sabato 24 agosto 2019

Il marxismo libertario di Rosa Luxemburg




Il 12 agosto nell'ambito della festa provinciale di Rifondazione comunista si è tenuto un dibattito sul pensiero di Rosa Luxemburg, a cui abbiamo partecipato assieme a Sergio Dalmasso, Giovanni Zanelli e Marco Sferini. Di seguito il testo del nostro intervento.

Giorgio Amico

Il marxismo libertario di Rosa Luxemburg

Ho sempre pensato a Rosa Luxemburg come a una figura tragica, e non solo per il destino terribile che la colse all'inizio del 1919, primo anno di "pace" dopo una guerra interminabile e distruttiva come mai se ne erano viste prima, ma perché nei suoi scritti seppe prefigurare lucidamente il carattere tragico del secolo nuovo che si apriva con le immagini accattivanti della Belle èpoque e del Ballo Excelsior.

Già dai primi anni del secolo che tutti, socialdemocratici tedeschi compresi, vedevano destinato a svolgersi sotto il segno del progresso e della civiltà, fino a diventare pacificamente, quasi naturalmente, socialismo, cioè una forma superiore, pacifica ed evoluta, di vita sociale, Rosa seppe, in assoluta controtendenza e in compagnia di pochi (Lenin, Trotsky) intravvedere ciò che sarebbe poi accaduto: il trionfo delle barbarie, l'orrore della guerra totale, la disumanizzazione come segno della modernità e della tecnica trionfanti.

"Il capitale non conosce altra soluzione che la violenza, metodo costante dell'accumulazione del capitale, come processo storico, non solo al suo primo nascere, ma anche oggi", scriveva nel suo saggio sull'accumulazione del capitale, contrastando la tesi che la violenza, la brutalità e la guerra fossero fenomeni del passato, che lo sviluppo della moderna società industriale avrebbe, proprio per il suo carattere civilizzatore, bandito dalla storia futura.

La violenza è intrinseca al capitale e al suo sviluppo, basato sullo sfruttamento intensivo degli uomini e delle risorse naturali, fondato sulla concorrenza e dunque sulla contesa costante per il predominio sui mercati, interni ed internazionali. E questo non solo a livello degli Stati. La violenza, come guerra di tutti contro tutti, diventa il carattere principale della vita quotidiana, in un mondo in cui centrale è il profitto, cioè l'avere e non l'essere. Socialismo o barbarie, questo il dilemma che attendeva l'umanità e che il Novecento ha poi tragicamente confermato oltre ogni possibile aspettativa.

E' sulla base di questa visione che Rosa si batte per una forma diversa e superiore di società, dove lo sviluppo armonioso e libero di ciascuno sia la condizione dello sviluppo di tutti.

Da qui nel suo pensiero l'importanza della democrazia, non nel senso meramente formale dei diritti giuridici, ma come condizione essenziale per la libera organizzazione delle masse proletarie, per il pieno dispiegarsi delle loro potenzialità creative che solo una visione critica e razionale della realtà poteva garantire. Un modo di vedere che ci ha sempre ricordato le tesi gramsciane sulla necessità nell'Occidente avanzato di una battaglia continua per l'egemonia culturale.

Solo la democrazia, può permettere il libero confronto delle idee, il dibattito continuo e questo non solo nella società, ma anche e anzi soprattutto nelle organizzazioni operaie, partito e sindacato. Da qui la lotta costante contro la burocrazia del movimento operaio tedesco, il più sviluppato e avanzato dell'epoca, ma anche la polemica già dal 1904 con Lenin sui pericoli di un eccessivo centralismo. Tanto da scrivere in occasione del dibattito in corso nel partito socialdemocratico russo fra bolscevichi e menscevichi che "gli errori commessi da un movimento operaio rivoluzionario sono storicamente infinitamente più fecondi e più preziosi dell'infallibilità del miglior Comitato Centrale".

Rosa si faceva così interprete fedele della visone marxiana per cui l'emancipazione del proletariato non può che essere opera diretta dei proletari stessi, non negando la necessità del partito, ma rifiutando recisamente l'idea di un partito, detentore della giusta linea, che si sostituisce alla classe che quella linea deve solo applicare disciplinatamente come un esercito ben addestrato ed inquadrato.

Anche Trotsky, allora giovanissimo, aveva intravvisto il pericolo di una deriva autoritaria nella visione eccessivamente centralizzata del partito avanzata da Lenin in polemica con Martov e i menscevichi, tanto da scrivere nel 1903, e guadagnarsi così la fama di profeta, "i metodi di Lenin conducono a questo: prima l'organizzazione del partito si sostituisce al partito nel suo complesso, poi il comitato centrale si sostituisce all'organizzazione, e infine un unico dittatore si sostituisce al comitato centrale".



Temi che riemergono nell'opuscolo, incompleto e pubblicato solo postumo nel 1920, sulla rivoluzione russa che Rosa stende in carcere nel 1918 e in cui critica duramente, pur sostenendo a fondo il potere bolscevico, l'eccessiva stretta autoritaria a cui Lenin e il partito comunista hanno dopo l'Ottobre sottoposto il popolo russo, compresi gli operai. Una disciplina spietata che rende impossibile una vera democrazia proletaria e dunque mina alle radici le possibilità stesse dello sviluppo di una società nuova di liberi e uguali.

"Senza illimitata libertà di stampa - scrive Rosa - senza libera vita di associazione e di riunione è proprio il dominio di larghe masse popolari a presentarsi assolutamente impossibile".

La dittatura del proletariato non può essere intesa come dittatura del partito sul proletariato. Dall'angusta cella in cui è imprigionata per la sua coerente e appassionata opposizione alla guerra, Rosa vede con lucidità i pericoli che minacciano la rivoluzione e il nascente potere dei soviet:

"Con il soffocamento della vita politica in tutto il paese anche la vita dei soviet non potrà sfuggire a una paralisi sempre più estesa. Senza elezioni generali, libertà di stampa e di riunione illimitata, libera lotta illimitata libera lotta d'opinione in ogni pubblica istituzione, la vita si spegne, diventa apparente e in essa l'unico elemento attivo rimane la burocrazia. La vita pubblica si addormenta poco per volta, la guida effettiva è in mano a una dozzina di teste superiori e una élite di operai viene di tempo in tempo convocata per battere le mani ai discorsi dei capi e votare unanimemente risoluzioni prefabbricate. (...) Dittatura, certo, non la dittatura del proletariato, ma la dittatura di un pugno di politici".

Meglio non si sarebbe potuto descrivere la futura macchina del consenso staliniano. Lucidissima Rosa, ma comunque incapace di contemplare, anche solo in via ipotetica, quello che questo avrebbe comportato sul piano pratico: la mostruosità dei processi farsa, della liquidazione sistematica di ogni forma di dissenso, della costruzione di un paese moderno grazie al lavoro di milioni di schiavi rinchiusi nei campi di "rieducazione". Un orrore troppo grande anche per una donna che era stata capace, unica fra i grandi teorici della socialdemocrazia tedesca, già all'inizio del secolo di vedere la barbarie inedita di una guerra mondiale che si avvicinava a grandi passi.

La voce libera di Rosa si spegne nel gennaio 1919, la sua visione democratica della rivoluzione e del potere proletario verranno messe da parte, considerate una deviazione del marxismo, una sorta di eresia. Ma quando, dopo la morte di Stalin e il XX Congresso, quel modello di socialismo "realizzato" mostra i primi segni di un declino, che si rivelerà poi irreversibile, il messaggio libertario di Rosa riappare immediatamente come un punto di riferimento fondamentale da cui ripartire.

Lo dimostra, e la cosa stupirà molti che conoscono le posizioni attuali di Lotta comunista, un passo di una lettera di Arrigo Cervetto a Danilo Montaldi dell'ottobre 1956:

"Ho letto la prefazione di Damen alla Luxemburg e la ritengo un buon contributo alla chiarificazione ideologica sulla controversa questione della dittatura del proletariato. Credo che se dalle formule aprioristiche si scendesse, come in questo caso, all'elaborazione teorica molti e molti problemi verrebbero risolti e l'unità rivoluzionaria sarebbe una realtà. Sostanzialmente mi trovo d'accordo con la formulazione di Damen e ciò mi ha spinto a rileggere le opere della Luxemburg. Un ritorno alla Luxemburg, alla sua grande profondità di analisi e di previsione, alla problematica che solo la sua sensibilità aveva posto e che oggi è quanto mai attuale: questo potrebbe essere il punto d'incontro teorico dell'unità rivoluzionaria".

Dopo tanti anni, crediamo che ancora oggi non si possa dire di meglio.





Di gelati e di esoterismo. L'effimera leggerezza del cono



Si fa presto a dire gelato. In realtà, oltre il più tradizionale oggetto del desiderio gastronomico estivo, si celano significati simbolici profondi. Chi potrebbe immaginare, ad esempio, che il cono "che stiamo tenendo in mano, rappresenta anche l'asse del mondo, il simbolo della nostra presenza nell'infinito fluire dell'esistenza". Un affascinante saggio di Raffaele K. Salinari.

Raffaele K. Salinari

L'effimera leggerezza del cono


Il gelato: dolce tipico dell’estate, delizia fredda che a contatto col calore delle labbra prima e della lingua poi, dispiega una miriade di immagini e sensazioni legate alla stagione delle vacanze, del mare, del sole, delle avventure sentimentali. Ma l’immediatezza dell’offrire, o del ricevere, un gelato richiama anche significati molto più profondi, che vanno ben oltre a quell’allusione sessuale che nella memoria di ognuno di noi rimane legata alla promessa del piacere. E allora cerchiamo, brevemente, di delineare alcuni delle ascendenze che danno al gelato, ed alle sue forme, un orizzonte di significato che dispiega i suoi rimandi simbolici e culturali.

Tra storia e leggenda

Il gelato nasce con l’umanità e dunque la sua origine si perde nella leggenda. La più antica narra di un ipotetico versetto biblico in cui Isacco, offrendo ad Abramo latte di capra misto a neve, avrebbe inventato il primo sorbetto della storia: “Mangia e bevi – dice Isacco al padre – il sole è ardente e così puoi rinfrescarti”. In realtà questo versetto non compare nel Libro sacro alle tre religioni monoteiste, ma la dice lunga sulla “sacralità” dell’ascendenza leggendaria che si vuole attribuire al gelato, ed in particolare al suo significato “salvifico”, il primo bene di conforto: siamo nel deserto ed il patriarca sta soffrendo; una sorta di manna gelata insomma. Ma, al di là della storia, o meglio prima di questa, noi sappiamo che l’esistenza di una leggenda significa la necessità di aurare il soggetto narrato; per il gelato dobbiamo allora spingerci ad esplorare certe corrispondenze che non appaiono immediatamente evidenti.

Certo è che, nell’antico Egitto, i Faraoni servivano dolci rinfrescanti composti da ghiaccio misto al succo di una frutta, quella che oggi chiariremmo una classica “grattachecca”. Le fonti tramandano che pure Alessandro Magno fosse solito consumare una «granita» di neve mista a miele e frutta. Più storicamente documentate, con tanto di ricette, sono invece le nivatae potiones, cioè le bevande ghiacciate, veri e propri dessert tipo semifreddo per intenderci, usate dai Romani nei loro banchetti. Possiamo ben immaginare Nerone che si rinfresca dal gran caldo dell’incendio di Roma con una di queste.

Ma bisogna attendere il Rinascimento che, come vedremo, col gelato ha una relazione che va ben oltre ciò che accade sulle labbra e nel palato, per assistere alla sua rinascita nell’Evo moderno. In particolare è Firenze a rivendicare la formula che per prima utilizza il latte, la panna e le uova. L’innovazione si deve all’architetto Bernardo Buontalenti, insieme ad un altro grande protagonista della storia del gelato: il palermitano Francesco Procopio dei Coltelli che, trasferitosi a Parigi alla corte del Re Sole aprì, nel 1686, il primo caffè-gelateria della storia, il tuttora famosissimo caffè Procope sito in rue de l’Ancienne Comédie.

E su questo caffè vale la pena soffermarsi un pochino, dato che la storia del gelato si intreccia qui con quella di un prodotto altrettanto basilare, se non di più: il caffè appunto. Quando Procopio, poi francesizzatosi in Procope, apre il suo esercizio rilevato da un armeno che si era trasferito a Londra, siamo a qualche anno dall’introduzione a corte del caffè, dono del sultano Maometto IV.

La trovata di Procopio fu, allora, proprio quella di miscelare la nuova bevanda, tonicizzante ed esotica, con il gelato, reinventando così, ancora una volta nella storia, il sorbetto, ma al gusto di caffè. Il locale divenne presto uno dei ritrovi preferiti della città: il menù, in italiano, comprendeva, infatti: acque gelate (la granita), fiori d’anice, fiori di cannella, frangipane, gelato al succo di limone, gelato al succo d’arancio, sorbetto di fragola. Ciò che rendeva speciale il tutto, oltre alla bontà, era l’esclusiva che Procopio aveva ottenuto tramite una patente reale con cui Luigi XIV gli aveva dato nientemeno che l’esclusiva di quei dolci.

Arriviamo così al ‘700, e troviamo Voltaire e Rousseau tra gli habitué; e forse fu qui che, sorseggiando un sorbetto al caffè, i primi complottardi repubblicani cominciarono a pensare alle rivoluzioni culturali e politiche del XVIII secolo, poiché la storia del Caffè Procope vuole che Diderot vi scrivesse alcuni articoli della celebre Encyclopédie, e che il massone Benjamin Franklin vi concepisse alcuni passaggi della futura costituzione degli Stati Uniti d’America.

Da Parigi ci spostiamo a questo punto nel Nuovo Mondo, dove l’italiano Filippo Lenzi, agli inizi del‘900,apre la prima gelateria in terra americana. Il prodotto si diffonde a tal punto da stimolare la sua produzione meccanica: nasce la sorbettiera a manovella, brevettata da tale William Le Young.Ma, almeno in Italia, patria indiscussa del gelato, dobbiamo aspettare il secondo dopoguerra per avere il primo prodotto industriale su stecco… il leggendario Mottarello al fiordilatte nato nel 1948, seguito a ruota, nei ruggenti anni ‘50, dal primo cono con cialda, il mitico – vedremo com’è appropriato questo aggettivo – Cornetto.

Dal mito al Cornetto

Ecco che arriviamo alle immancabili ascendenze mitologiche del «Cornetto» che richiama chiaramente, sia nella forma sia nell’allusione simbolica, la cornucopia, letteralmente corno dell’abbondanza, dal latino cornu, corno, e copia, abbondanza. Le versioni sulla sua nascita convergono verso il corno della capra Amaltea che venne strappato per gioco dal neonato Zeus mentre essa lo nutriva, durante la sua prima infanzia, quando doveva nascondersi dal padre Crono, divoratore dei suoi figli. Per ripagarla della dedizione Zeus trasformò il corno in cornucopia. Sempre secondo la mitologia greca, un altro corno fu perduto dal fiume Acheloo nella lotta contro Ercole per la sposa Deianira: il fiume si trasformò in toro ed il suo corno venne strappato dal semidio e poi restituitogli proprio dandogli quello della capra nutrice. Il mito è importante anche perché narra come dalle gocce di sangue cadute dalla ferita del corno estirpato nascessero le Sirene, chiamate infatti Acheloides dal nome del padre. E dunque, una parte del magico potere di seduzione del Cornetto, utilizzata nelle pubblicità che riprendono spesso i mitologemi fondamentali, deriverebbe proprio da queste ascendenze. La donna che porge il Cornetto, in altre parole, ha sempre qualcosa di sirenico, evoca un frammento del loro potere di incantamento, ben noto da Ulisse ai giorni nostri. D’altra parte, la componente maschile del Cornetto può sempre ricordare la virile presa di Ercole: anche qui, molto comune, l’immagine del ragazzo che porta il Cornetto alla ragazza, finalmente acquistato al bar, come fosse un trofeo.



L’Accademia dei Gelati e Cristina di Svezia

Esiste poi una dimensione largamente inesplorata, o perlomeno non immediatamente evidente, che riguarda la relazione tra il gelato ed il tempo. La caratteristica del gelato, infatti, il suo attributo d’essenza, è che si scioglie. L’esserci-del-gelato, il suo dasein, è dunque nel tempo, come direbbe Heidegger, e proprio questa relazione è stata utilizzata per evidenziare altre simbologie, sia erotiche, sia più squisitamente esoteriche, incardinate in una Accademia del XVI secolo dal nome alquanto evocativo: L’Accademia dei Gelati.

Nel 1588 a Bologna, viene fondata questa particolare Accademia il cui emblema, una selva di alberi congelati in un glaciale paesaggio invernale, porta come motto una frase tratta dalle Georgiche di Virgilio (Libro II verso 80), Nec Longum Tempus, cioè «non per molto tempo ancora». Chi oggi visitasse le Collezioni comunali d’arte del Palazzo d’Accursio, sede del Municipio cittadino, vedrebbe il curioso emblema raffigurato in un dipinto di Annibale Carracci. Il motto Nec Longum Tempus, alludeva allo scopo dell’Accademia, i cui membri si ripromettevano di attivarsi per dare il loro contributo affinché il metaforico bosco gelato della cultura, tornasse presto alla stagione primaverile. Non a caso il motto virgiliano si riferisce proprio a questo.

Una peculiarità dei Gelati era anche quella per cui i suoi aderenti avevano un soprannome ed un emblema personale, che doveva essere in tema con il nome dell’Accademia. I Gelati di Bologna adottarono dunque soprannomi ed emblemi sin dalle prime pubblicazioni, si vedano le Ricreazioni amorose, in cui si cimentarono in poesie erotiche firmandosi col nome accademico: Faunio, Tenebroso, Immaturo, Pronto, Intento, Caliginoso. Queste rime rispecchiano l’atmosfera neoplatonica rinascimentale, in cui l’amore è la via che conduce alla Verità e la donna è la guida.

Sempre al passo con i tempi, fedele al suo motto, l’Accademia dei Gelati assume, nella seconda metà del Seicento, interessi più enciclopedici, che vanno dalla linguistica alla musica, dall’etica politica all’astronomia, ma anche all’esoterismo e alle nascenti sensibilità massoniche. E proprio il saggio sull’astronomia dell’accademico Geminiano Montanari, Sulla sparizione di alcune stelle ed altre novità celesti, attirò l’attenzione della Royal Society di Londra, che nelle sue Philosophical Transactions del 1672 dedicò una recensione alla pubblicazione lodando il saggio del Montanari.

Ora, come non ricordare che la Royal Society era stata fondata da un gruppo eminente di Freemasons, basti citare, tra gli altri, due nomi: il pastore anglicano J. T. Desaguliers, che diventerà il primo Gran Maestro della Massoneria speculativa inglese dopo la sua fondazione nel 1717, e lo stesso Isaac Newton, il padre della teoria della gravitazione universale, non solo fisico e matematico ma ermetista eminente?

Ed è in questi stessi anni che l’Accademia dei Gelati entra in contatto con una donna per molti versi eccezionale, che darà alla cultura esoterica del ‘600, il secolo ermetico-rosacrociano per eccellenza – la Fama Fraternitatis Rosae Crucis è infatti del 1652 – un sostegno ed un impulso fondamentali: Cristina di Svezia.

La sovrana aveva abdicato al trono nel 1654 per via della sua adesione al cattolicesimo; decise così di lasciare la natia Svezia e di scendere in Italia, precisamente a Roma, dove arrivò per tappe. Scrive infatti nelle sue Memorie: “A piccole tappe io visitai Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, città suddite della Santa Sede”, ed aggiunge, evidentemente lusingata: “Non vi fu antica divinità che non venisse a me paragonata”. A Fano, Cristina conosce il Marchese Santinelli, noto ermetista ed autore di libri sull’argomento, già allora fondamentali: basti pensare che una sua ode alchemica venne ritrovata nei manoscritti esoterici di Newton solo qualche decennio fa.

Ed ecco che, arrivata a Bologna, nel novembre del 1655, riceve in omaggio e dedica da G. D. Cassini, il suo studio sulla meridiana a camera oscura, ancor oggi splendidamente in funzione all’interno della chiesa di San Petronio. Ma perché questo interesse particolare per il giovane astronomo che faceva, ovviamente, parte dell’Accademia dei Gelati? In quel periodo Cristina leggeva il De Misteriis Aegyptorum di Giamblico, e fu forse attratta dall’originale e criptata dedica che sovrasta il frontespizio “Magnum Uraniae Tesaurum” che nasconde l’acronimo M.U.T. Ora MUT è la Grande Dea dell’Antico Egitto protettrice dei cieli e delle madri; una dedica fortemente encomiastica, soprattutto perché la regina ne colse un aspetto nascosto ai più. Quello che aveva infatti intrigato Cristina – e che è stato ben evidenziato da Anna Maria Partini nel suo libro Cristina di Svezia ed il suo cenacolo alchemico, citando Giustino Languasco – è l’originalissima suddivisione spaziale delle parole sul frontespizio, a prima vista del tutto casuale e stranamente frammentata. Ebbene, a tracciare i contorni delle parole, emerge chiaramente il disegno di un potente simbolo egizio: il Dijed, che sicuramente non tutti potevano individuare dietro l’occultamento del calligramma, e che serviva a segnalare a Cristina l’appartenenza di G. D. Cassini alla corrente occulta e risorgente dell’antica sapienza egizia.

Apriamo qui una breve parentesi sulla personalità, diciamo focosa, delle regina: chi ancora oggi guardasse le porte bronzee di Villa Medici, al Pincio, dopo Trinità dei Monti, vedrebbe una vistosa ammaccatura. Se poi si voltasse incontrerebbe con lo sguardo una fontana sormontata da una palla. Ebbene, si dice, sia la stessa palla che Cristina sparò da un cannone verso la Villa, da Castel Sant’Angelo, per vendicarsi di un appuntamento galante mancato… con un cardinale.

Ora, tornando alla religione degli antichi Egizi, bisogna dire che Zed (o Dijed), viene tradotto come “stabilità”, corrispondente dell’ebraico Jachin, che insieme a Boaz erano biblicamente i nomi delle due colonne del tempio di Salomone, e che oggi ritroviamo in tutti i templi latomistici. Il Dijed è la rappresentazione della spina dorsale del dio Osiride, sposo di Iside, sovrano dell’Oltretomba. Per gli Egizi, come per le filosofie e pratiche yoga, la spina dorsale è sede e canale dell’energia vitale, del Prana, e simboleggia dunque la stabilità della vita che si rinnova. Il geroglifico multicolore che lo rappresenta somiglia a un pilastro, ma anche ad un bel cono gelato con molte palline sovrapposte dai gusti differenti!

E qui chiudiamo allora il cerchio tra il nostro Cornetto, o Mottarello, e le sue ascendenze simboliche, ricordando che il Djed rappresenta anche l’axis mundi che compare, non a caso, anche nello stemma dell’Accademia dei Gelati. E dunque, mentre gustiamo il nostro gelato, che si sta immancabilmente sciogliendo, simbolo della vita che bisogna cogliere e godere nella sua immediatezza, rammentiamoci anche che stiamo tenendo in mano l’asse del mondo, il simbolo della nostra stessa presenza nell’infinito fluire dell’esistenza.

il manifesto/Alias- 24 agosto 2019

venerdì 23 agosto 2019

ENEL e Guatemala

Alcuni giorni fa avevamo ripreso parte di un'intervista apparsa su il Manifesto e relativa alla politica dell'ENEL in Guatemala. Per completezza di informazione riprendiamo la rettifica apparsa sul Manifesto di oggi, 23 agosto 2019.


sabato 17 agosto 2019

La giornata di uno scrutatore



La Giornata di uno Scrutatore”
Circolo degli Artisti, Pozzo Garitta, 32 Albissola Marina
Dal 24 agosto all’8 settembre 2019.
Inaugurazione sabato 24 agosto alle 18
Orario apertura tutti i giorni dalle 16 alle 19

“La mostra è l’incontro tra due artisti che, per scelta o per necessità, operano in salita, creano i loro lavori solo dopo aver superato un ostacolo iniziale. L’ostacolo fisico dell’ascesa sulle pareti di roccia è solo una metafora dell’ostacolo più grande che ciascuno di loro ha dentro. È il mettersi continuamente alla prova: una sfida per esistere che si riflette nelle loro opere. Due artisti che, in sintesi, non scelgono mai la strada più breve, evitano i percorsi piani e più facili, scartano le scorciatoie edonistiche e le forme edulcorate dell’arte. Si misurano con una realtà aspra e ruvida per arrivare ad una rappresentazione artistica intensa e, talvolta, dolorosa. Entrambi sono legati ad una pittura basata sulla figurazione, usano supporti precari dai cartoni di Beppe Rosso alle metamorfosi rupestri di Mario Nebiolo”.[image:11874:r]

“Beppe Rosso in una visione della realtà parte dal basso, dal punto di vista dei “rifiuti”, siano essi materiali, sociali o umani. Ad esempio la sua opera per gli auguri di Natale del 2007, fu la rappresentazione dei resti (avanzi) del pranzo natalizio. Alcune sue nature morte raffigurano più i ritrovamenti dei cassonetti della spazzatura che non la vivacità di un frutto estivo. Queste nature morte che, lui stesso, titola “pop-rustic” molto spesso ricordano i resti delle tavole di Daniel Spoerri, mentre i suoi ritratti e le sue figure rimandano spesso all’opera di Francis Bacon”.

“Mario Nebiolo, oltre al fascino avventuroso della sua pittura rupestre su pareti di cava che coglie nelle pieghe e nei toni della roccia l’opportunità per produrre fantastiche metamorfosi della natura, realizza opere su cartoni ed altri supporti precari che seguono una gamma ricca e variegata di temi e di forme espressive. Dalle nature morte surreali ed oniriche che riproducono i giocattoli della stagione dell’infanzia, alle figurazioni drammatiche che sembrano citare le opere di Munch, fino alla rappresentazione feticistica di scarpe e stivali che, in qualche caso, assumono il senso di grattacieli urbani futuristi. Immagini urbane tra i progetti di Sant’Elia e le scenografie di Fritz Lang per Metropolis”.

sabato 10 agosto 2019

Il decreto sicurezza bis è una manomissione illiberale della democrazia




La forza dei regimi autoritari è la passività dei cittadini. Chi tace e fa finta di non capire che in Italia Salvini sta, passo dopo passo, ponendo le basi di un regime illiberale, è complice. Non mi piacciono le catene su FB, ma questa volta chiedo a chi  è d'accordo con l'intervento di Salinari , di condividerlo e farlo circolare.

Raffaele K. Salinari

Il decreto sicurezza bis è una manomissione illiberale della democrazia

Il Decreto sicurezza bis ha, tra gli altri, uno scopo preciso: criminalizzare il Diritto internazionale dei diritti umani. Nell’ambito della visione sovranista e xenofoba del mondo, delle relazioni tra popoli e nazioni, tra chi è nel supermercato globale come compratore e chi ne è invece merce, come i migranti, impedire per legge l’attuazione e le pratiche che, di fatto, si riferiscono alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, è la madre di tutte le battaglie politiche. Il resto delle progressive restrizioni, sul piano dell’inclusione sociale, della riduzione per gli spazi di dissenso e democrazia, viene di conseguenza.

Il Governo, o chi lo conduce verso questa strada, sa bene che le norme del Decreto sono incostituzionali, che ledono tutta una lunga serie di Convenzioni internazionali che il nostro Paese ha, sino ad ora, almeno cercato di onorare. Se non ci fossero proprio questi ampi margini di incostituzionalità e di violazione palese, che senso avrebbe avuto fare il Decreto? La posta in gioco è proprio il creare la lesione, portare sino alla massima profondità possibile il vulnus per modificare radicalmente un sistema di certezze. Il Diritto Internazionale dei Diritti umani è come una diga: una volta praticato un foro, prima o poi l’acqua rompe gli argini e travolge tutto.

E la parte ong, quella dell’azione umanitaria e della cooperazione allo sviluppo, è oggi evidentemente la più esposta a questi attacchi, dato che si pone alla frontiera del rispetto di Diritti che, oggi conculcati per i migranti, tra poco, già ora, lo saranno per quanti dissentono e rivendicano la loro coerenza democratica.

Noi sappiamo, o dovremmo, che nel recente passato molti regimi liberali, o formalmente tali, sono stati trasformati progressivamente in illiberali attraverso la manomissione degli stessi strumenti della democrazia. Questo è successo perché le forze progressiste non hanno capito quando era arrivato il momento di porre un argine forte, ampio, ai continui smottamenti illiberali.  Bene, almeno per noi ong, questo momento è già arrivato.

Da una parte si riducono drasticamente i fondi per gli aiuti allo sviluppo per i paesi di provenienza, con tagli che fanno retrocedere il Paese a percentuali del Pil ridicole, e questo, evidentemente non perché i fondi non ci siano, ma proprio per marcare, ancora una volta, la distanza da quegli impegni internazionali già presi.

Dall’altra si decreta di comminare multe milionarie e chi quegli stessi impegni ha il dovere, ed il diritto, sì perché la salvaguardia della vita umana è anche un diritto da esercitare, di far rispettare.
Non è ancora abbastanza per capire che l’attacco è alle fondamenta dello Stato di Diritto? Alla Costituzione? Alle normative comunitarie? Al multilateralismo?

In una parola a tutto ciò che rende il consesso umano ancora in grado di dialogare e risolvere le grandi questioni globali: il clima, la povertà, le disparità di genere? Noi ong ci siamo ritrovati ad essere sempre una postazione avanzata, non solo a denunciare ciò che di inammissibile ed ingiusto avviene nel mondo, ma anche a portare soluzioni concrete, con una visione semplice: la Terra ha bisogno di mantenere la sua biodiversità nel rispetto per tutte le forme del vivente, a partire dalla nostra, non di diseguaglianza ed esclusione.

Continueremo a attuare questa nostra visione, ciascuno nella sua singola missione. Siamo tante noi ong, ed oggi, come sempre, continuiamo il nostro cammino, nonostante tutto, nonostante chi vorrebbe normalizzarci.

E in questo ruolo ci sentiamo soprattutto di chiamare al nostro fianco tutti coloro i quali hanno colto lo spirito dei tempi, affinché le nostre azioni, come la ragazzina che tiene chiuso il buco della diga nella favola, siano finalmente viste come ciò che sono: patrimonio comune dell’Umanità.

il Manifesto, 10 agosto 2019


venerdì 9 agosto 2019

Le Albisole celebrano Eliseo Salino



Riceviamo e volentieri facciamo circolare.


Le Albisole celebrano Eliseo Salino

I Comuni di Albissola Marina e Albisola Superiore celebrano Eliseo Salino.

L’omaggio all’artista, che avrebbe compiuto cento anni, avverrà lunedì 12 agosto 2019, alle 18.30, presso le Ceramiche San Giorgio ad Albissola Marina dove gli assessori alla cultura di Albissola Marina e Albisola Superiore, Nicoletta Negro e Simona Poggi, incontreranno gli amici nella fabbrica nella quale l’artista ha lavorato per più di quarant’anni.
L’evento è organizzato dall’Associazione culturale Arte DOC con la collaborazione dei Comuni di Albissola Marina e Albisola Superiore.

“Un semplice e doveroso gesto - spiega Simona Poggi, neo Assessore alla Cultura del Comune di Albisola Superiore - per un poliedrico artista che aveva dentro di sé l’essenza di Albisola. In ogni suo lavoro troviamo infatti il profumo dell’argilla usata nelle fabbriche insieme ai dialoghi con i grandi artisti internazionali del tempo; vediamo l’unione armonica della storia della ceramica ligure con gli influssi dell’arte contemporanea più aggiornata. C’è la cultura di un territorio, dove non compaiono solo i suoi personaggi caricaturali trattati con la sua peculiare ironia, ma anche i presepi e le inconfondibili streghe che caratterizzano la sua produzione e che descrivono le tante anime di un popolo antico composte di religiosità e spiritualità, ma anche di magia, sogno e trascendenza, per non parlare del suo amore per la tradizione culinaria nella quale il cibo, le ricette e i sapori si legano indissolubilmente alla sua arte, alla cultura e all’identità di una comunità”.

Aggiunge Nicoletta Negro, Assessore alla cultura del Comune di Albissola Marina: “Cento anni fa nasceva Eliseo Salino: Albissola Marina deve molto alla sua arte e alla sua umanità. Anch'io devo molto ad Eliseo Salino: è stato per me un riferimento culturale importante ed un compagno di grandi risate. La passione per la ceramica, che ha accompagnato tutta la mia vita, la devo sicuramente alla mia famiglia, ma anche e soprattutto, all'amicizia con lui. Celebrare la sua figura, con i suoi familiari e gli Albisolesi che tanto lo hanno amato, in una serata conviviale, fra aneddoti di vita vissuta ed un brindisi in suo onore, credo sia il modo in cui vorrebbe anche lui e sono certa che, sotto ai suoi baffoni, sorriderà di noi e con noi”.