mercoledì 29 marzo 2023

Un libro ricorda l'assassinio di Giorgiana Masi, militante radicale e femminista












Nonostante ci si ostini a presentare gli anni "di piombo" solo attraverso la visuale delle Brigate Rosse, gli anni Settanta iniziarono (Piazza Fontana dicembre 1969) e finirono (Stazione di Bologna 1980) nel segno dello stragismo neofascista organizzato e coperto da organi dello Stato, nonché dall'uso delle armi  da parte delle Forze di polizia durante le manifestazioni di piazza.  Un libro ricostruisce sulla base di documenti desecretati il clima di tensione creato dal ministro degli Interni Cossiga  che portò all'assassinio di Giorgiana Masi, 19 anni, militante femminista, colpevole solo di esercitare il diritto costituzionale di manifestare pacificamente le sue idee.

Il ritrovamento di documenti della Direzione generale della Pubblica sicurezza sugli incidenti che avvennero a Roma nel mese di maggio 1977 consente di ricostruire la grande tensione che attraversò la Capitale in quei giorni. Sono comunicazioni molto dettagliate sulla gestione dell'ordine pubblico, caratterizzate però da molte omissioni sull'uso della violenza da parte di carabinieri e polizia.

Al centro della ricerca c'è l'analisi degli effetti dell'ordinanza prefettizia emanata il 22 aprile 1977 su indicazione del ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Quel provvedimento vietava, per ragioni di sicurezza e di ordine pubblico, manifestazioni di qualsiasi genere nella città di Roma sino al 31 maggio 1977, e fu emanato il giorno dopo una sparatoria nella città universitaria tra agenti di polizia e manifestanti, durante la quale fu ucciso l'agente Settimio Passamonti.



In quei quaranta giorni le libertà civili furono, per decreto, fortemente limitate. 11 12 maggio si consuma la tragica vicenda di Giorgiana Misi, uccisa al termine di una manifestazione convocata dal Partito Radicale per festeggiare l'anniversario della vittoria del referendum sul divorzio del 1974 e per raccogliere le firme per otto referendum abrogativi.

L'Autore ricostruisce le polemiche che hanno segnato non solo quel momento ma anche gli anni a venire, cercando di far luce su una delle pagine più opache della storia repubblicana.

Andrea Manti (Perugia, 1960), saggista, collaboratore dell'Archivio audio-video di Radio Radicale si occupa da anni di storia politica del Novecento. Con il supporto costante di fonti archivistiche pubblica ricerche sugli effetti del controllo di polizia sulla società italiana, in particolare minoranze politiche, religiose e sociali.

(Fonte. Quarta di copertina del libro)


Andrea Maori
12 maggio 1977.
L’assassinio di Giorgiana Masi, pallottole e menzogne di Stato. Il racconto, i documenti
Reality Book , 2021
15 euro

martedì 28 marzo 2023

Gli Italiani di Crimea

 


Pochi sanno che la Crimea e il sud dell'Ucraina sono da secoli sede di una minoranza di lingua italiana, in parte discendente delle vecchie colonie genovesi. Già decimata durante la seconda guerra mondiale dalla criminale politica di Stalin, questi italiani di Crimea rischiano oggi di sparire definitivamente. Il testo che segue fa parte di un lavoro più ampio sull'Ucraina, a cura di un gruppo di ricercatori di vari paesi europei, in uscita contemporaneamente in Italia, Francia e Svizzera a cura del pool di editori che assieme alle edizioni Syllepse sostengono la resistenza ucraina..

Giorgio Amico

Gli Italiani di Crimea

La presenza italiana in Crimea è attestata dal 1204, quando Venezia approfittò della conquista di Costantinopoli da parte dei Crociati per occupare i porti della Crimea meridionale. Nel 1261 ai Veneziani si sostituirono i Genovesi grazie ad un accordo con l'Impero bizantino, che concedeva loro l’esclusiva del commercio nel Mar Nero.

Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, questie colonie nel 1475 divennero parte dell'Impero ottomano. Ma la presenza genovese non scomparve. Una parte della popolazine trovò rifugio presso i Tartari dell'entroterra. Un secolo più tardi, nel 1574, Martin Broniewski, ambasciatore polacco in Crimea, segnalava l’esistenza di discendenti dei genovesi che avevano mantenuto l’uso della lingua e le proprie tradizioni religiose. Presenza confermata ancora in un libro edito nel 1834 in cui si afferma come nella lingua dei Tartari, lungo tutta la fascia costiera, si rinvenissero un gran numero di parole genovesi.

Nel Settecento, in particolare durante il regno di Caterina II, le autorità russe asvilupparono campagne di popolamento delle aree del Volga, del Mar Nero e della Crimea. Ciò determinò una ondata migratoria dall'Europa occidentale e anche dall’Italia. Tra il 1782 e il 1783 da Livorno arrivarono un migliaio di coloni, liguri, corsi, sardi e toscani che si insediarono nella regione di Cherson

Una seconda ondata migratoria italiana giunse in Crimea all''inizio dell’Ottocento. Fra il 1820 e il 1870 giunsero nel territorio di Kerč’, emigranti italiani provenienti soprattutto dalle località pugliesi di Trani, Bisceglie e Molfetta, Ad essi si aggiunse un’emigrazione più qualificata, con architetti, notai, medici, ingegneri e artisti, ma anche attivisti politici, cospiratori e rivoluzionari antiborbonici, che si concentrò nella città di Odessa.

Questa nuova ondata migratoria in Crimea era stata favorita dalle autorità imperiali russe per sviluppare varie attività agricole, soprattutto la coltivazione della vite e la produzione di vino e regolata da accordi diplomatici con il Regno delle due Sicilie. Secondo dati ufficiali, nel 1897 gli Italiani sarebbero stati l’1,8% della popolazione della provincia di Kerč', percentuale passata al 2% nel 1921; alcune fonti parlano specificatamente di tremila o cinquemila persone.

La rivoluzione d'Ottobre, la guerra civile e la costruzione del socialismo coinvolsero anche la minoranza italiana. Nel quadro della collettivizzazione forzata delle campagne, gli italiani, in maggioranza piccolissimi possidenti, furono obbligati a creare il kolchoz “Sacco e Vanzetti”. Contemporaneamente iniziò una campagna di "rieducazione socialista" utilizzando militanti comunisti italiani rifugiati in Unione Sovietica e di sicura fede staliniana. Fra questi Paolo Robotti, che ne parla nel libro di memorie La prova e Giuliano Pajetta che racconta brevemente del suo soggiorno a Kerc nel libro Russia 1932-34. Durante le “purghe” del 1933-37 molti italiani, accusati di essere spie fasciste, furono arrestati e sparirono nell'inferno del gulag.

Ma sarà la guerra a segnare in modo irreversibile il destino degli Italiani di Crimea. Nel 1942, dopo la riconquista della Crimea da parte dell'Armata Rossa le minoranze nazionali presenti sul territorio furono deportate con l’accusa di aver collaborato con gli occupanti tedeschi. La deportazione della minoranza italiana iniziò il 29 gennaio 1942: l’intera comunità, compresi i rifugiati antifascisti che si erano stabiliti a Kerč’, venne radunata e inviata in carri bestiame nel gulag siberiano. A ogni persona fu permesso di portare con sé non più di 8 chilogrammi di bagaglio. Il viaggio durò quasi due mesi –dal 29 gennaio fino agli ultimi giorni di marzo. Un'odissea di 8 mila chilometri in condizioni terribili, con temperature di oltre 30 gradi sotto lo zero, durante la quale la maggioranza dei bambini e dei vecchi morirono di malattia, fame e freddo.

Chruscev nel suo rapporto al XX Congresso del P.C.U.S. definì questa deportazione un “brutale, mostruoso genocidio di popoli” ed aggiungeva che “gli Ucraini erano sfuggiti a questa sorte, solo perché erano troppi (circa 40 milioni) e non vi era luogo dove deportarli”. Nonostante ciò solo il 14 novembre 1989 il Soviet Supremo dichiarerà illegale la deportazione.

Dante Corneli, che trascorse 24 anni in Siberia e, tornato in Italia, denunciò fino alla fine dei suoi giorni i crimini di Stalin e la dirigenza italiana comunista che ne fu complice, nei suoi libri – di cui esiste oggi grazie a Massari Editore una edizione finalmente curata con criteri scientifici - parla del dramma di oltre duemila italiani della Colonia Agricola di Kerč'. Una testimonianza confermato dalle stesse autorità sovietiche secondo cui solo durante il viaggio e il primo anno di deportazione morì un deportato su cinque

Nei campi la comunità italiana fu quasi annientata. dalla fame, dal freddo, dalle malattie e dalla durezza dei lavori forzati. Complessivamente si calcola che i sopravvissuti, in totale, non furono più del 10 per cento dei deportati. Dopo il 1956 con l'inizio del "disgelo" e la chiusura di gran parte dei campi ciò che restava degli Italiani di Crimea tornò a casa. Nel 1957 risultava che fossero rientrati 460 esuli; secondo il censimento ucraino, nel 1989 erano 316 per la maggior parte residenti a Kerč. Qui nel 2008 è stata costituita l’associazione “C.E.R.K.I.O.” (Comunità degli Emigrati in Regione di Crimea – Italiani di Origine) che tramanda l'uso della lingua italiana. Una piccola minoranza che la russificazione forzata, voluta da Putin dopo l'occupazione della Crimea nel 2014, rischia ora di far scomparire definitivamente.









venerdì 24 marzo 2023

Ulivi, streghe e Madonne consolatrici nella Liguria del Cinquecento

 



Un mito moderno: la civiltà degli olivi

Capita spesso di leggere di una millenaria civiltà ligure dell'olivo, addirittura “greca e fenicia”, in realtà siamo in presenza di un mito nato in epoca moderna. Certo, gli ulivi in Liguria ci sono da tempo immemorabile, forse come olivastro selvatico da sempre. Ma la civiltà di cui vediamo i resti nella rete di muretti a secco che ancora avvolgono le nostre montagne e nella marea di oliveti che sommergono le nostre vallate, quella no, non è millenaria, i Fenici e i Greci non c'entrano molto. E neppure i Benedettini, così tante volte citati a sproposito.

Quella degli oliveti, della monocultura dell'olivo è tutta un'altra storia, ben più prosaica. Una storia recente e tutto sommato breve, destinata ad esaurirsi in pochi secoli. Un portato della modernità che in Liguria si presenta fin dal Quattrocento sotto il segno di un capitale mercantile che cerca nel ritorno alla terra una possibilità di valorizzazione che la crisi del commercio mediterraneo, causata dall'affermarsi delle nuove rotte atlantiche e dal controllo turco del Levante, non offre più. Processi ben descritti da Massimo Quaini nel suo studio sulla storia del paesaggio agrario in Liguria, apparso nei primi anni Settanta nella rivista della Società Ligure di Storia Patria.

La nascita dell'olivicultura in Liguria

Sulla base di una grande mole di dati Quaini dimostra come a partire dagli inizi del Cinquecento la monocultura dell'olivo si sostituisca in tutte le vallate del Ponente, con l'eccezione del Dianese dove è già attestata da almeno due secoli, alla preesistente cultura promiscua. Nei documenti (dagli Statuti agli atti notarili, giudiziari e fiscali) di Porto Maurizio, delle comunità delle valli d'Oneglia, di Albenga, Pietra L., Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle non si trovano tracce di una preminenza dell'olivo. Quasi ovunque è la vite la coltura privilegiata. In molte realtà dell'entroterra, a partire dallo stesso Onegliese, l'olivo ha minore importanza nell'economia locale persino della produzione di fichi e castagne. Una realtà che emerge anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e soprattutto del grande monastero di Bobbio dove l'approvvigionamento d'olio per gli usi liturgici e per la mensa si basa in larga parte sugli oliveti del Garda.

Perse le colonie d'Oriente, soppiantato il Mediterraneo dall'Atlantico le grandi famiglie genovesi, da un lato si dedicano alla finanza e dall'altro tornano alla terra. Una sorta di rifeudalizzazione delle campagne ponentine totalmente inserita nel più generale processo di riassestamento degli assetti socio-economici delle campagne europee così ben studiati da Ruggiero Romano e Fernand Braudel. Gli ulivi investono le valli, le risalgono fino a 800 metri. Nel territorio compreso tra Taggia e Laigueglia nel giro di un secolo l'olivo diventa “coltura esclusiva”.

Una società, basata sull'uso promiscuo della terra e su una produzione mirata soprattutto all'autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con le logiche del mercato. Un processo che non sarà indolore, ne deriverà la disintegrazione del tradizionale mondo contadino delle vallate. Non è un caso che proprio questo periodo veda accendersi i roghi delle streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del convento di Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle vicine Alpi Marittime e Tenda che si favoleggia essere un covo di “valdesi”.

Il processo di Triora

Emblematico, si diceva, il caso di Triora. Negli anni 1585-1587 una grave carestia colpisce la Valle Argentina, conseguenza diretta del profondo cambiamento avvenuto nella valle nei decenni precedenti. Per evitare tumulti il Parlamento degli Anziani, espressione del notabilato triorese, imputa ciò che accade all'azione malefica delle streghe. A ottobre i due vicari mandati ad indagare dal vescovo di Albenga fanno apprestare le carceri e fanno arrestare una ventina di donne. Tutte sottoposte a tortura, confessano e denunciano altre donne, alcune di buona famiglia. A questo punto, spaventato dagli sviluppi non previsti, nel gennaio 1588 lo stesso Consiglio degli Anziani invia al governo della Repubblica di Genova una dura protesta contro gli inquisitori denunciando i labili indizi, la ferocia delle torture che hanno causato la morte di due donne, l'elevato numero delle donne incarcerate.

Il 21 gennaio il vicario vescovile manda un lungo rapporto a Genova: si difende dall'accusa di aver ecceduto nelle torture, dichiara che la morte delle due donne (una sotto tortura, l'altra per suicidio) era opera del diavolo, infine sostiene che “tutte nel loro primo exame senza altra minaccia di tormenti hanno confessato di aver fatto quella scellerata professione nelle mani del diavolo”

La tortura – continua il rapporto - durava solo un quarto d'ora, al massimo un'ora, il fuoco ai piedi dato solo a tre o quattro delle più irriducibili e “con misura”, a tre si dette la veglia per “Il dubbio che havevamo che quelle tali non havessero nell'altre sorte di tormenti qualche maleficio di taciturnità”

Ai primi maggio 1588 il padre inquisitore di Genova si reca personalmente a Triora. Interroga le donne che ritrattano (tutte meno una) le confessioni rese e denunciano la violenza delle torture subite.

L' 8 giugno arriva un commissario straordinario governativo che allarga le indagini, arresta alcune donne, le sottopone alla tortura del fuoco, ne individua infine quattro di Andagna che accusa di aver causato la morte e la malattia di fanciulli e bestiame, tempeste e grandine con distruzione delle vigne, oltre all'uccisione di due adulti, uno a Savona e l'altro a Finale.

Nuove denunce (una ventina) si aggiungono a Badalucco, Montalto ligure, Porto Maurizio e a Sanremo. Una donna, certa Luchina di Badalucco, muore sotto tortura. Significativo il verbale dell'accaduto steso dal Commissario Scribani:

et havendola ieri sera a 22 ore fatta porre al tormento del cavalletto se ne è morta, cosa certo che mi ha alterato assai et fatto restar molto stupido perchè essendo che in Triola delle donne assai più vecchie di lei et per quanto si poteva scorgere di più debole complessione sono state nel medesimo tormento chi 32 hore continue e chi 25 senza avere riportato pericolo di vita... io ho gran sospetto che da lei stessa si sia fatta qualche fattura col mezzo del diavolo per non havere causa...”

Il 22 luglio 1588 sempre lo Scribani condanna a morte le 4 donne di Andagna, citando contro la tesi difensiva che si tratti di sogni e illusioni, l'autorità del Malleus maleficarum, il testo guida degli inquisitori domenicani.

Di fronte a questi nuovi fatti le autorità locali si appellano di nuovo a Genova, facendo notare come il commissario non ha distinto tra delitti comuni e quello di “stregheria” riservato all'Inquisizione. Intanto cresce il numero delle condanne. Tre donne sono condannate a morte a Badalucco, Castelvittorio e Baiardo.

La protesta delle autorità locali determina la nascita di un conflitto di competenza tra magistratura civile e Inquisizione. In attesa di decidere a chi spetta l'onere del processo, nell'ottobre le donne arrestate sono trasferite a Genova.

Nel frattempo la pratica viene trasferita a Roma per un parere del Santo Uffizio. Il governo genovese vuole liberarsi da una causa diventata troppo ingombrante. Ma Roma prende tempo e così nel febbraio 1589 la Repubblica Serenissima preme sulla Congregazione della Fede a Roma perché, si legge, “dette fattucchiere si vanno consumando... che già tre di loro sono morte”

A maggio nuova pressione del governo genovese per accelerare la causa, visto che altre due donne sono morte nel frattempo.

Finalmente il 28 agosto si annuncia da Roma il termine della causa. Il Commissario genovese Scribani viene scomunicato per “essersi ingerito nelle cose pertinenti alla Sancta Inquisizione contro la disposizione de' sacri canoni”. Di fatto il processo viene sospeso. Misteriosa resta la sorte delle donne detenute a Genova. Nessun documento ne parla più. Qualcuno degli storici che si sono occupati della vicenda le da per morte, altri per liberate.

Un santuario in ogni vallata

Segni della resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una trasformazione imposta dall'alto, alla sparizione delle terre comuni, all'abolizione dei diritti d'uso di pascoli e di boschi che si stanno mutando in proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte con campagne di devozione e il richiamo alla fede.

Uno dopo l'altro nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari mariani, posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell'immaginario popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una cinquantina tra cui quello di Savona, costruito dopo l'apparizione del 1536 e presto diventato, fino alla costruzione nell'Ottocento del santuario di Lourdes, il principale centro di devozione mariana della cristianità.

Valle dopo valle l'arrivo degli oliveti si accompagna alle apparizioni miracolose della Vergine che chiama i contadini alla rassegnazione in nome della Misericordia e non della Giustizia. Il clima è quello della controriforma tridentina, con il rigido controllo sulle confraternite e il disciplinamento delle feste popolari, con il barocco che si sostituisce negli edifici sacri via via ad un romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito religioso che da momento comunitario diventa spettacolare ostentazione di potere e ricchezza. Chiese risplendenti d'oro per un popolo impoverito, come impoverite sono le campagne nel Sud del mondo attuale che sulla monocultura vivono in balia degli andamenti di un mercato mondiale che non possono in alcun modo controllare.

Ulivi e pastori transumanti

Ma non muta solo il paesaggio, cambiano anche le relazioni sociali. Muta l'atteggiamento verso i pastori transumanti, signori delle vie di crinale, questi si rappresentanti la vera civiltà millenaria della Liguria di Ponente, di cui si regolamenta in modo sempre più restrittivo il passaggio. Lo documentano eloquentemente gli Statuti delle comunità; come Triora che a partire da questo periodo disciplina in modo estremamente fiscale il transito delle greggi con particolare riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato in olivis” causato dalle pecore e dalle capre.

Dopo secoli di convivenza il pastore diventa un intruso, un “ladro d'erba” secondo la bella espressione dell'antropologo Marco Aime che al tema della transumanza ha dedicato un libro bellissimo. Transumanza che comunque continuò fino ai primi anni del Novecento, spingendosi le greggi in inverno dalla terra brigasca alla costa in particolare nella zona di Bordighera e fino sulle pendici del Monte Mao fra Spotorno e Vado Ligure

Epilogo

Quello dell'olio fu un mercato in espansione per almeno due secoli. Nel giro di cinquant’anni, tra il Settecento e l’Ottocento, solo nella Valle di Oneglia vennero impiantate 250.000 nuove piante di olivo, destinate soprattutto ad alimentare la crescente produzione industriale di saponi nell'area di Marsiglia. Una vita felice tutto sommato breve, chè già dagli ultimi anni del Settecento il mercato è in crisi e fra gli economisti della repubblica di Genova inizia un vivace dibattito sui rischi della monocultura, che certo risente della suggestione delle teorie fisiocratiche allora in pieno rigoglio, che precorre nelle argomentazioni molte tesi degli attuali critici di una economia fondata sulla monocultura in molte aree del Sud del mondo.

Ma quella della crisi della “civiltà degli ulivi”, per citare Boine che vi dedicò il suo scritto più famoso, come si suol dire, è un'altra storia che merita una trattazione specifica.


Giorgio Amico



martedì 21 marzo 2023

L'arte a Genova dal 1985 a oggi. Giuliano Galletta intervista Sandro Ricaldone

 


Una malinconica postmodernità. L'arte a Genova dal 1985 a oggi

Giuliano Galletta intervista Sandro Ricaldone

Sandro Ricaldone - critico d'arte, curatore, animatore culturale - è uno studioso che con partecipazione e sensibilità ha documentato gli svolgimenti dell'arte contemporanea a Genova negli ultimi 35 anni. Una scelta dei suoi testi in materia è ora presentata nel volume "Da una non breve unità di tempo" (Il Canneto editore, pagine 525, 30 euro), che racconta gli artisti, i movimenti, i temi e le polemiche che hanno caratterizzato la scena genovese dal 1985 ai giorni nostri. Ricaldone, con questa raccolta di scritti (articoli, molti dei quali apparsi sul Secolo XIX, presentazioni, saggi), disegna un paesaggio frastagliato e contraddittorio, di non facile decrittazione. Si tratta perciò di un libro che va a colmare una lacuna nel nostro panorama editoriale e forma idealmente un dittico con il precedente, "L'avantgarde se rend pas" (edito nel 2018 sempre per i tipi del Canneto), dedicato invece alla dimensione internazionale degli interessi dell’autore, uno dei più accreditati esperti delle neo-avanguardie europee: Bauhaus immaginista, Lettrismo, Internazionale situazionista, Fluxus. Le personalità degli artisti genovesi o che a Genova hanno operato, vengono lette e interpretate, con rigore ma anche con una notevole dose di empatia, nel contesto storico nazionale e internazionale. Dalla poesia visiva alla performance, dall'arte antropologica al neo-pop, il periodo storico preso in esame, caratterizzato dalla crisi della Modernità, risulta fra i più complessi ma anche stimolanti del Novecento e dell'inizio del XXI secolo.

Lei è laureato in Giurisprudenza, discende da una famiglia di magistrati e ha lavorato per molti anni nell'ufficio legale di una grande banca. Come nasce la sua passione per l'arte contemporanea, soprattutto quella delle avanguardie?

Mi sembra di poter dire che sono stati molti i fattori che mi hanno portato ad occuparmi, da outsider, di arte contemporanea. Potrei citare le lezioni tenute al liceo da un docente, dantista di vaglia, su Baudelaire, Verlaine e Apollinaire; l’incontro, in piena adolescenza, al Kunstmuseum di Berna con la pittura di Klee o, sul piano didattico, la lettura di un volume di Enrico Accatino, artista amico di mio padre, che per la prima volta mi ha rivelato le avanguardie storiche e l’Action Painting. Poi la frequentazione della Libreria Sileno e l’incontro con Carlo Romano, che considero tuttora il mio vero maestro. Ma non sottovaluterei neppure gli studi giuridici, le lezioni di Rodotà e di Giovanni Tarello, che hanno stimolato – seppure per altra via – un profondo interesse per la pratica dell’interpretazione.

Genova ha sempre avuto un rapporto complicato con l'arte contemporanea, negli anni Sessanta è stata uno dei centri più vivaci, mentre successivamente le cose sono cambiate e gli artisti hanno operato in modo più sotterraneo. Come mai?

Intanto direi che negli anni ’80 e ’90 Genova ha vissuto stagioni importanti sotto il profilo dell’azione culturale delle Istituzioni, con l’Assessorato di Attilio Sartori, l’apertura del Museo di Villa Croce, il restauro di Palazzo Ducale, la nascita di nuove gallerie come Locus Solus e la Pinta. In questo periodo sono emerse diverse ondate di artisti giovani, attive nel campo della performance, del postmodern, del neo concettuale, tutte molto interessanti e affermate in ambito nazionale e non solo. Ma probabilmente, al di là della cerchia del collezionismo più avanzato, una cultura troppo legata al passato, pur importante e – se vogliamo – glorioso, ne ha frenato la considerazione nell’ambiente cittadino.

So che non è impresa facile ma se dovesse indicare gli artisti più significativi di cui si parla nel suo libro, quali nomi farebbe?

Tutti gli artisti sono importanti e significativi, a prescindere dal successo che hanno, o più frequentemente non hanno, conseguito. Perciò mi limito a citare, in rigoroso ordine alfabetico, quelli cui sono stato maggiormente legato: Roberto Agus, Pier Giulio Bonifacio, Claudio Costa, Pier Giorgio Colombara, Andrea Crosa, Beppe Dellepiane, Mauro Ghiglione, Stefano Grondona, Carlo Merello, Martino Oberto, Angelo Pretolani, Roberto Rossini, Rodolfo e Luca Vitone. Come si vede, un mix di generazioni e di tendenze che ha contribuito a formare la mia visione dell’arte.

Pensa che ci sia un filo comune, uno spirito del tempo o un genius loci che collega questi artisti?

Particolarmente sensibili al genius loci sono stati Claudio Costa e Luca Vitone. Il primo, allestendo con Aurelio Caminati il Museo di Monteghirfo dove erano raccolti, nell’ottica di un’esperienza di arte antropologica, i reperti di una civiltà contadina sul punto di scomparire; il secondo facendo dell’esibizione di una compagnia di trallalleri il perno di un’esposizione berlinese. C’è poi una sorta di “linea d’ombra”, una comune radice melanconica che si manifesta con evidenza in Dellepiane e Galletta, ma che innerva sotterraneamente anche il lavoro di Colombara, Ghiglione, Grondona e Merello, e di altri artisti di rilievo, che prima non ho citato: Giuliano Menegon, Pietro Millefiore, Cesare Viel.

Oggi grazie alle nuove tecnologie, penso ai social network, ai Nft o ai generatori di immagini, che utilizzano l'intelligenza artificiale, l'arte sembra sempre più diluirsi nella comunicazione. Si tratta di un fenomeno irreversibile?

Lo scambio tra arte e comunicazione è una costante che esiste da sempre e va nelle due direzioni. Quello che credo possa avvenire, grazie alle tecnologie digitali (e che personalmente auspico), è l’ingresso reale dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, preconizzata quasi un secolo fa da Walter Benjamin, con il progressivo superamento di quei circuiti che in tempi recenti l’hanno trasformata in una nicchia mediatica e speculativa.

Recentemente si è molto polemizzato a Genova sul ruolo del Museo di arte contemporanea di Villa Croce che ad un certo momento ha rischiato addirittura la chiusura. Come vede la situazione?

La riapertura del Museo alle mostre temporanee è stato un fattore positivo, forse l’unico insieme all’abnegazione dei funzionari addetti. Perché a indirizzarne l’attività mancano non solo i finanziamenti ma un progetto culturale. Il solo fatto che tanto in Comune quanto in Regione non esista un Assessore alla Cultura la dice lunga in proposito. E mi spingerei a dire, per paradosso: meglio un cattivo Assessore che nessun Assessore.

Il Secolo XIX - 21 marzo 2023





mercoledì 8 marzo 2023

Karl Korsch. Dal consiliarismo al marxismo critico: storia di un libro

 


Karl Korsch. Dal consiliarismo al marxismo critico

Storia di un libro


Come le persone, i libri hanno una storia e non nascono a caso. Questo libro apparve, con un titolo diverso, nel 2004 in un momento particolare della mia vita. Avevo deciso di abbandonare la militanza attiva, iniziata nel 1966 e, pur in forme organizzative diverse, continuata fino ad allora seguendo le fasi della lotta politica in Italia, dalla fase ascendente '68- '77 al riflusso e infine alla pax berlusconiana. In quasi quarant'anni era cambiato il mondo. Non esisteva più l'URSS, la Cina si era trasformata, abbandonando di fatto il maoismo e diventando sempre più una grande potenza imperialista, la grande fabbrica fordista stava scomparendo, persino il granitico PCI non esisteva più. Non parliamo poi della crisi irreversibile dell'estrema sinistra e del percorso ormai in discesa di Rifondazione comunista che pure al suo nascere aveva destato non poche speranze negli orfani di tutte le chiese del comunismo nostrano. Era evidente per chi aveva occhi per vedere che si andasse verso una fase di stagnazione delle lotte e di crescente passività sociale. Fino ad allora, mi ero sempre considerato un militante e non un semplice osservatore esterno. Ma col trascorrere degli anni il mondo non era più quello del '68 e nemmeno io ero più il giovane di allora.

E dunque che fare? Nel mazzo delle possibili “uscite di sicurezza” utilizzate dalla mia generazione, compreso il rigetto totale di ogni forma di impegno e il ritorno all'ordine rassicurante dei padri, la mia scelta è stata di riprendere a studiare, per cercare di capire meglio cosa davvero fosse accaduto in quegli anni e quali potessero essere le prospettive future. E studiare significava innanzitutto, come è sempre stato per ogni generazione, riprendere in mano i sacri testi e rileggerli non per trovarvi ricette per il presente, ma per ricostruire un minimo di cassetta degli attrezzi utile ad una ricerca non schiacciata totalmente sul presente di una politica diventata teatrino per quelli che il mio amico ed editore Roberto Massari ha efficacemente definito i “forchettoncini rossi”. Una mini nomenclatura di ex leader e leaderini, ormai totalmente decotti, incuranti del senso del ridicolo e disposti ad ogni giravolta pur di non abbandonare poltrone, redazioni, comparsate televisive e relative prebende. O, per restare su un piano più nobile, ma altrettanto residuale, la galassia dei gruppi bordighisti, trotskisti o comunque rifacentesi al leninismo e all'esperienza della Terza Internazionale prima della degenerazione stalinista. Una esperienza storica, quella del comunismo novecentesco, tragicamente grande, ma ormai finita e dunque a cui guardare, come già accaduto con l'anarchismo, prevalentemente sul piano della ricerca storica, non certo della militanza attiva.

La ricerca su Korsch parte da qui e dall'incontro con Yurii Colombo, anche lui rivoluzionario in libera uscita, allora esordiente editore ed oggi giornalista free lance e autore di libri interessanti sulla Russia putiniana. In occasione di un paio di incontri, oltre che a dar fondo alle mie riserve di whisky, avevamo concordato sull'importanza di Karl Korsch per un approccio critico al marxismo e sulla scarsa conoscenza che in Italia si aveva del suo percorso politico ed umano. Da quelle vivaci discussioni al libro il passaggio è stato automatico. Il saggio, uscito in coedizione con Colibrì, ebbe una buona accoglienza, a partire dal “lancio” alla Libreria Calusca di Milano. Un momento che mi è particolarmente caro ricordare, non solo per il livello di partecipazione e di dibattito, ma soprattutto perché fu l'ultima occasione di incontro con Sergio D'Amia, amico fraterno dai tempi della Quarta. Un compagno di una umanità straordinaria come raramente mi è capitato di trovarne nel mio lungo viaggio attraverso la sinistra. Inutile dire che la tiratura non era certo da bestseller e dunque nel giro di pochi mesi e di una decina di presentazioni in giro per l'Italia il libro andò esaurito. Non molto tempo dopo anche l'esperienza editoriale della Giovane talpa, la casa editrice di Yurii, si concluse. E così, tanto per citare il Grande Vecchio, il libro restò abbandonato alla critica roditrice dei topi sugli scaffali delle Biblioteche che lo avevano acquisito.

A distanza di quasi vent'anni, il libro riappare ora in una nuova versione aggiornata e rivista. Nel frattempo il mondo è cambiato. Covid e guerra in Ucraina sono stati solo gli ultimi atti di questo profondo cambiamento. Ma l'interesse per il pensiero e l'opera di Korsch rimane. Lo dimostrano le numerose richieste che in questi anni mi sono pervenute da ricercatori accademici come da semplici militanti italiani e stranieri. Da qui la decisione di riproporlo. La nuova edizione sarà disponibile nelle librerie o direttamente presso l'editore, a partire da aprile.


Giorgio Amico
Karl Korsch. Dal consiliarismo al marxismo critico
Massari Editore, 2023
266 pp. - 20 euro

martedì 7 marzo 2023

Karl Korsch. Dal consiliarismo al marxismo critico

 


Di nuovo disponibile, in una nuova edizione completamente rinnovata, la biografia di Karl Korsch, uscita nel 2004 per un editore milanese. Il libro andò esaurito in pochi mesi, complice anche la limitata tiratura, e da allora numerose sono state le richieste dall'Italia e dall'estero. Infatti, mentre esistono numerosi studi sul pensiero del filosofo tedesco, le biografie si contano sulle dita di una mano comprendendo nel conto anche questa, l'unica finora in italiano. Grazie alla disponibilità dell'editore Roberto Massari, il libro , che sarà nelle librerie dal mese di aprile, torna ad essere disponibile. Riportiamo di seguito le pagine conclusive.


Abbandonare il marxismo per tornare a Marx

La vera opera conclusiva di Korsch sono le 10 tesi sul marxismo oggi, che rappresentano un vero e proprio testamento politico. Stese nel 1950 come schema di una conferenza a Zurigo e non destinate alla pubblicazione, le tesi compendiano l’intero processo critico ed autocritico del marxismo di Korsch. Per Korsch non ha più senso alcuno porsi la domanda in che misura sia ancora valida e praticamente applicabile la teoria di Marx (Tesi 1). La realtà stessa del capitalismo è profondamente cambiata. Il dominio del capitale sulla vita degli uomini è diventato totale. Ne consegue che ogni tentativo di restaurare come un tutto la dottrina marxista non rappresenta altro che una “utopia reazionaria” (Tesi 2). Un ritorno all’indietro che non può sortire effetti positivi. Ciò non toglie che importanti elementi della teoria marxista mantengano la loro validità (Tesi 3). Va chiarito dunque che «il primo passo per la ricostituzione di una teoria e prassi rivoluzionaria consiste nel rompere con la pretesa del marxismo di monopolizzare l’iniziativa rivoluzionaria e la sua direzione teorica e pratica» (Tesi 4).

Marx è da considerarsi solo uno dei molti precursori e fondatori del movimento socialista. Altrettanto importanti sono uomini come Proudhon o Bakunin (Tesi 5). La frattura fra comunismo “scientifico” e comunismo “libertario” può essere finalmente colmata. Preliminare è, tuttavia, il riconoscimento che il marxismo presenta numerosi punti critici, quali la sopravvalutazione del ruolo dello Stato o l’identificazione dello sviluppo dell’economia capitalistica con la rivoluzione socialista (Tesi 6 e 7). Proprio su questi basi si è costruita la grande illusione per alcuni, la cinica menzogna per altri della natura socialista dell’Unione Sovietica. Con il leninismo il marxismo si è trasformato definitivamente in ideologia, utilizzabile nei più diversi contesti e per i più vari obiettivi (Tesi 8 e 9). Il proletariato è stato così definitivamente spossessato della sua teoria. Ma la storia non finisce con il crollo delle speranze nell’URSS socialista e nel ruolo salvifico dell’Ottobre. Il socialismo resta una possibilità. Ma questa possibilità di costruire una società diversa può solo nascere dalla gestione pianificata dell’economia da parte degli esclusi di oggi (Tesi 10). In quali forme e con quali rappresentazioni teoriche sarà la storia a dirlo.

C’è chi ha visto nelle Tesi la manifestazione dell’abbandono definitivo del marxismo da parte di Korsch. In realtà, nonostante la radicalità della sua critica, egli continua a considerare Marx un punto di riferimento fondamentale. In una lettera a Partos, pur densissima di critiche a Marx e al marxismo, egli afferma che se «l’attuale e futuro capitalismo rimane ancora, per profonde che siano le trasformazioni subite, il “capitalismo”, sarà possibile anche in futuro chiamare ancora socialismo-comunismo-marxismo, la teoria e la prassi dell’unico movimento veramente anticapitalistico, per mutate che siano le forme sotto cui esso si presenterà».

Ancora più chiaramente alla metà degli anni Cinquanta in una lettera inviata a vecchi compagni degli anni dalla Kpd egli affermerà: «sono sempre preso dal mio sogno: restaurare teoricamente le ‘idee di Marx’ apparentemente distrutte dopo la conclusione dell’episodio Marx-Lenin-Stalin».

Un’affermazione che pare in piena contraddizione con quanto sostenuto con la tesi 2, ma non è così. Si noti bene, Korsch parla di “idee di Marx” e non di marxismo. Una parola che volendo significare troppe cose, ha finito col tempo per non significare più nulla tanto da apparire oggi una specie di caos di ideologie contrapposte ciascuna delle quali pretende di essere l'autentico marxismo. In questo senso la storia della seconda metà del Novecento ha dato ampiamente ragione a Korsch. Più che l’affermazione su scala planetaria delle idee di Marx, il XX secolo ha visto il trionfo del giacobinismo con la sua fede nello Stato rivoluzionario e nella dittatura del partito. Il prezzo pagato per questo trionfo è stato l’annientamento della classe operaia come autonomo soggetto sociale, protagonista della propria emancipazione. Ancora una volta l’interpretazione autentica del reale pensiero di Korsch ci è offerta dai ricordi di Hedda, sua compagna di vita e di militanza:

« La sua conferenza del 1950, intitolata Dieci tesi sul marxismo, si presta facilmente a malintesi ma non costituiva un ripudio del marxismo. Quelle tesi non erano destinate alla pubblicazione, anche se in seguito io permisi che venissero date alle stampe. Fino alla fine, il perno centrale del suo interesse fu il marxismo. Ma egli cercò di adattare il marxismo, così come lo intendeva, ai nuovi sviluppi (…). L’altra sua preoccupazione principale a quell’epoca era l’ampliamento del marxismo per far fronte all’avanzare delle altre scienze. Pensava che, nella misura in cui la società capitalista si era sviluppata dai tempi di Marx, anche il marxismo dovesse essere sviluppato per capirla. Il suo testo incompiuto, il Manoscritto delle abolizioni, costituisce un tentativo di sviluppare una teoria marxista dello sviluppo storico in termini di futura abolizione delle divisioni che costituiscono la nostra società – come quelle tra le diverse classi, tra città e campagna, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale».

Molti anni dopo Guy Debord svilupperà tesi analoghe come base della sua critica rivoluzionaria della società spettacolare di massa:

«La separazione è l'alfa e l'omega dello spettacolo. (…) Con la divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività svolta, si perde ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Seguendo il progresso e dell’accumulazione dei prodotti divisi e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione diventano attributo esclusivo della direzione del sistema. Il successo del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo».

A Korsch Debord sarebbe piaciuto. Nel suo pensiero avrebbe trovato il segno di quella tendenza alla «abolizione delle divisioni» che aveva visto concretamente all’opera in Spagna e in cui non aveva mai realmente smesso di credere. Proprio per questo ai giovani del ’68 è piaciuto Korsch. Non poteva essere diversamente per una generazione di giovani rivoluzionari che coglievano la “separazione” come caratteristica fondamentale del dominio ormai totale del capitale sulla specie umana. Qualcuno ha definito il maggio-giugno 1968 come il momento del «disvelamento». Un momento di rottura fondamentale: «l’emergere della rivoluzione, ma non la rivoluzione stessa»12. Un momento di generale rimessa in discussione delle categorie interpretative dell'esistente, che non poteva non trovare nell’estrema radicalità del pensiero korschiano alimento e stimolo per andare oltre ad una semplice denuncia dell’integrazione delle organizzazioni operaie nell’ambito della società industriale avanzata. Denuncia che in realtà non spiega nulla. 

Da qui la fortuna che gli scritti di Korsch hanno avuto in quel periodo, come testimonia anche la sua fugace riscoperta in Italia. Il recupero del “maggio” da parte del capitale mediante un’ulteriore accelerazione della spettacolarizzazione della società da un lato e la degenerazione grupposcolare del movimento con il ritorno immaginario ad un marxismo-leninismo “restaurato” dall’altro, avrebbero determinato il rapido richiudersi già dai primi anni Settanta di questi spazi di ricomposizione e con essi la ricaduta di Korsch nell'oblio. Eppure in un momento di grande disincanto come l’attuale il pensiero di Korsch, così radicale nella sua critica di ogni visione consolatoria del reale, così estremo nel suo rifiuto di ogni schema preconfezionato, ma anche così carico di speranza può ancora dirci qualcosa. Il suo coraggioso abbandono del marxismo in favore di un recupero radicale delle idee di Marx può ancora una volta parlare alla mente e al cuore di chi non si rassegna all'immutabilità dello stato di cose presente.