TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 27 agosto 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 6. Il carteggio con Amadeo Bordiga e il tentativo di rientro nel partito

 



Un Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 6

Il carteggio con Amadeo Bordiga e il tentativo di rientro nel partito


Costretto ad una severa clandestinità, fuori dal partito, la vita di Pappalardi in Frncia ci resta in larga parte sconosciuta. Non sappiamo, a parte le scarne notizie riportate nelle carte di polizia, ad esempio cosa faccia di preciso nel suo periodo marsigliese. L'unica cosa certa è che fino alla morte, avvenuta in Argentina nel 1940, vivrà stentatamente esercitando i più disparati mestieri e spostandosi frequentemente per sfuggire alle ricerche della polizia italiana e francese. Sappiamo che probabilmente verso la fine del 1925 egli si è trasferito a Parigi al seguito di Bibbi che nel frattempo si è stabilito nella capitale. Cosa non sfuggita al consolato italiano di Marsiglia che in data 21 ottobre comunica al ministero dell'Interno che il Pappalardi aveva lasciato la città per una destinazione non ancora identificata. Sappiamo però che egli mantiene un stretto rapporto epistolare con Amadeo Bordiga. Un carteggio, pubblicato alcuni anni fa da Paolo Casciola, di cui sono rimaste alcune lettere comprese fra il 25 ottobre 1925 e l' 11 ottobre 1926 e indirizzate oltre che a Pappalardi anche a un piccolo nucleo di fedelissimi composto da Bruno Bibbi, Piero Corradi, Eugenio Moruzzo, Lodovico Rossi.

Nella prima lettera, spedita da Napoli il 25 ottobre 1925, Bordiga ribadisce il suo fermo dissenso ad una fuoriuscita dal Partito che non porterebbe da nessuna parte. Per Amadeo Pappalardi deve rientrare nel Partito al più presto:

«Insisti per tua riammissione, dichiarando che gli apprezzamenti politici non tolgono il tuo diritto statutario a fare domanda e a vederla giudicata con le forme e procedure ordinarie, non essendo tu un espulso, ma un dimissionario».

Rispondendo poi alla domanda, posta da Pappalardi in una lettera che non ci è pervenuta, riguardo al che fare nei confronti delle «manovre e delle minacce» della Direzione del partito nei confronti dei dissidenti, l'invito è a pazientare e a fare di tutto per non farsi espellere:

«Ora non bisogna né farsi spaventare né lasciarsi provocare: io sono abituato a tali assaggi e mi auguro di condurre bene la nostra azione evitando la rottura come l'imbottigliamento. Ti dico chiaramente che la scissione la eviteremo anche con ingioamento di rospi: ma ciò non è necessario gridarlo sui tetti. Il nostro metodo farà la sua strada, come non si può aqncora dirlo, ma malgrado tutto. Non sarà una strada agevole, questo è certo. Ma per ora non si può dire di più».

Lo scambio di lettere con Bordiga sortisce l'effetto di convince Pappalardi a richiedere di essere riammesso nel Partito. A tale richiesta fa accenno Pietro Tresso in una lettera al centro del quattro novembre 1925: «Vi preghiamo rispondere al più presto circa la domanda di riammissione presentata dal Pappalardo». Nella stessa lettera Tresso riferiva che la situazione “dei gruppi di Parigi” continuava ad “essere molto grave per l'azione svolta da i seguaci di Bordiga. Tresso faceva anche presente che, pur militando i compagni italiani nel Pcf, questi evitava di prendere una posizione netta in attesa che l'ormai prosimo congresso del partito italiano definisse una volta per tutte la questione Bordiga.

La risposta fu negativa, come si può dedurre da un'altra lettera di Tresso alla Centrale di poco successiva: «Riceviamo in questo momento – confermò Tresso il 12 novembre 1925 – le vostre disposizioni riguardanti il Pappalardo. Ci atterremo ad esse senza riserve». Non conosciamo di preciso il tenore delle disposizioni citate, ma sicuramente queste non erano lavorevoli alla riammissione del dissidente, visto che la richiesta di nuova iscrizione presentata da Pappalardi non ricevette mai alcuna risposta. Il Centro aveva dunque deciso di ignorare completamente la questione, per evitare di rafforzare oggettivamente la posizione già forte dell' opposizione interna. Ormai fuori dal partito, Pappalardi non era più da considerarsi un compagno e dunque non meritevole di alcuna risposta. Il fatto stesso che nella lettera di Tasca di accettazione delle sue dimissioni, ci si rivolgesse a Pappalardi con l'appellativo di «Signore» e non di «Compagno» rappresentava già un chiaro indizio come il Centro considerasse chi si allontanava dal partito, soprattutto se la faceva, non alla chetichella, ma in polemica aperta e pubblica con la linea ufficiale.

D'altronde in quel momento Tresso, a cui toccherà pochi anni più avanti di essere espulso a sua volta dal Partito, era forse il più zelante fra gli esponenti del Centro a Parigi a denunciare e combattere la minoranza bordighiana, accusata di sabotare l'attività del partito e di svolgere una aperta opera di disgregazione all'interno delle sue organizzazioni. Tanto da richiedere in una lettera in data primo dicembre che verso i dissidenti si usasse il massimo del rigore, espellendo tutti coloro che avessero preso posizione a favore del Comitato d'Intesa ed escludendo recisamente «di accondiscendere a qualsiasi forma di accomodamento.»

A Parigi infatti nel 1925 si era formata una sezione francese del Comitato d'Intesa composta principalmente da Piero Corradi, Lodovico Rossi, Bruno Bibbi, Ferdinando Borsacchi, Giovanni Bottaioli e Michelangelo Pappalardi. Proprio il gruppo di compagni a cui, come si è visto, indirizzava le sue lettere Bordiga invitandoli alla prudenza e a evitare ad ogni costo di far precipitare una situazione già molto difficile per la minoranza.

6. continua