Giorgio Amico
Alle origini del socialismo italiano
4. Andrea Costa e la crisi del Partito Socialista
Rivoluzionario
Il primo congresso del Partito socialista rivoluzionario italiano
Come si è visto una delle principali
differenze fra i socialisti costiani e gli operaisti lombardi
consisteva proprio nella accettazione da parte dei primi di una
politica di alleanza elettorale con le forze della sinistra borghese
ed in particolare con i gruppi repubblicani assai forti in Romagna.
Proprio su questo terreno si era consumata la rottura con il
movimento anarchico che imputava a Costa l’abbandono di una
posizione classista intransigente in favore di un atteggiamento
legalitario ed evoluzionista e proprio per discutere di questi temi
si tenne a Forlì nel luglio 1884 il terzo congresso del Partito
socialista rivoluzionario di Romagna. Gran parte dei lavori del
congresso fu dedicata alla definizione dell’atteggiamento da
prendere rispetto al cosiddetto Fascio della democrazia,
l’associazione dei radicali che dopo le elezioni del 1882 aveva
preso il posto della Lega della democrazia di origine
mazziniana e garibaldina.
Nonostante le critiche degli esponenti del
POI che lo accusavano di trasformare il Partito socialista in un
partito parlamentare, Costa si rendeva perfettamente conto
dell’insidioso tentativo dei radicali di recuperare politicamente
il movimento operaio, trasformando le nascenti organizzazioni
proletarie in un’appendice della democrazia borghese. Altrettanto
chiara restava però la comprensione dell’estrema complessità
della fase attraversata e della necessità per il movimento operaio
di non rompere totalmente con il campo radicale. Almeno fino a che
non si fosse raggiunto un punto più avanzato di consolidamento
politico ed organizzativo delle forze socialiste. Fino a quel momento
l’alleanza tattica con i radicali andava mantenuta, ma con tutte le
precauzioni del caso.
Dopo un vivacissimo dibattito non privo di
aspre polemiche il congresso deliberò la partecipazione critica
delle organizzazioni del partito al Fascio della democrazia,
mantenendo però la più completa libertà d’azione e non
rinunciando a sostenere fino in fondo il proprio autonomo punto di
vista socialista sia per quanto riguardava le questioni economiche
che per quelle politiche. Su insistenza di Costa e Musini il
congresso deliberò anche di assumere il nome di Partito socialista
rivoluzionario italiano, proprio al fine di rispondere all’esigenza
di unità che pareva con forza provenire dal basso. A tal fine venne
deliberato di organizzare quanto prima un congresso costitutivo
nazionale in Roma a cui invitare i gruppi socialisti di tutta Italia.
Alleanza tattica con la sinistra borghese e costruzione di un
autonomo partito di classe su scala nazionale queste le coordinate
entro cui si compendia alla fine del 1884 l’azione politica
costiana. Un amalgama di difficile gestione come i fatti avrebbero
presto dimostrato.
La dissoluzione del Partito
Socialista Rivoluzionario
Di fronte allo sviluppo del Partito
Operaio che alla metà degli anni ’80 sembra essere in grado di
radicarsi in profondità anche nelle masse bracciantili del Parmense
e del Mantovano fino ad allora campo d’azione dei socialisti
rivoluzionari, Andrea Costa inizia a considerare la possibilità che
la costruzione su scala nazionale del Partito socialista
rivoluzionario debba necessariamente passare attraverso la fusione
del PSRI con il POI. Così, nell’aprile del 1885, la Commissione
federale del Partito Socialista Rivoluzionario invia un caldo saluto
al Congresso del POI, auspicando una prossima fusione dei due
partiti. In realtà, al di là delle frasi di circostanza, le
differenze fra le due organizzazioni permanevano profonde e non si
trattava solo di questioni organizzative.
Nel programma del Partito
Operaio mancava completamente ogni accenno, anche gradualista o
riformista, al socialismo: scopo del partito era “ottenere un reale
e positivo miglioramento economico, a ciò che tutti i lavoratori
possano raggiungere la loro emancipazione”. Ma neppure una parola
era dedicata a chiarire meglio di quale emancipazione si trattasse.
Ciononostante, pur provenendo da una esperienza politica
diversissima, Costa appare affascinato dalla forza del Partito
Operaio, che come abbiamo visto in quel momento parlava a nome di
decine di migliaia di operai membri delle leghe affratellate. Così,
invece che evidenziare i limiti politici degli operaisti e il loro
sostanziale economicismo, egli riprende la tesi caratteristica del
POI di un partito capace di essere al tempo stesso organizzazione
politica e lega di resistenza. Sfugge a Costa, che pure in questi
anni si era sensibilmente avvicinato al marxismo, il fatto che, a
differenza del sindacato tenuto assieme dal collante oggettivo degli
interessi economici immediati, il partito di classe si caratterizza
per il programma, cioè per una più generale visione del mondo che
trascende la contingenza. Accade così - e sarà una costante nella
storia del socialismo e poi del comunismo in Italia da Costa alla cosiddetta “nuova sinistra”
degli anni ‘70 – che in nome di un esasperato pragmatismo dovuto
all’ansia di costruire hic et nunc “il partito di massa”, si
sostituisca ad un lavoro in profondità di analisi e di intervento
sulle tendenze spontaneamente emergenti a livello di classe
l’esaltazione della contingenza, il tatticismo politico,
l’improvvisazione organizzativa.
Invece di un processo lungo e
faticoso di accumulo di forze a livello politico, teorico ed
organizzativo, la costruzione del partito è concepita pressocchè
esclusivamente a livello ideologico-politico, come una serie di
pronunciamenti verbali e di svolte tattiche ciascuna delle quali
considerata risolutiva. Manca in sostanza ai padri fondatori del
socialismo italiano – da Costa a Turati a Labriola che pure fu
eminente marxista - quella visione dialettica della prospettiva che
quasi nello stesso periodo porterà Lenin ad analizzare in profondità
lo sviluppo del capitalismo in una Russia da tutti considerata
arretrata e semi-feudale e ad impostare sulle risultanze scientifiche
di tale ricerca gli assi di costruzione del partito e la concreta
definizione del “che fare”.
Il problema dei rapporti con il Partito
Operaio fu al centro del IV Congresso del PSR (di fatto il II del
PSRI) che si svolse a Mantova nell’aprile del 1886 radunando
delegati provenienti oltre che dalla Romagna, dall’Emilia (Mantova,
Parma e Reggio), dal Piemonte (Torino, Asti, Alessandria), dalla
Liguria (Genova e Sanremo), dal Veneto (Rovigo), dalla Toscana
(Livorno) e dall’Italia centro-meridionale (Roma, Napoli, Brindisi
e Palermo). Si tratta, dunque, del primo congresso a carattere
realmente nazionale di un partito, il PSRI, che al di là del nome
aveva fino ad allora mantenuto un impianto prevalentemente limitato
alla Romagna.
Ma proprio questo risultato, tenacemente perseguito dal
Costa e che appariva finalmente raggiunto, doveva paradossalmente
evidenziare la debolezza del partito e le numerose contraddizioni
irrisolte che questo si portava dietro fin dalla sua fondazione.
Intanto lo scopo centrale del congresso – l’unificazione o almeno
il raggiungimento di una larga unità d’azione con il POI – non
fu raggiunto e non solo per la manifesta indisponibilità dei
lombardi. Fatto ben più preoccupante la crescita del partito, che
pure c’era stata e aveva spinto Costa a bruciare le tappe della
costruzione del partito nazionale, apparve più un fatto numerico che
organizzativo. Il PSRI aveva moltiplicato le sezioni, costruendo
legami con i gruppi più disparati dispersi ai quattro angoli
d’Italia, ma a scapito della chiarezza politica e nell’assoluta
mancanza di una rete organizzativa che permettesse poi la gestione
centralizzata e unitaria delle forze così largamente raccolte.
Al
congresso di Mantova apparve chiaro che non solo non esisteva un
progetto organizzativo vero e proprio, ma che anche sul piano
programmatico l’identità del partito tendeva ad appannarsi
parallelamente al dilatarsi della sua presenza sul territorio
nazionale e sempre più si riduceva al mero rapporto che i singoli
gruppi locali avevano stretto con la figura carismatica di Costa. Un
partito, dunque, privo di una identità definita, contenitore di
istanze diversissime e fortemente connotate in senso localistico. Un
partito più grande sul piano numerico e più influente sul terreno
elettorale, ma molto fragile sul piano teorico ed organizzativo. Lo
stesso accresciuto peso elettorale, frutto anche del patto d’unità
d’azione con la democrazia radicale che imponeva vincoli all’azione
parlamentare e amministrativa del partito, creava oggettivamente le
condizioni di una crescente divaricazione fra le aspettative e i
comportamenti di una base, fatta prevalentemente di braccianti e di
piccoli artigiani in rovina, tanto combattiva quanto politicamente
primitiva e le complesse - e spesso per questa base incomprensibili -
tattiche portate avanti dagli eletti.
In queste condizioni a far funzionare
il partito non poteva di certo bastare il carisma e la capacità di
mediazione di Andrea Costa. Pochi mesi dopo la conclusione del
congresso, nell’agosto del 1886, la Commissione Federale che
dirigeva il partito si dimetteva in blocco denunciando
l’impossibilità di svolgere a pieno il proprio mandato a causa
della “nessuna cooperazione di coloro che pure avrebbero dovuto e
potuto aiutarci, l’apatia, l’insofferenza generale contro cui
ogni energia vien meno, ogni buona volontà è inutile”.
Questo
documento rappresenta l’atto di morte del PSRI che di fatto
rapidamente si dissolse come organizzazione unitaria. Il congresso,
immediatamente convocato per procedere alla riorganizzazione del
partito, non si tenne mai. Gran parte delle sezioni al di fuori della
Romagna, venute al partito negli ultimi due anni, interruppero quasi
totalmente i rapporti con il centro. Molti gruppi in Piemonte e
Liguria passarono al POI che pure, come abbiamo visto, soffriva degli
stessi mali. Di fatto, almeno dalla fine del 1886, diventava
impossibile parlare di un Partito Socialista Rivoluzionario Italiano
come di un organismo realmente esistente e operante.
Il partito, che
formalmente continuava ad esistere, era tornato ad essere poco più
di una corrente di idee e un’insieme di gruppi federati su
direttive generiche, uniti soltanto da un comune riferimento al ruolo
parlamentare svolto dal Costa. Anche nell’ambito romagnolo, vero
nocciolo duro del partito, il PSR era praticamente soltanto più una
sigla che copriva le iniziative di una miriade di circoli e di
associazioni locali. Paradossalmente, almeno in Romagna, questa
situazione non significava la scomparsa del partito. Espressione di
una base “fluttuante”, legata alla precarietà del lavoro
bracciantile e delle grandi opere pubbliche di bonifica delle paludi,
il partito avvertiva meno la necessità di una stabile struttura
organizzativa e di un centro autorevole. Ma il proletariato
industriale delle fabbriche di quello che si avviava a diventare il
“triangolo industriale”, non più legato al carattere stagionale
del lavoro bracciantile o all’individualismo tipico del piccolo
artigiano, necessitava di altri strumenti. A questa richiesta né
l’operaismo economicista del POI né il movimentismo localistico
del PSR erano in grado di dare risposte. I tempi erano maturi per il
partito, ma i gruppi che per un decennio si erano battuti per
costruirlo apparivano ormai più un retaggio del passato, sia pure di
un passato eroico, che il simbolo del nuovo che tuttavia da ogni lato
premeva.
Epilogo
Nonostante questa situazione, Andrea
Costa continuò con tenacia il suo lavoro. Già nel 1885 in
Parlamento aveva richiesto con forza il richiamo delle truppe
dall’Africa e si era opposto con coraggio alle avventure coloniali
del governo Depretis. Nel 1887, all’indomani del massacro di
Dogali, egli rinnovò con coraggio la sua condanna del colonialismo,
presentando un ordine del giorno in cui si affermava che “il
prestigio militare e l’onore della bandiera sono i soliti pretesti
con cui tutti i governi cercano di far passare le loro imprese
criminali o pazze”.
Rifiutando il voto alla richiesta del governo
di un nuovo credito per inviare in Africa nuove truppe, Costa
lanciava una parola d’ordine destinata a diventare celebre: “Per
continuare le criminose pazzie africane noi non daremo né un uomo,
né un soldo”. Denunciato, condannato, costretto ad un nuovo esilio
in Francia, egli continua a perseguire il progetto di costruzione di
un vero partito socialista rivoluzionario su scala nazionale. Ma
senza risultati apprezzabili. Anche il congresso svoltosi a Ravenna
alla fine del 1890, nonostante le entusiastiche proclamazioni, di
fatto non andò oltre, come il quasi contemporaneo congresso del POI,
alla enunciazione scontata della necessità di convocare al più
presto un convegno nazionale.
Pure, in questa situazione di
sostanziale immobilismo qualcosa di nuovo era accaduto. Largo spazio
era stato concesso nell’ambito dei lavori congressuali alla lettura
di un messaggio di solidarietà inviato, a nome di una da poco
costituita lega Socialista Milanese considerata da tutti assai vicina
alle posizioni dei socialdemocratici tedeschi e del vecchio Engels,
da un giovane Filippo Turati, da poco passato dalla scapigliatura
letteraria alla militanza di classe. Andrea Costa e i delegati
romagnoli non potevano saperlo, ma sotto i loro occhi era avvenuto un
ideale passaggio di consegne. Il partito tanto atteso e così
tenacemente voluto sarebbe nato prima di quanto sperato, ma Andrea
Costa, che forse più di tutti si era speso per costruirlo, non
sarebbe stato fra i suoi fondatori.