venerdì 28 dicembre 2018

Ieri l'ILVA, oggi la Piaggio. “Gli innocenti” di Guido Seborga



Una grande storia operaia, il romanzo corale di di una città (la Savona delle fabbriche e del porto) travolta dalla crisi. "Gli innocenti” di Guido Seborga. Da leggere, per capire.

Giorgio Amico

Ieri l'ILVA, oggi la Piaggio. “Gli innocenti” di Guido Seborga

Che Guido Seborga sia stato un grande scrittore lo testimonia la bellezza folgorante dei suoi incipit. E “Gli innocenti” non fa eccezione:

“Matteo per ore chiuso nella fabbrica era straziato dal lavoro; e non poteva permettersi la minima disattenzione. Doveva curare con sveltezza e abilità che i lunghi e infuocati fili di metallo incandescente che uscivano dal forno si deponessero sugli schermi dopo aver paurosamente volteggiato in aria. I suoi gesti precisi costringevano il filo al suo posto; la sua fronte era madida di sudore, il suo volto dai tratti salienti come arrossato dal fuoco”.

Un inizio straordinario che indica immediatamente il vero protagonista del romanzo: la fabbrica, il lavoro ai forni e alle macchine. Un lavoro pesante, feroce, che “strazia”, che può ferire o uccidere. La fonderia è un inferno dei vivi. Non c'è retorica nel romanzo. Sbaglia chi sbrigativamente lo etichetta come un frutto un po' tardivo dell'epoca neorealista. Nelle pagine di Seborga non c'è compiacimento o retorica. Il lavoro non viene esaltato, tanto meno la fatica. Il lavoro permette di vivere, ma è una condanna che pesa sull'uomo, un ergastolo “senza possibilità di evasione”. Una feroce necessità a cui l'uomo, se davvero è uomo, non può sottrarsi, pena perdere la propria dignità. Il lavoro connota la condizione umana, crea, pur nella sua durezza, i presupposti dell'esistenza di una comunità. E' il lavoro, la vita nel reparto, a forgiare il gruppo, a legare fra loro gli uomini, a costruire visione condivise.

Grande romanzo corale, storia (quasi cronaca) della lotta di una città per il lavoro, “Gli innocenti” è anche la storia di un gruppo di uomini costretti, ciascuno a suo modo, a confrontarsi con avvenimenti più grandi di loro di cui fanno fatica a comprendere il senso. Ognuno reagisce a suo modo alla sfida rappresentata dalla chiusura della fabbrica, dalla perdita del lavoro.



La fabbrica rende simili gli uomini. Ma gli operai, nonostante il lavoro, restano irriducibilmente diversi. L'occhio libertario di Seborga non può che concepirli così, nella loro assoluta, innocente, individualità. I gesti sono gli stessi: metodici, calibrati, ritmati sui tempi del reparto. Ma gli occhi no. Gli occhi degli operai sono diversi, i loro volti sono diversi, il modo in cui reagiscono alle avversità e alla fatica sono irriducibilmente diversi. Nella lotta gli operai sono massa, ma una massa che non è semplice moltitudine, ma che prima il lavoro e poi la consapevolezza ha reso comunità di uomini liberi uniti da un patto di fratellanza e di mutuo sostegno. Il pugno che sollevavano è fatto di dita strette insieme. Una stretta che il padrone vuole sciogliere.

La lotta è dura, difficile, soprattutto lunga. Il padrone può attendere. Gli operai e le loro famiglie no. La mobilitazione lentamente declina. Nascono le prime divisioni. La comunità operaia inizia a sfaldarsi. Il gruppo si frantuma. Esclusi dal lavoro, lontani dal reparto, fuori dai cancelli dello stabilimento, gli operai perdono poco a poco la loro identità di produttori. La loro vita, interamente centrata sul lavoro, perde significato. Mutano i rapporti con i compagni, le mogli, i figli, la città stessa diventa estranea, sconosciuta, ostile:

“Milano [uno degli operai licenziati] se ne stava per ore seduto immobile con gli occhi sbarrati, e con la mente pensava sempre alla «sua» fabbrica e a compiere il «suo» dovere, le sue orecchie accoglievano stranamente quei rumori esterni che c'erano intorno e che non conosceva perché in quelle ore aveva sempre udito i suoni della fabbrica. Non osava uscire. Gli pareva impossibile farsi vedere per istrada in pieno giorno. Uscire diventava il gioco di un fannullone, di un buono a nulla. Non poteva andarsene sotto i portici, sedersi ad un caffè, oppure prendere una delle piccole e tortuose stradette che partono da Corso Italia, e dove ci sono tante osterie, parlare ad alta voce, discutere di «lascia o raddoppia», (...) giocare alle carte o al bigliardo. Queste erano cose che un operaio non poteva fare, che un padre di famiglia non poteva accettare, questo era un degradarsi. Meglio era stare chiuso in casa non farsi vedere da nessuno, farsi dimenticare. «Disoccupato!» Era una condanna. Per ora aveva ancora qualche lira della disoccupazione, ma dopo?”.



“Gli innocenti” è del 1961 e racconta la storia della lotta dell'ILVA di Savona del 1950 che l'autore aveva seguito come giornalista. Ma il libro resta vivo e attuale, nella descrizione di picchetti e dei cortei, ma soprattutto della sofferenza di quegli operai che escono sconfitti dalla lotta, derubati della loro vita. Come Milano, la cui esistenza ha perso significato e dignità, che non osa più “essere padre, essere marito. Caterina [la moglie] disperata piangeva senza lacrime ore intere. Una famiglia era stata infranta, distrutta alle radici. Non era la sola. Ma tutto sembrava naturale”.

“Tutto sembrava naturale”. Ieri come oggi. L'ILVA come la Piaggio. Chiudere una fabbrica, spostarne altrove la produzione, licenziarne gli operai. Cosa si può fare? Il mondo gira cosi.. E invece no. Qualcosa si può fare, si deve fare. Ma cosa? In questo Seborga ci aiuta. Perché i romanzi di certo non cambiano il mondo, ma aiutano a capire. E capire è il primo passo...