a differenza di altri "esuli risentiti", non venne mai a patti con l'avversario, non ammiccò a un qualche Petain. Sapeva troppo della lotta politica e delle sue leggi per credere che un "dio" avesse tradito, finendo magari con il lasciarsi abbindolare dai "diavoli" partoriti dalla dinamica della società capitalistica. Se c'erano delle ragioni alla sua sconfitta, sconfitta con la quale ha convissuto in ostinata e stoica solitudine per 45 anni, esse andavano ricercate, coerentemente con la sua metodologia generale, nell' "economia" e nel gioco delle classi.

"Da tempo infinito lontano da lui, eppure lo sentivo più vicino di molti che accosto ogni giorno", così ci dice Umberto Terracini, iscrittosi al PSI nel 1911, membro della direzione del PSI nel 1920, nell' Ordine Nuovo con Gramsci e Togliatti, nel PCI con Gramsci e Bordiga, "quale massimo organizzatore del partito" condannato dal Tribunale speciale fascista a ventidue anni nove mesi e cinque giorni di reclusione (largamente scontati), oggi senatore comunista. Un uomo cioè che appartiene a uno scorcio di storia  del movimento operaio organizzato tale da indurre - quale che sia il giudizio di merito su certi esiti e sviluppi - a chiedersi, secondo quanto Adorno diceva di Hegel, non che cosa resiste di lui davanti a noi, bensì che cosa resiste di noi davanti a lui (la frase di Adorno è citata da Cesare Cases, significativamente, in un suo articolo su Gramsci).

Amadeo Bordiga era stato "espulso" dal PCI sul finire degli anni trenta E' stata una delle espulsioni tipiche di quel tempo, dice Terracini, quando con esse non si intendeva "ratificare" una situazione "reale" ma piuttosto "crearla". Quando gli chiedo le ragioni del fascino di Bordiga, del suo prestigio anche internazionale, Terracini risponde che Bordiga sotto una scorza "autoritaria" rivelava una "comunicatività straordinaria, una "bontà incommensurabile". Rispetto ad altri "estremisti" combattuti da Lenin, i quali, a dire di Terracini, furono spesso delle "meteore", Amadeo Bordiga spiccava per la sua "serietà", per la sua "singolarità".

Resta però il fatto che, secondo Terracini, una "grave lacuna" inficiava alla base l'attività dell' "uomo politico" Bordiga, attività pur immane (ce ne vogliono tre per fare il lavoro di un Bordiga, diceva Gramsci). Tale lacuna era "l'astrattezza", il partire non dalla realtà, in tutta la sua originale concretezza e ricchezza di mediazioni interne, ma dai "principi".

Bordiga credeva che i "fatti" non avrebbero potuto non incontrarsi con alcune linee di sviluppo concettuale. La sua stessa concezione del "Partito", che poi era la sua forza (tant'è vero,aggiungiamo noi, che da essa sono partiti alcuni riesumatori odierni del suo "pensiero"), risentiva di questo limite di partenza.


Amadeo Bordiga, dice Terracini, era innanzitutto "uomo di partito". Più che i problemi della società egli viveva i problemi del "Partito", della coerenza strutturale e "ideologica" di un nucleo di rivoluzionari (sperimentati però, si badi bene, sul terreno concreto della lotta e dell'iniziativa di classe). Egli era, continua Terracini, molto più "uomo di partito" di Gramsci.

A Livorno Bordiga arriva forte di una prolungata e ben caratterizzata lotta politica all'interno del PSI napoletano e nazionale; laddove Gramsci si era limitato al lavoro politico che comportava una sezione torinese del PSI. Proprio per questo il nucleo bordighiano (la frazione "astensionista"), dice Terracini, costituirà lo "scheletro portante" del PCI appena nato; del quale il gruppo ordinovista sarà piuttosto il "tessuto nervoso" ma - ed è questa una "confessione" particolarmente interessante - senza che per i primi due anni di vita del partito sia davvero "stimolato" ad esserlo.

Perchè il Gramsci dell' Ordine Nuovo pensava, agli antipodi com'era di Bordiga, alla "società" prima che al "Partito", ai movimenti di massa prima che alle cristallizzazioni organizzative, intese queste ultime piuttosto come "prodotto della storia" (l'espressione è di Mao Tze-Toung) anziché come suo fattore costitutivo e propulsivo: quest'ultima difatti è l'accezione leninista, o presunta tale, prevalente nel contesto terzinternazionalista nel quale operano Gramsci e Bordiga.

Ancora dopo il II Congresso del Partito, quello di Como, Bordiga ha saldamente in mano l'intelaiatura del partito. La segreteria che ne scaturisce vanta quattro bordighiani su cinque: Grieco (che poi si convertirà alla linea gramsciana), Repossi, Fortichiari, Bordiga. Il quinto è Umberto Terracini; stando alla sua stessa autodefinizione, il più "uomo di partito" dei torinesi dell' Ordine Nuovo (qualcuno ha parlato di una persistente influenza di Bordiga su Terracini).

La successiva pesante sconfitta bordighiana a Lione non avviene nell'ambito di una dialettica puramente interna all' "istituzione", bensì, per usare l'espressione di Terracini, su  "un terreno puramente lavorato". Terracini si riferisce al "periodo matteottiano", l'Aventino, che costituisce il "grande campo sperimentale della strategia gramsciana". Bordiga si oppone all'abbandono del Parlamento (ciò che gli sembrava un valorizzarlo) e si oppone poi a ritornarvi, o comunque non dà peso alcuno all'iniziativa di Gramsci e alla strategia che la sottende.

Ad Amendola il quale dice a Gramsci, voi volete tornare in Parlamento e parlare al popolo coerentemente con il vostro assunto fondamentale che è quello di fare la rivoluzione, assunto che non è il nostro, Gramsci e i suoi replicano ritornando in aula (a costo di un grave rischio anche personale). Bordiga segue distrattamente quella vicenda. Oltretutto, commenta Terracini, lui riteneva in un certo senso "ineluttabile" il fascismo, da lui interpretato come uno stadio capitalistico più avanzato di quello "liberale" (cosa che,in sé, aggiungiamo noi, alcuni studi recenti tendono a convalidare). Marcisse dunque per intima putrefazione, ché la rivoluzione socialista ne sarebbe conseguita ipso facto.

Bordiga non ha mai scritto queste cose, dice Terracini, ma tale era al fondo la sua ipotesi. Poco si curava perciò della flessibilità (sia pur relativa) di certi strumenti (come lo stesso Parlamento, in una situazione data); né aveva preoccupazioni tattiche, come se la tattica fosse altra cosa dalla strategia e non ne creasse invece le condizioni preliminari, le occasioni e le possibilità concrete. In questo, secondo Terracini, malgrado il perdurante richiamo formale a Lenin, Bordiga non fu mai "leninista", non afferrò tutta la complessa lezione politica del rivoluzionario russo. Se Bordiga non avesse subita la sconfitta del '26, dice Terracini, il PCI non sarebbe stato dissimile dal "Partito" di cui Bordiga costituirà il massimo punto di riferimento nel dopoguerra: un migliaio di iscritti, soprattutto all'estero, che si riuniscono una volta all'anno in "assemblea" e depositano le loro "testimonianze" in un volume: "materiali" fra i tanti, tronchi fra i tanti nel fiume della storia.

Tutto sommato, Terracini trova che Bordiga mancava di autentica "passionalità politica". Altrimenti, egli dice, non avrebbe potuto restare così a lungo e così pervicacemente fuori dalla mischia, fuori dalla concreta fenomenologia della lotta di classe, come se tutto quanto è nel "reale" fosse poca e inessenziale cosa rispetto all'unilineare coerenza del "razionale", e sia pure di quella forma altissima del "razionale" che è l'ideologia rivoluzionaria, il patrimonio ideale e politico del movimento operaio in lotta.

A una mia esplicita domanda, e cioè se Bordiga avesse intravisto prima degli altri i pericoli impliciti in un rapporto troppo stretto e vincolante con il gruppo dirigente bolscevico postleninista e con l'orientamento strategico che da esso promanava, Terracini dice di no. Bordiga aveva creduto anzi, omologamente alla sua concezione del "Partito", alla necessità di una "Internazionale di ferro". No, conclude Terracini: Amadeo aveva troppi "meriti" perchè gli si debba concedere anche questo.



"Merito" invece che, oggi sappiamo, ebbe Gramsci, sia pure in modo tormentato e politicamente contraddittorio. Anche in questo, "capo" più ricco e più duttile di Bordiga, più onnicomprensivo. Contrariamente a quanto ne scrissero i seguaci di Bordiga su Prometeo commemorandone il martirio "proletario". Gli stessi che a Gramsci, con "materialismo" un po' greve, rimproveravano la sua origine intellettuale e persino le sue "condizioni fisiche", contrapponendogli Bordiga il quale "fu il capo del proletariato italiano del dopo guerra unicamente perchè seppe, per primo, affermare la necessità del partito di classe per condurre il proletariato alla vittoria".

La testimonianza di Terracini mostra quanto cammino abbia compiuto il Pci, per quanto concerne la ricostruzione della sua "storia", dal tempo in cui l'edizione delle Lettere dal carcere di Gramsci venne amputata dei passi che contenevano giudizi benevoli su Bordiga. Persino il favorevole giudizio di Bordiga su Gramsci giocatore di scopone venne cassato, evidentemente perchè ritenuto compromettente. E ancora nel 1951 Giuseppe Berti scriveva di supporre che "Bordiga fosse, in tutto o in parte al servizio delle classi dominanti anche nel periodo in cui il bordighismo si presentava ancora come una corrente opportunista del movimento operaio" (citato da Salvatore Sechi in Spunti critici sulle "Lettere dal carcere" di Gramsci, Quaderni Piacentini n. 29, 1967). Il Pci ha poi notevolmente innovato l'ottica dell'interpretazione storiografica generale. Innanzitutto con il famoso saggio di Palmiro Togliatti La fondazione del gruppo dirigente del partito comunista. "Si trattò di una piccola rivoluzione storiografica", ha scritto recentemente Massimo Salvadori. E poi con i due volumi di Paolo Spriano; cui è da aggiungere il contributo di Giuseppe Berti, oggi addirittura incline a rivalutare la "linea" di Tasca.

Siccome i vivi cercano sempre di assicurarsi il "voto" del passato, era prevedibile che nel contesto degli anni '65-'68 quando più grave sembrò la crisi "storica" e politica dell'intera costruzione gramsciana e quando più dure e radicali erano le critiche indirizzate da sinistra al "gruppo dirigente del PCI", quale uscì vittorioso dalla lotta con Bordiga, quest'ultimo non poteva non attirare l'attenzione di alcuni studiosi, sollecitati da un impegno politico nel presente. In quel momento apparvero, e suscitarono una certa eco, alcune rivalutazioni di Bordiga.


Se ne fece promotrice la Rivista storica del socialismo, specie nel momento in cui la gestione Cortesi prevalse sulla linea Merli. Si pensi ai due famosi e lettissimi saggi rispettivamente di Luigi Cortesi, Alcuni problemi della storia del PCI. Per una discussione. e di Andreina De Clementi, La politica del Partito Comunista d'Italia nel 1921-22 e il rapporto Bordiga-Gramsci. Andreina De Clementi è ritornata recentemente, seppur di sbieco sull'argomento: sempre sulla Rivista storica del socialismo, Il movimento operaio tra "ricordi" e ideologia. A proposito di due libri recenti sui primi anni di storia del PCI. Ultimamente la stessa studiosa ha consegnato all'editore Einaudi 200 cartelle, che fungeranno da "prefazione" a un'antologia di scritti di Bordiga. Anche se sulla portata politica complessiva dell'operazione "neobordighiana" tentata da Cortesi e dai suoi collaboratori noi condividiamo le critiche che in più occasioni espresse Stefano Merli.

Fatto è che Bordiga non è mai apparso sui "cartelli" degli studenti. Addirittura alcuni fra i "gruppi" più maturi hanno preso eguali distanze dallo "spontaneismo" e dal "bordighismo" associando quest'ultimo, seppur alla lontana, con la concezione del "Partito" che sottostava alla costruzione di alcuni partitini "marxisti-leninisti". Per non dire poi di certi seguaci di Bordiga, i quali davvero pochino hanno fatto per rendere attuale il pensiero del maestro. Basti pensare a un numero speciale della rivista filobordighiana francese Le fil du temps consacrato a un'analisi dei "fatti" di maggio. Vi si rieditavano documenti pubblicati alcuni lustri prima, annunziando contemporaneamente - perchè così voleva il "ciclo economico" - la rivoluzione mondiale per il 1975. Dirlo così chiaro e tondo, aggiungevano cautelativamente i redattori della rivista, potrebbe mettere sul chi vive l'avversario di classe: ebbene no, concludevano, perchè tanto non ci prende sul serio.

Paragonare un gigante come Bordiga a dei pigmei suona blasfemo. Perchè Bordiga è stato un gigante, e in tempi "di ferro e di fuoco" (un'espressione prediletta del giovane Marx). Ma resta lontano dai giorni nostri e dai nostri problemi. Per dirla con Mao, lui sì tanto vicino, Bordiga coglie raramente i "due elementi" che sono impliciti in ogni "particolare momento" della storia e della lotta politica. Nel rivoluzionario napoletano l' "elemento" dottrinario prevale sempre sull' "elemento" del reale accidentato e multiforme. Per lui, tipicamente, la stessa storia della Russia postleninista si riduceva a una "restaurazione del capitalismo", il che era uno sfuggire ai problemi reali, politici e teorici, che l'involuzione del processo rivoluzionario in Russia drammaticamente poneva. Come tutti i momenti "classici" del passato, e di quale passato, egli merita studio e attenzione politica: non però quella retorica e di comodo che si presta usualmente ai "vinti": perchè non sempre  i "vinti" avevano ragione.


L'Astrolabio, 2 agosto 1970

(In ricordo di Sandro Saggioro e di “Avanti Barbari!)


venerdì 28 dicembre 2018

Ieri l'ILVA, oggi la Piaggio. “Gli innocenti” di Guido Seborga



Una grande storia operaia, il romanzo corale di di una città (la Savona delle fabbriche e del porto) travolta dalla crisi. "Gli innocenti” di Guido Seborga. Da leggere, per capire.

Giorgio Amico

Ieri l'ILVA, oggi la Piaggio. “Gli innocenti” di Guido Seborga

Che Guido Seborga sia stato un grande scrittore lo testimonia la bellezza folgorante dei suoi incipit. E “Gli innocenti” non fa eccezione:

“Matteo per ore chiuso nella fabbrica era straziato dal lavoro; e non poteva permettersi la minima disattenzione. Doveva curare con sveltezza e abilità che i lunghi e infuocati fili di metallo incandescente che uscivano dal forno si deponessero sugli schermi dopo aver paurosamente volteggiato in aria. I suoi gesti precisi costringevano il filo al suo posto; la sua fronte era madida di sudore, il suo volto dai tratti salienti come arrossato dal fuoco”.

Un inizio straordinario che indica immediatamente il vero protagonista del romanzo: la fabbrica, il lavoro ai forni e alle macchine. Un lavoro pesante, feroce, che “strazia”, che può ferire o uccidere. La fonderia è un inferno dei vivi. Non c'è retorica nel romanzo. Sbaglia chi sbrigativamente lo etichetta come un frutto un po' tardivo dell'epoca neorealista. Nelle pagine di Seborga non c'è compiacimento o retorica. Il lavoro non viene esaltato, tanto meno la fatica. Il lavoro permette di vivere, ma è una condanna che pesa sull'uomo, un ergastolo “senza possibilità di evasione”. Una feroce necessità a cui l'uomo, se davvero è uomo, non può sottrarsi, pena perdere la propria dignità. Il lavoro connota la condizione umana, crea, pur nella sua durezza, i presupposti dell'esistenza di una comunità. E' il lavoro, la vita nel reparto, a forgiare il gruppo, a legare fra loro gli uomini, a costruire visione condivise.

Grande romanzo corale, storia (quasi cronaca) della lotta di una città per il lavoro, “Gli innocenti” è anche la storia di un gruppo di uomini costretti, ciascuno a suo modo, a confrontarsi con avvenimenti più grandi di loro di cui fanno fatica a comprendere il senso. Ognuno reagisce a suo modo alla sfida rappresentata dalla chiusura della fabbrica, dalla perdita del lavoro.



La fabbrica rende simili gli uomini. Ma gli operai, nonostante il lavoro, restano irriducibilmente diversi. L'occhio libertario di Seborga non può che concepirli così, nella loro assoluta, innocente, individualità. I gesti sono gli stessi: metodici, calibrati, ritmati sui tempi del reparto. Ma gli occhi no. Gli occhi degli operai sono diversi, i loro volti sono diversi, il modo in cui reagiscono alle avversità e alla fatica sono irriducibilmente diversi. Nella lotta gli operai sono massa, ma una massa che non è semplice moltitudine, ma che prima il lavoro e poi la consapevolezza ha reso comunità di uomini liberi uniti da un patto di fratellanza e di mutuo sostegno. Il pugno che sollevavano è fatto di dita strette insieme. Una stretta che il padrone vuole sciogliere.

La lotta è dura, difficile, soprattutto lunga. Il padrone può attendere. Gli operai e le loro famiglie no. La mobilitazione lentamente declina. Nascono le prime divisioni. La comunità operaia inizia a sfaldarsi. Il gruppo si frantuma. Esclusi dal lavoro, lontani dal reparto, fuori dai cancelli dello stabilimento, gli operai perdono poco a poco la loro identità di produttori. La loro vita, interamente centrata sul lavoro, perde significato. Mutano i rapporti con i compagni, le mogli, i figli, la città stessa diventa estranea, sconosciuta, ostile:

“Milano [uno degli operai licenziati] se ne stava per ore seduto immobile con gli occhi sbarrati, e con la mente pensava sempre alla «sua» fabbrica e a compiere il «suo» dovere, le sue orecchie accoglievano stranamente quei rumori esterni che c'erano intorno e che non conosceva perché in quelle ore aveva sempre udito i suoni della fabbrica. Non osava uscire. Gli pareva impossibile farsi vedere per istrada in pieno giorno. Uscire diventava il gioco di un fannullone, di un buono a nulla. Non poteva andarsene sotto i portici, sedersi ad un caffè, oppure prendere una delle piccole e tortuose stradette che partono da Corso Italia, e dove ci sono tante osterie, parlare ad alta voce, discutere di «lascia o raddoppia», (...) giocare alle carte o al bigliardo. Queste erano cose che un operaio non poteva fare, che un padre di famiglia non poteva accettare, questo era un degradarsi. Meglio era stare chiuso in casa non farsi vedere da nessuno, farsi dimenticare. «Disoccupato!» Era una condanna. Per ora aveva ancora qualche lira della disoccupazione, ma dopo?”.



“Gli innocenti” è del 1961 e racconta la storia della lotta dell'ILVA di Savona del 1950 che l'autore aveva seguito come giornalista. Ma il libro resta vivo e attuale, nella descrizione di picchetti e dei cortei, ma soprattutto della sofferenza di quegli operai che escono sconfitti dalla lotta, derubati della loro vita. Come Milano, la cui esistenza ha perso significato e dignità, che non osa più “essere padre, essere marito. Caterina [la moglie] disperata piangeva senza lacrime ore intere. Una famiglia era stata infranta, distrutta alle radici. Non era la sola. Ma tutto sembrava naturale”.

“Tutto sembrava naturale”. Ieri come oggi. L'ILVA come la Piaggio. Chiudere una fabbrica, spostarne altrove la produzione, licenziarne gli operai. Cosa si può fare? Il mondo gira cosi.. E invece no. Qualcosa si può fare, si deve fare. Ma cosa? In questo Seborga ci aiuta. Perché i romanzi di certo non cambiano il mondo, ma aiutano a capire. E capire è il primo passo...

giovedì 27 dicembre 2018

Italo Calvino scrittore di paesaggi



Ci sono due Ligurie. Una costa fatta di luci, palazzi, rumori e un entroterra di ombre, pietra e silenzi. Lo scrittore sta sul confine.

Giorgio Amico

Italo Calvino scrittore di paesaggi

“Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d'arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l'orina dei muli”.

Forse qualcuno l'avrà riconosciuto. E' l'incipit della sua prima opera importante. Il sentiero dei nidi di ragno (1947).

Il dato è quasi simbolico: la scrittura di Calvino inizia dalla descrizione della Pigna, il centro storico di Sanremo. E' Calvino stesso a spiegarlo ne La strada di San Giovanni (1963), una rimeditazione della sua giovinezza e un omaggio postumo al padre reso, quando, oltrepassata la conradiana linea grigia, si inizia finalmente a capire qualcosa di più della vita:

“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra, a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città con i marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e piazza Colombo lì a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra i muri a secco e pali di vigne e il verde”.


Il paesaggio come punto di partenza, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e significato il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il paesaggio deve poter essere abitato, in qualche modo vissuto. Calvino lo spiega nella celebre introduzione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno:

“Io ero della Riviera di Ponente; dal paesaggio della mia città - San Remo – cancellavo polemicamente tutto il litorale turistico - lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i geometrici campi dei garofani, preferivo le « fasce » di vigna e d'oliveto coi vecchi muri a secco sconnessi, m'inoltravo per le mulattiere sopra i dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i castagni, e cosi ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi liguri. Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos'altro: a delle persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui”.

E' un concetto che ricorda Pavese. Calvino non lo nasconde. In una recensione dell’agosto 1946 il giovane scrittore identifica come centrale nel mondo poetico di Pavese « la sua esigenza di sentire il paesaggio in chiave di un personaggio» staccandolo da una funzione passiva di mero sfondo. Un concetto che egli farà suo fin dalla prima prova importante, quel piccolo-grande romanzo sulla Resistenza vista con gli occhi di un bambino, che lo imporrà all'attenzione dei critici e del pubblico.



Quella di Calvino è una Liguria divisa in due, quasi lacerata: da un lato una costa luminosa ma senza anima, dall'altro un entroterra, aspro e povero, ma ricco di senso. Una terra descritta negli articoli che lo scrittore, giovanissimo, invia al “Politecnico” di Vittorini fra la fine del 1945 e il 1946. Una Liguria “magra e ossuta”, dignitosa nella sua povertà, lontanissima dall'immagine sfavillante di luci della costa, abitata da uomini duri e scontrosi, «stundai» secondo la parlata ligure, proprietari e schiavi » della poca terra disponibile, condannati a una fatica senza redenzione possibile:

“In nessun popolo l’individualismo è spinto alle estreme conseguenze come tra i liguri. La proprietà è frazionatissima e spesso l’azienda è costituita di poche fasce e di un sol uomo che ne è allo stesso tempo proprietario e schiavo. Dovrà zappare la terra secca e dura, ingrassarla di concimi costosi, far scorrere tra i solchi i pochi metri cubi d’acqua che gli spetteranno alla settimana, rifare i muri delle fasce quando le piogge minacceranno di fargliele franare giù per la valle. Egli pensa che il suo grande nemico, dopo la siccità e gli insetti, sia il governo. Ma forse il suo più grande nemico è in lui stesso, nella sua solitudine”.

Una Liguria dell'entroterra fatta di pietra a cui corrisponde una umanità pietrosa:

« In certi paesi sembra non ci siano che pietre. Pietre nei selciati delle mulattiere, case fatte di pietre senza intonaco, muri a secco nelle fasce, la terra dei campi piena di pietre. Anche i vecchi, rimasti nei paesi, sembra siano di pietra. Forse per questo sono rimasti ».

Siamo in presenza di un Calvino giovanissimo, alle prese con le sue prime prove serie di scrittura. Nelle opere successive lo stile evolverà. Il paesaggio sfumerà progressivamente assumendo sempre più tonalità magiche e allusive. Il confine fra le due Ligurie diventerà metafora e simbolo esistenziale. Ma è da questa incerta linea dei monti che sfuma nell'azzurro, da questo sentirsi e viversi come uomo di frontiera che quarant'anni più tardi ripartirà Francesco Biamonti.

sabato 22 dicembre 2018

Dante Lepore. Un compagno e un amico




E' mancato Dante Lepore, militante comunista, studioso marxista cresciuto alla vecchia scuola di Amadeo Bordiga e di Arrigo Cervetto

Un compagno e un amico.

Lo vogliamo ricordare così. Con questa foto di qualche mese fa. La malattia non aveva fermato il suo impegno.

Dante continuerà a vivere nei nostri cuori, nei suoi libri e nelle lotte degli sfruttati.


venerdì 21 dicembre 2018

La storia antica dei Valdesi




Inaugurato il 31 ottobre il nuovo Museo storico valdese, racconta le vicende dei seguaci di Pietro Valdo dal Medioevo al Novecento.

Luciano Del Sette

La storia antica dei Valdesi

Lo scorso anno, secondo il quotidiano Il sole 24ore, oltre cinquecentomila italiani hanno versato l’otto per mille ai valdesi. Un quarto rispetto ai due milioni e più che hanno scelto la chiesa cattolica. Ma in Italia i valdesi dichiarati sono circa ventiseimila, contro i quarantacinque milioni di cattolici.

Perché, allora, guardando la proporzione delle cifre, gli eredi della parola di Pietro Valdo, che anticipò di tre decenni san Francesco nel predicare il ritorno della chiesa alla povertà e di tre secoli e mezzo le Tesi di Martin Lutero, piacciono così tanto a chi pratica un’altra fede, è agnostico, o addirittura ateo?

Nel 2010, sul mensile Micromega, all’interno di un articolo molto polemico nei confronti di quello che definiva «Un balzello clericale che arricchisce la Chiesa gerarchica come Mammona e viola sfacciatamente il principio di laicità dello Stato», il filosofo Paolo Flores d’Arcais scriveva «C’è però già la possibilità, per quanto possa suonare paradossale, di combattere il clericalismo con la religione. Esiste infatti una confessione religiosa che si impegna solennemente – e fornisce tutti gli strumenti di controllo – a utilizzare la sua quota di otto per mille esclusivamente per opere di beneficenza o promozione culturale, puntualmente elencate, e di non spendere neppure un euro per i propri pastori d’anime o per le strutture materiali delle proprie chiese».

I valdesi, appunto, la cui storia lunga otto secoli è storia di scomuniche, stermini, esili, clandestinità, ghettizzazioni, terminati in Italia con la promulgazione, il 17 febbraio del 1848, delle Patenti Albertine, che sancivano: “I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ Nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici”.

In un popolo che così tanto e per così tanto tempo aveva lottato per la propria libertà, era dunque naturale germogliasse il seme della solidarietà, della difesa, del soccorso verso i poveri e gli emarginati. E diventasse altrettanto naturale schierarsi dalla parte delle minoranze, contro ogni tipo di discriminazione.

    Torre Pellice. Centro Culturale Valdese

Se anche voi avete firmato il vostro otto per mille a favore dei valdesi, allora vi suggeriamo un viaggio di conoscenza, un piccolo Grand Tour, che ha come meta principale la cittadina piemontese di Torre Pellice, la Ginevra italiana secondo la definizione di Edmondo De Amicis in Viaggio alle porte d’Italia. A Torre, ‘capitale’ delle valli valdesi – Pellice, Chisone e Germanasca – sono molti i nomi delle vie, i monumenti, gli edifici, i dintorni, che raccontano il cammino da Valdo alle Patenti Albertine e ne ricordano i protagonisti: tra di loro il guerrigliero Giosuè Gianavello, XVII secolo, e il benefattore inglese John Charles Beckwith, generale alla battaglia di Waterloo.

Il 31 ottobre del 1517 Martin Lutero affisse sul portale della Schlosskirke di Wittemberg le novantacinque Tesi con cui chiedeva di fermare la scandalosa pratica delle indulgenze. Quella data divenne in seguito celebrazione europea del Giorno della Riforma. Non è perciò un caso che Torre Pellice abbia scelto il 31 ottobre scorso per l’apertura del nuovo Museo Storico Valdese.

In principio, era il 1889, bicentenario del Glorioso Rimpatrio dei valdesi dall’esilio svizzero sotto il comando del pastore combattente Henri Arnaud, il museo venne allestito al secondo piano della Casa Valdese, e cinquant’anni più tardi trasferito nei locali della Foresteria. Qui rimase fino al 1989.

Con il terzo centenario del Rimpatrio, la Tavola Valdese e la Società di Studi Valdesi decisero, infatti, di creare la Fondazione Centro Culturale Valdese, finalizzata a gestire la Biblioteca, l’Archivio fotografico e il patrimonio museale, collocandoli nell’edificio dell’ex Convitto. Con pochissimi mezzi e tanta buona volontà, gli ambienti furono adattati a ospitare ricostruzioni, parte dei cimeli, stampe, foto, materiali documentari e di carattere etnografico. Per dirla in totale franchezza, un modesto museo che si limitava ad adempiere con dignità ai suoi compiti.

Il progetto degli architetti Margherita Bert e Massimo Venegoni, già autori degli interventi sugli spazi espositivi del Forte di Bard, Valle d’Aosta, è andato ben oltre il puro ripensamento estetico e funzionale. Spiega il direttore Davide Rosso «Non ci siamo limitati a un semplice riallestimento basato su strumenti più moderni, ma abbiamo pensato un nuovo museo, rappresentazione della comunità e al medesimo tempo ‘autoriale’, che per ciascun periodo ha avuto uno o più studiosi a curarne i contenuti».

    Beidane

Entriamoci allora, scoprendo subito che il filo narrativo intreccia il proverbiale rigore valdese, in questo caso storico e scientifico, con la capacità di emozionare, sorprendere, incuriosire. Il visitatore attraversa le vicende valdesi dal Medioevo al Novecento avvolto un involucro di architetture, prospettive, colori, luci, vetrine, mappe, immagini, suoni.

Le dimensioni delle sale sono volutamente contenute, volutamente pochi sono i reperti ospitati all’interno di ciascuna insieme ai pannelli didattici. Quasi un invito al raccoglimento per meglio comprendere e apprezzare. Ad esempio la prima edizione della Bibbia di Olivetano, una delle centodieci Cinquecentine della Riforma, parte di un fondo librario donato alla Biblioteca nella seconda metà dell’800 da tale Don Simpsons, la cui identità rimane tuttora sconosciuta.

Poi le armi della resistenza e del Rimpatrio: la beidana, sorta di machete ricavato da una roncola, e la colubrina usata da Gianavello. Racconta Rosso «Giosuè convinse un artigiano a fabbricarne altre per le sue truppe, ma siccome non pagava, la fornitura si interruppe». Mai aveva trovato posto nel museo precedente il vessillo seicentesco della famiglia di Henri Arnaud, in mostra con altre bandiere.

Curiosi e preziosi la gamba di legno che sostituì l’arto perduto da Beckwith a Waterloo, il volume dell’Histoire Remarquable des vaudois, gli stendardi azzurro e oro realizzati in omaggio a Carlo Alberto e a Roma capitale.

È cronaca tanto più drammatica nella sua asciuttezza, la sezione che documenta il popolo valdese negli anni del nazifascismo. L’ultima tappa, gradino dopo gradino, raggiunge la torretta panoramica affacciata sulle valli, dove tutto è iniziato e neppure le persecuzioni più feroci hanno saputo cancellare. Un mondo cui Umberto Eco, cittadino onorario di Torre Pellice, aveva pensato, nel 1982, di dedicare un romanzo. Non se ne fece nulla. Ma l’otto per mille che lo scrittore dichiarò di destinare sempre ai valdesi, rimane comunque una pagina di notevole valore.

Il Manifesto/Alias – 1 dicembre 2018

mercoledì 19 dicembre 2018

Valle Maira. Tra terra e cielo




Quest’anno per il Natale è arrivato nelle librerie “Tra terra e cielo”, un originale libro fotografico che racconta i cimiteri della Valle Maira. Un viaggio all’interno dell’anima più autentica e privata della Montagna, in uno dei suoi luoghi più sacri e mistici. Montagna con la m maiuscola, fatta di uomini, donne e bambini che l’hanno vissuta, domata e a volte lasciata per poi farvi ritorno, trovando quel senso di pace e tranquillità che solo questo ambiente naturale così spettacolare sa trasmettere.

A ricamo di ogni fotografia è abbinata una poesia, un documento, uno scritto, tutti tradotti anche in inglese. I fotografi sono Roberto Beltramo, Diego Crestani, Enrica Fontana e Giorgio Rivoira e fanno parte di “Fotoslow Val Maira”, un’associazione di fotoamatori con sede a Villar San Costanzo. La casa editrice Polaris è di Ravenna e si definisce "stella guida del viaggiatore" dal 1989 ed è specializzata in guide che raccontano il mondo, scritte da e per viaggiatori.

Da segnalare sono la prefazione di Ivana Mulatero, curatrice del Museo Civico Luigi Mallé di Dronero e il capitolo scritto da Piercarlo Grimaldi, già Rettore dell’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo, antropologo e profondo conoscitore della valle, dal titolo “Dei visibili e
degli invisibili”.

Il volume sarà presentato dagli autori e curatori venerdì 21 dicembre alle ore 18.00 presso la sede di Espaci Occitan in via Val Maira 19 a Dronero.

Per informazioni Espaci Occitan, Tel. 0171.904075, segreteria@espaci-occitan.org, www,espaci-
occitan.org, Fb @museooccitano, Tw @espacioccitan .

Spartaco? Un'invenzione dei comunisti.


    S. Kubrick, Spartacus (1960)

Tempi duri per i comunisti: crolla anche il mito di Spartaco, lo schiavo ribelle. Uno storico francese ne ricostruisce la storia, prendendo di mira gli storici marxisti (e Kubrick), rei di aver creato un mito privo di sostanza storica.

Carlo Franco

Spartaco? Un capobanda che non ha letto Marx


«Soffriam: le catene si spezzano alfine/ allor che pugnali, ne piaccia foggiar;/ fra un mucchio fumante di sparse ruine/ già Spartaco è sorto tremendo a pugnar». Brutti versi, tratti dall’Inno all’anarchia scritto dal Pascoli nel 1878 (e riscoperto qualche anno fa), ma chiara traccia di un mito politico, prima che storico. Per questo mito il nome di Spartaco dice qualcosa a molti, e non solo ai professori.

La figura dello schiavo che fuggì nel 73 a.C. dalla caserma dei gladiatori, si pose alla guida di altri ribelli e mise insieme un’armata, e solo dopo tre anni fu sconfitto, par fatta apposta per suscitare varie identificazioni. O è tutto un equivoco? «Gli storici marxisti e i registi americani, praticamente le uniche due categorie che abbiano mostrato interesse» per Spartaco, ne «hanno restituito un’immagine completamente falsata».

Per correggere questa stortura Yann Le Bohec ha scritto Spartaco, signore della guerra (Carocci, trad. di E. Thornton, pp.158, € 15,00), smitizzando il tema e mettendo da parte le utopie del XIX e XX secolo. Kubrick ha fatto un buon film, ma ha preso spunto da un romanzo «comunista». Anche altri romanzi, come quello di Koestler, ne escono male (e lo Spartaco di Giovagnoli? Non pervenuto).



Gli storici «marxisti», sono poi oggetto di una polemica insistita. L’intera ricerca su Spartaco, di ogni epoca e lingua, ha raggiunto risultati «disastrosi». «Nessuno» ha posto le domande giuste, interi aspetti sono rimasti «del tutto» trascurati, o liquidati con «indifferenza». Le Bohec mostra rancore nei confronti di molti predecessori. Una entry in bibliografia reca la simpatica chiosa: «da evitare». In altro suo libro, Le Bohec incolpava il marxismo-leninismo anche del declino degli studi di storia militare, lasciati nelle mani degli ufficiali in congedo (!). Urgeva riportare sulla retta via i temi di storia distorti dall’ideologia, compreso Spartaco: oggi, a parte i nostalgici, «nessuno si domanda più» se sia stato «un precomunista, un protocomunista, un comunista perfetto o non sia stato affatto un comunista».

La terapia consiste nel rileggere le fonti. Così, spazzate via le ipotesi precedenti, ritenute inverosimili, Le Bohec ne formula altre, definite probabili, ragionevoli o plausibili (quindi esse pure sul piano del verosimile, faute de mieux). Talune notizie antiche e ricostruzioni di studiosi moderni sono liquidate con fastidio. La tradizione su Spartaco riferisce di sogni profetici o altri elementi di leggenda «carismatica»? Invenzioni, non molto diverse dai «romanzi rosa».

Sulle questioni di topografia o cronologia o tattica l’atteggiamento è lo stesso. Indagando la biografia di Spartaco prima della rivolta, le sue mosse successive, la ricerca di appoggi e armi, gli scontri armati, Le Bohec costruisce un proprio story telling (non così originale come vorrebbe): non un eroe proletario o rivoluzionario, ma un comandante. Più esattamente: un «capobanda», che prima non aveva fatto parte dell’esercito romano (al più come ausiliario), ma che poi seppe inguaiare le truppe regolari.

Roma ne sottovalutò l’efficienza militare. I ribelli colsero importanti vittorie e condussero una guerriglia vittoriosa per mesi. Spartaco aveva al più una formazione da «sottufficiale», ma la sua banda divenne un «vero esercito», il cui limite stava nella «assenza di strutture statali e amministrative» (!), di una marina e di tecnologie per l’assedio. Non è però spiegato in concreto quali tecniche si praticassero, e quando fossero state apprese.


Anche sull’obiettivo della rivolta si resta incerti. Si ipotizza che Spartaco puntasse a lasciare l’Italia per rientrare in patria, ma i tropismi della banda lungo la penisola (dalla Campania fino a Modena, poi ancora a Sud, in Calabria) suggerirebbero lo sforzo di estendere le aree di ribellione, o la ricerca di risorse, o di fuga. È ribadito che Spartaco e i suoi non ricevettero appoggi dalla popolazione, ma aggregarono a sé molti schiavi fuggitivi e braccianti liberi, insomma gli ultimi di una società duramente sfruttatrice. Dunque (o l’idea è troppo «marxista»?) il moto suscitò esteso allarme sociale. I ribelli compirono ripetuti saccheggi e violenze: quindi, conclude Le Bohec, Spartaco «non si comportava né come un missionario della democrazia né come un difensore della libertà». Altro che proletari…

Il meglio del libro si ha quando si parla (con competenza) di pratiche e istituzioni della guerra o della gladiatura. Quando si parla di schiavitù pesa la polemica contro la storiografia marxista (che però promosse estese ricerche sul tema). Spartaco guidò un «movimento sociale», ma è «poco probabile» che volesse insieme ai suoi «intraprendere una lotta di classe», perché «non avevano certo letto Karl Marx». Peccato non l’abbiano fatto. Certo si sarebbero compiaciuti della lettera a Engels del febbraio 1861, in cui Marx definisce Spartaco «il tipo più in gamba, che ci venga posto sotto gli occhi, di tutta la storia antica. Grande generale (mica un Garibaldi), nobile personalità, autentico rappresentante dell’antico proletariato».

Il Manifesto/Alias - 21 ottobre 2018

martedì 18 dicembre 2018

Savona. Anarchici e maoisti nelle carte di preti e questurini



Giorgio Amico

Anarchici e maoisti nelle carte di preti e questurini savonesi

Antonio Martino continua il suo metodico lavoro di scavo nelle carte della Questura di Savona depositate presso l'Archivio di Stato. Dopo gli anni Quaranta e Cinquanta la ricerca investe ora gli anni Sessanta e offre un primo spaccato della sinistra savonese alternativa al PCI. In particolare l'autore si sofferma su anarchici, tradizionalmente presenti in città, e maoisti, espressione invece nuova e contraddittoria dei fermenti che iniziano a manifestarsi in un Partito comunista in via di transizione da un rigido stalinismo ad una forma inedita di socialdemocrazia all'italiana.

Il libro è interessante (e utile come base per ulteriori lavori) per la mole di materiali che presenta, e dunque grazie a Antonio Martino per questa sua ulteriore fatica, anche se non avrebbe guastato un atteggiamento più critico verso documenti spesso confusi, involuti, pasticciati, redatti da funzionari palesemente ignari delle realtà politico-culturali che descrivono nei loro rapporti. Significativa a questo proposito è l'insistenza con cui i funzionari della Questura definiscono Arrigo Cervetto “noto militante anarchico” ancora decenni dopo il suo definitivo e radicale abbandono di ogni richiamo al pensiero libertario.

Certo, i documenti sono quelli e non ci si può di certo aspettare rigore filologico dai redattori dei mattinali di questura, soprattutto in tempi in cui l'estrema sinistra poteva sembrare più un fenomeno folkloristico che una reale minaccia per l'ordine pubblico e le istituzioni. In questo contesto l'analisi delle carte di polizia non serve tanto a far capire ciò che allora accadde, impresa quasi impossibile visto il livello pasticciato e confuso dei documenti, quanto a ricostruire un clima politico-sociale e una pratica di controllo del dissenso in un'Italia provinciale e arretrata dove il peso della Chiesa si faceva ancora sentire con forza (molto interessante a questo proposito l'insistenza con cui i questurini seguono su sollecitazione di parroci e vescovi le rare manifestazioni anticlericali).



lunedì 17 dicembre 2018

Giorgio Bocca nell'Italia del miracolo economico




Torna in libreria “Miracolo all’italiana” del 1962, il primo libro a raccontare l'Italia del boom. Un paese pieno di difetti come oggi, ma ottimista e soprattutto più umano, forse perché nonostante tutto ancora  molto povero.

Fabrizio Ravelli

Il viaggio di Giorgio Bocca nel Paese che cambiava pelle


Al principio fu Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Incipit leggendario, che generazioni di cronisti hanno mandato a memoria.

E comincia da lì, da Vigevano e da quella beffarda contabilità, il libro del 1962 che Feltrinelli ora ristampa (con prefazione di Guido Crainz). Quel Miracolo all’italiana che ai cronisti ha fatto sognare di scrivere come Giorgio Bocca, ma che a legioni di intellettuali e politici (soprattutto gli odierni) avrebbe potuto insegnare come si conosce e si racconta un Paese. L’Italia degli anni ‘50-‘60, del miracolo (la definizione venne battezzata dal Daily Mail) che stava cambiando tutto: economia, industria, consumi, costumi, abbigliamento, ideologie.

Un “miracolo” anche giornalistico, dentro al quale Bocca si muove con la vitalità di chi vede possibile il cambiamento. Ha 40 anni, è un inviato del Giorno di Mattei diretto da Italo Pietra, ex-partigiano anche lui.

E «l’aggressività petrolifera di Mattei» si traduce in linea politica (neocapitalista, riformista, con un occhio di riguardo a socialisti e sinistra democristiana): «E il provinciale che ero», scriverà Bocca nell’autobiografia, «ci ricadde, per le seconda volta tornò a sperare come nella guerra partigiana, in un paese laico moderno in cui il giornale dell’Eni avrebbe dato voce a una nuova cultura industriale, a pensare che saremmo diventati il giornale dell’aristocrazia operaia e della tecnocrazia che stavano facendo dell’Italia un paese ricco e moderno».

Un giornale coraggioso «nei riguardi del vecchio establishment»: «A me il Giorno di Pietra e di Mattei dava via libera per andare alla scoperta dell’Italia». E quindi via, soprattutto verso la provincia industriale, grande sconosciuta, con il suo caos, la vitalità e la volgarità, le conquiste e i rivolgimenti.

Una «miniera a cielo aperto», la chiama Bocca. Che scava e racconta, con un metodo anche quello nuovo per il giornalismo italiano: molta preparazione di dati sulla realtà, molti libri letti alle spalle, un gran numero di persone incontrate (e ben poche citate poi), un approccio molto personalizzato del testimone che dice: «Io questo ho visto e questo ho capito».

Dal vitalismo e dalla volgarità del “miracolo” Bocca è sbalordito, divertito, schifato ma anche affascinato: «Quell’Italia aveva animo lieto e alacre nonostante le difficoltà della vita perché percorsa da un’idea o grande speranza o grande illusione di progresso. L’atteggiamento di un cronista come me rispetto alle prime manifestazioni di consumismo massificato, di benessere diffuso era insieme di critica e di adesione: critica delle forme, adesione per la sostanza».

A deluderlo è casomai quella borghesia che non riesce a essere classe dirigente: «Sembra incredibile che un ceto così ricco di fiuto merceologico, di attaccamento al lavoro, di ardimento commerciale, di gusto manufatturiero non riesca a capire che una società, la società in cui vive, non può continuare senza un solido assetto sociale, senza interessi e iniziative intellettuali, senza un ordine. In altre parole senza una civiltà che non sia quella pura e semplice dei consumi». Calzaturieri di Vigevano, magliai di Carpi, ovunque il “miracolo” accumuli neonate fortune.


Bocca, inutile ripeterlo, non è solo lo spietato indagatore della realtà, e anzi poiché scrive divinamente e ha un occhio infallibile, si concede sprazzi di puro divertimento: Imaièr, i magliai, quei tipi cordialoni, forse troppo, vestiti all’ultima moda, con facce color terra e sangue come quella di un Adamo celtico, appena impastato».

Il “miracolo” ha tante facce: a Foggia «c’è prima di esserci, esiste perché deve venire, è un miracolo sulla parola, la gente cui è stato promesso ha incominciato a anticiparselo».

A Siena il miracolo c’è stato sette secoli prima, e ancora lo si rimembra con nostalgia: il boom c’è anche qui, «ma i parvenus si sono fermati a Poggibonsi». Fra palazzi aviti del Dugento, cacce e arazzi, il cuneese Bocca non si ritrova: «In questi giorni mi sento molto allobrogo. Di giorno sto a disagio fra questi uomini che hanno profili etruschi e nobili fattezze, fra queste donne dai tratti fini e deliziosi. Di sera, nella mia stanza, scopro nello specchio la pesantezza, grossolanità, ottusità dei miei connotati celtici, appena romanizzati».

Il “miracolo” a Milano è quello dei cafoni arricchiti, ma anche quello dei pendolari intirizziti nell’alba che Bocca va a incontrare a Palazzolo sull’Oglio: «Sveglia alle quattro e mezza, stanza fredda, acqua fredda, sacramenti e così fino alla stazione».

E col “miracolo” anche i “miracolati”, i famosi che Bocca ritrae: da Guttuso (un pezzo da maestro), Mina agli esordi, Alberto Sordi e Walter Chiari, un Omar Sivori che sbeffeggia la disciplina savoiarda della Juventus.

La repubblica – 23 novembre 2018

sabato 15 dicembre 2018

Amadeo Bordiga, comunista impolitico




Nel 1923 la rivista di Gobetti “La Rivoluzione liberale” dedica un articolo ad Amadeo Bordiga allora sotto processo con l'intero gruppo dirigente del Pcd'I. Andrea Viglongo, amico di Gramsci e collaboratore de “l'Ordine Nuovo” da poco espulso dal partito, ci offre un ritratto a tutto tondo di Bordiga mettendone in risalto, per primo ed in epoca non sospetta, la sostanziale impoliticità.

Andrea Viglongo

Bordiga

Il processo di Roma contro una parte dei dirigenti del Partito Comunista ha contribuito a porre in singolare rilievo la figura di Amedeo Bordiga, finora nota soltanto a pochissimi che seguono da vicino il movimento dei partiti proletari italiani. L'idiozia di certi giornalisti li ha indotti a sottolineare sopratutto, nel contegno del Bordiga in Tribunale, una disinvoltura a base di spiritosaggini: in realtà si tratta di un uomo serio (malgrado quell' humour caratteristico dei napoletani colti), troppo serio, forse, per rientrare nello schema tradizionale del rivoluzionario italiano.

L'atteggiamento di Bordiga si spiega colla conoscenza dell'uomo: egli è un convinto, tenace, intransigente valorizzatore del proletariato come classe e del Partito Comunista come organizzazione direttiva dell' élite proletaria.

Fiducioso nella sicura e proficua vittoria rivoluzionaria del proletariato comunista; dello «Stato borghese» e della borghesia come classe politica egli non ha grande stima. Condannato, egli avrà una conferma delle sue previsioni, una riprova che per colpire i suoi nemici di classe il potere borghese non esita a violare la propria legalità; interpreterà l'assoluzione come un atto di debolezza del nemico. Uomo dell'ordine nuovo non può attribuire allo Stato e a tutti gli altri organi del potere della borghesia alcuna sovranità, ed alle ideologie borghesi alcun valore, se non di strumenti per una dominazione di classe, antiproletaria.



E' questa la mentalità della nuova generazione rivoluzionaria e comunista, inquadrata nella Terza Internazionale; mentalità che, prima della guerra, era propria soltanto dei bolscevichi russi. Il comunista è un soldato della rivoluzione, disciplinato soltanto agli organismi rivoluzionari, pronto a tutto, come il cristiano primitivo, rinnegando ogni legame con l'ordine esistente nell'interesse supremo della rivoluzione. Chi non tiene conto di queste premesse non può capire l'essenziale del movimento che fa capo all'Internazionale Comunista, non può valutare nella sua importanza la radicale trasformazione operata nella mentalità rivoluzionaria dalla coscienza di una decisiva crisi imminente e dal contatto coi bolscevichi russi, i soli che già prima della guerra avessero seriamente affrontati i problemi della rivoluzione proletaria; e non può neanche comprendere nella sua serietà il contegno di Bordiga e dei migliori suoi compagni di fronte al Tribunale. Il milite comunista non può credere all'imparzialità della magistratura ed a priori ne respinge l'autorità; la sua difesa è quindi sopratutto un mezzo e un dovere di propaganda che esercita senza tenere alcun conto della propria persona e delle probabilità di essere condannato: incidente previsto perchè la borghesia -sfidata- deve e sa difendersi, colla «legge» e fuori della legge. La guerra è la guerra e tutti dovranno riconoscere la logica inesorabile di Bordiga.

Può darsi che egli abbia torto, che la sua coerenza nasconda un errore fondamentale: che cioè sia errata la diagnosi della situazione, che si ritenga erroneamente mortale la crisi, che la rivoluzione sia impossibile mancandone le condizioni oggettive: può darsi che ciò sia vero e che allora i comunisti siano fuori dalla realtà. Ma chi può osare un giudizio che spetta soltanto alla storia?

Certo, Bordiga è un uomo di eccezionale interesse, anche per valore e qualità personali. Ne ha scritto efficacemente il dott. Ruggero Grieco: «Bordiga è un comunista giunto al Comunismo attraverso lo studio dei nostri Maestri. Agli agi della sua famiglia di antica nobiltà e della sua professione in cui poteva eccellere, ha preferito farsi condottiero di masse. Le eccessività, le angolosità, l'asprezza che molti sanno come aspetti preminenti del carattere del Bordiga sono spiegate da chi conosce un poco la storia del proletariato italiano e gli uomini che l'hanno diretto. Bordiga è una reazione al parlamentarismo, al democraticismo, all'opportunismo che in Italia hanno schiacciato il proletariato. Una reazione è sempre eccessiva. Ma nel momento in cui gli opportunisti italiani aderivano alla Terza Internazionale ed inneggiavano alla rivoluzione imminente, Bordiga ha salvato la tradizione della sinistra marxista formulando le note tesi sull'antielezionismo».


Per la sua tesi antiparlamentare ed astensionista, Bordiga venne accusato di «infantilismo» da Lenin. In realtà, se nei confronti della politica e del programma organico dell'Internazionale Comunista, il radicalismo di Bordiga può considerarsi una «malattia infantile» del comunismo, valutato in sé e riferito ai precedenti più diretti è invece ben diversamente spiegabile. L'entusiasmo spiega l'anti-sindacalismo, la quasi diffidenza verso i consigli di fabbrica, come elementi politici del potere proletario, e lascia prevedere le linee della politica che seguirà più tardi il Partito Comunista: intransigenza, accentramento, ripulsa di ogni accordo anche transitorio con quelle stesse frazioni proletarie che non osano ancora spezzare tutti i legami coll'ordine sociale esistente per porsi senza riserve sul terreno della Terza Internazionale.

Egli è un rappresentante del Mezzogiorno italiano, privo di proletariato industriale, strabocchevole di bracciantato mobile e di disoccupazione, scettico e radicale nell'opposizione politica, immaturo sindacalmente, ma ricco di impulsi, e per tradizione rivoltoso. La cultura marxista ha corretto certi errori originari, ma non ha potuto distruggerne tutte le tracce. In Italia sono più tenaci di quanto non si creda certi motivi del primo internazionalismo, espressioni di condizioni reali del paese.

Bordiga, rigido affermatore della supremazia del Partito nella lotta proletaria, non comprese il valore rivoluzionario del sindacalismo, ai suoi tempi, come ritorno ai principi classisti contro le deviazioni parlamentaristiche. Allo stesso modo Bordiga, nel 1919-20, cogliendo il valore del Soviet come elemento del nuovo potere proletario non riuscì a comprendere l'effettiva corrispondenza che con esso avevano i Consigli di Fabbrica.

La costituzione del Partito Comunista (1921) porta Bordiga alla rinunzia dell'astensione, accettando tesi, tattica e disciplina dell'Internazionale. Tale accettazione tuttavia non fu sempre completa: non per politicantismo, ma proprio per la sua particolare forma mentis, per certi suoi apriorismi, per la sua naturale rigidità da uomo tutto d'un pezzo, convinto come un apostolo, inflessibile come un capo militare.

La tattica del fronte unico, cioè degli accordi tra comunisti ed altre frazioni proletaria, fu da lui combattuta teoricamente e praticamente osteggiata, perchè non riuscì mai a capire le esigenze della politica, perchè non poté ammettere mai un'azione comune tra un Partito omogeneo e disciplinato come il Comunista e l'inconcludenza caotica di certo massimalismo. Anche se certi suoi insegnamenti possono confondersi col machiavellismo imbastardito dei posteri: «colpire colpire senza esitazione, brutalmente e ciecamente, l'avversario; dire la verità, senza scrupoli, solamente se necessaria, mentire ove occorra; vivere la vita del rivoluzionario comunista, fredda, spietata, audace, appassionata, intelligente, generosa, crudele» (Lavoratore 7 marzo 1923), Bordiga non è un politico, è l'anti-Macchiavelli. Tipica la sua incomprensione del fascismo come movimento politico, l'indifferenza nella lotta dell'oligarchia fascista contro lo stato,liberale e democratica.

Certi suoi atteggiamenti possono aver nuociuto all'affermazione politica del Partito Comunista, ma forse erano inevitabili, il meno peggio. Del resto Bordiga esprime nella sua intransigenza e nel suo radicalismo una concezione ed una tattica rivoluzionaria caratteristicamente intonate colla situazione italiana

La Rivoluzione Liberale, n. 33, 30 ottobre 1923

(In ricordo di Sandro Saggioro e di Avanti barbari!)