Si fa presto a dire gelato. In realtà, oltre il più tradizionale oggetto del desiderio gastronomico estivo, si celano significati simbolici profondi. Chi potrebbe
immaginare, ad esempio, che il cono "che stiamo tenendo in mano,
rappresenta anche l'asse del mondo, il simbolo della nostra presenza
nell'infinito fluire dell'esistenza". Un affascinante saggio di Raffaele K. Salinari.
Raffaele K. Salinari
L'effimera leggerezza
del cono
Il gelato: dolce tipico
dell’estate, delizia fredda che a contatto col calore delle labbra
prima e della lingua poi, dispiega una miriade di immagini e
sensazioni legate alla stagione delle vacanze, del mare, del sole,
delle avventure sentimentali. Ma l’immediatezza dell’offrire, o
del ricevere, un gelato richiama anche significati molto più
profondi, che vanno ben oltre a quell’allusione sessuale che nella
memoria di ognuno di noi rimane legata alla promessa del piacere. E
allora cerchiamo, brevemente, di delineare alcuni delle ascendenze
che danno al gelato, ed alle sue forme, un orizzonte di significato
che dispiega i suoi rimandi simbolici e culturali.
Tra storia e leggenda
Il gelato nasce con
l’umanità e dunque la sua origine si perde nella leggenda. La più
antica narra di un ipotetico versetto biblico in cui Isacco, offrendo
ad Abramo latte di capra misto a neve, avrebbe inventato il
primo sorbetto della storia: “Mangia e bevi – dice
Isacco al padre – il sole è ardente e così puoi rinfrescarti”.
In realtà questo versetto non compare nel Libro sacro alle tre
religioni monoteiste, ma la dice lunga sulla “sacralità”
dell’ascendenza leggendaria che si vuole attribuire al gelato, ed
in particolare al suo significato “salvifico”, il primo bene di
conforto: siamo nel deserto ed il patriarca sta soffrendo; una sorta
di manna gelata insomma. Ma, al di là della storia, o meglio prima
di questa, noi sappiamo che l’esistenza di una leggenda significa
la necessità di aurare il soggetto narrato; per il gelato dobbiamo
allora spingerci ad esplorare certe corrispondenze che non appaiono
immediatamente evidenti.
Certo è che, nell’antico
Egitto, i Faraoni servivano dolci rinfrescanti composti da ghiaccio
misto al succo di una frutta, quella che oggi chiariremmo una
classica “grattachecca”. Le fonti tramandano che pure
Alessandro Magno fosse solito consumare una «granita» di neve mista
a miele e frutta. Più storicamente documentate, con tanto di
ricette, sono invece le nivatae potiones, cioè le bevande
ghiacciate, veri e propri dessert tipo semifreddo per intenderci,
usate dai Romani nei loro banchetti. Possiamo ben immaginare Nerone
che si rinfresca dal gran caldo dell’incendio di Roma con una di
queste.
Ma bisogna attendere il
Rinascimento che, come vedremo, col gelato ha una relazione che va
ben oltre ciò che accade sulle labbra e nel palato, per assistere
alla sua rinascita nell’Evo moderno. In particolare è Firenze a
rivendicare la formula che per prima utilizza il latte, la panna e le
uova. L’innovazione si deve all’architetto Bernardo
Buontalenti, insieme ad un altro grande protagonista della storia del
gelato: il palermitano Francesco Procopio dei Coltelli che,
trasferitosi a Parigi alla corte del Re Sole aprì, nel 1686, il
primo caffè-gelateria della storia, il tuttora famosissimo caffè
Procope sito in rue de l’Ancienne Comédie.
E su questo caffè vale
la pena soffermarsi un pochino, dato che la storia del gelato si
intreccia qui con quella di un prodotto altrettanto basilare, se non
di più: il caffè appunto. Quando Procopio, poi francesizzatosi in
Procope, apre il suo esercizio rilevato da un armeno che si era
trasferito a Londra, siamo a qualche anno dall’introduzione a corte
del caffè, dono del sultano Maometto IV.
La trovata di Procopio
fu, allora, proprio quella di miscelare la nuova bevanda,
tonicizzante ed esotica, con il gelato, reinventando così, ancora
una volta nella storia, il sorbetto, ma al gusto di caffè. Il
locale divenne presto uno dei ritrovi preferiti della città: il
menù, in italiano, comprendeva, infatti: acque
gelate (la granita), fiori d’anice, fiori di
cannella, frangipane, gelato al succo di limone, gelato
al succo d’arancio, sorbetto di fragola. Ciò che rendeva
speciale il tutto, oltre alla bontà, era l’esclusiva che Procopio
aveva ottenuto tramite una patente reale con cui Luigi
XIV gli aveva dato nientemeno che l’esclusiva di quei dolci.
Arriviamo così al ‘700,
e troviamo Voltaire e Rousseau tra gli habitué; e forse fu qui
che, sorseggiando un sorbetto al caffè, i primi
complottardi repubblicani cominciarono a pensare alle rivoluzioni
culturali e politiche del XVIII secolo, poiché la storia
del Caffè Procope vuole che Diderot vi
scrivesse alcuni articoli della celebre Encyclopédie, e che il
massone Benjamin Franklin vi concepisse alcuni passaggi
della futura costituzione degli Stati Uniti d’America.
Da Parigi ci spostiamo a
questo punto nel Nuovo Mondo, dove l’italiano Filippo Lenzi,
agli inizi del‘900,apre la prima gelateria in terra americana. Il
prodotto si diffonde a tal punto da stimolare la sua produzione
meccanica: nasce la sorbettiera a manovella, brevettata da
tale William Le Young.Ma, almeno in Italia, patria indiscussa del
gelato, dobbiamo aspettare il secondo dopoguerra per avere il primo
prodotto industriale su stecco… il leggendario Mottarello al
fiordilatte nato nel 1948, seguito a ruota, nei ruggenti anni
‘50, dal primo cono con cialda, il mitico – vedremo com’è
appropriato questo aggettivo – Cornetto.
Dal mito al Cornetto
Ecco che arriviamo alle
immancabili ascendenze mitologiche del «Cornetto» che richiama
chiaramente, sia nella forma sia nell’allusione simbolica, la
cornucopia, letteralmente corno dell’abbondanza, dal
latino cornu, corno, e copia, abbondanza. Le versioni sulla
sua nascita convergono verso il corno della capra Amaltea che venne
strappato per gioco dal neonato Zeus mentre essa lo nutriva, durante
la sua prima infanzia, quando doveva nascondersi dal padre Crono,
divoratore dei suoi figli. Per ripagarla della dedizione Zeus
trasformò il corno in cornucopia. Sempre secondo la mitologia greca,
un altro corno fu perduto dal fiume Acheloo nella lotta
contro Ercole per la sposa Deianira: il fiume si
trasformò in toro ed il suo corno venne strappato dal semidio e poi
restituitogli proprio dandogli quello della capra nutrice. Il mito è
importante anche perché narra come dalle gocce di sangue cadute
dalla ferita del corno estirpato nascessero le Sirene, chiamate
infatti Acheloides dal nome del padre. E dunque, una parte
del magico potere di seduzione del Cornetto, utilizzata nelle
pubblicità che riprendono spesso i mitologemi fondamentali,
deriverebbe proprio da queste ascendenze. La donna che porge
il Cornetto, in altre parole, ha sempre qualcosa di sirenico,
evoca un frammento del loro potere di incantamento, ben noto da
Ulisse ai giorni nostri. D’altra parte, la componente maschile
del Cornetto può sempre ricordare la virile presa di
Ercole: anche qui, molto comune, l’immagine del ragazzo che porta
il Cornetto alla ragazza, finalmente acquistato al bar,
come fosse un trofeo.
L’Accademia dei Gelati
e Cristina di Svezia
Esiste poi una dimensione
largamente inesplorata, o perlomeno non immediatamente evidente, che
riguarda la relazione tra il gelato ed il tempo. La caratteristica
del gelato, infatti, il suo attributo d’essenza, è che si
scioglie. L’esserci-del-gelato, il suo dasein, è dunque nel
tempo, come direbbe Heidegger, e proprio questa relazione è stata
utilizzata per evidenziare altre simbologie, sia erotiche, sia più
squisitamente esoteriche, incardinate in una Accademia del XVI secolo
dal nome alquanto evocativo: L’Accademia dei Gelati.
Nel 1588 a Bologna, viene
fondata questa particolare Accademia il cui emblema, una selva di
alberi congelati in un glaciale paesaggio invernale, porta come motto
una frase tratta dalle Georgiche di Virgilio (Libro II
verso 80), Nec Longum Tempus, cioè «non per molto tempo
ancora». Chi oggi visitasse le Collezioni comunali d’arte del
Palazzo d’Accursio, sede del Municipio cittadino, vedrebbe il
curioso emblema raffigurato in un dipinto di Annibale Carracci. Il
motto Nec Longum Tempus, alludeva allo scopo dell’Accademia, i
cui membri si ripromettevano di attivarsi per dare il loro contributo
affinché il metaforico bosco gelato della cultura, tornasse presto
alla stagione primaverile. Non a caso il motto virgiliano si
riferisce proprio a questo.
Una peculiarità dei
Gelati era anche quella per cui i suoi aderenti avevano un soprannome
ed un emblema personale, che doveva essere in tema con il nome
dell’Accademia. I Gelati di Bologna adottarono dunque soprannomi ed
emblemi sin dalle prime pubblicazioni, si vedano le Ricreazioni
amorose, in cui si cimentarono in poesie erotiche firmandosi col nome
accademico: Faunio, Tenebroso, Immaturo, Pronto, Intento, Caliginoso.
Queste rime rispecchiano l’atmosfera neoplatonica rinascimentale,
in cui l’amore è la via che conduce alla Verità e la donna è la
guida.
Sempre al passo con i
tempi, fedele al suo motto, l’Accademia dei Gelati assume, nella
seconda metà del Seicento, interessi più enciclopedici, che vanno
dalla linguistica alla musica, dall’etica politica all’astronomia,
ma anche all’esoterismo e alle nascenti sensibilità massoniche. E
proprio il saggio sull’astronomia dell’accademico Geminiano
Montanari, Sulla sparizione di alcune stelle ed altre novità
celesti, attirò l’attenzione della Royal Society di Londra, che
nelle sue Philosophical Transactions del 1672 dedicò una recensione
alla pubblicazione lodando il saggio del Montanari.
Ora, come non ricordare
che la Royal Society era stata fondata da un gruppo eminente
di Freemasons, basti citare, tra gli altri, due nomi: il pastore
anglicano J. T. Desaguliers, che diventerà il primo Gran Maestro
della Massoneria speculativa inglese dopo la sua fondazione nel 1717,
e lo stesso Isaac Newton, il padre della teoria della gravitazione
universale, non solo fisico e matematico ma ermetista eminente?
Ed è in questi stessi
anni che l’Accademia dei Gelati entra in contatto con una donna per
molti versi eccezionale, che darà alla cultura esoterica del ‘600,
il secolo ermetico-rosacrociano per eccellenza – la Fama
Fraternitatis Rosae Crucis è infatti del 1652 – un sostegno
ed un impulso fondamentali: Cristina di Svezia.
La sovrana aveva abdicato
al trono nel 1654 per via della sua adesione al cattolicesimo; decise
così di lasciare la natia Svezia e di scendere in Italia,
precisamente a Roma, dove arrivò per tappe. Scrive infatti nelle
sue Memorie: “A piccole tappe io visitai Imola, Faenza, Forlì,
Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, città suddite della Santa
Sede”, ed aggiunge, evidentemente lusingata: “Non vi fu antica
divinità che non venisse a me paragonata”. A Fano, Cristina
conosce il Marchese Santinelli, noto ermetista ed autore di libri
sull’argomento, già allora fondamentali: basti pensare che una sua
ode alchemica venne ritrovata nei manoscritti esoterici di Newton
solo qualche decennio fa.
Ed ecco che, arrivata a
Bologna, nel novembre del 1655, riceve in omaggio e dedica da G. D.
Cassini, il suo studio sulla meridiana a camera oscura, ancor oggi
splendidamente in funzione all’interno della chiesa di San
Petronio. Ma perché questo interesse particolare per il giovane
astronomo che faceva, ovviamente, parte dell’Accademia dei Gelati?
In quel periodo Cristina leggeva il De Misteriis Aegyptorum di
Giamblico, e fu forse attratta dall’originale e criptata dedica che
sovrasta il frontespizio “Magnum Uraniae Tesaurum” che nasconde
l’acronimo M.U.T. Ora MUT è la Grande Dea dell’Antico Egitto
protettrice dei cieli e delle madri; una dedica fortemente
encomiastica, soprattutto perché la regina ne colse un aspetto
nascosto ai più. Quello che aveva infatti intrigato Cristina – e
che è stato ben evidenziato da Anna Maria Partini nel suo
libro Cristina di Svezia ed il suo cenacolo alchemico, citando
Giustino Languasco – è l’originalissima suddivisione spaziale
delle parole sul frontespizio, a prima vista del tutto casuale e
stranamente frammentata. Ebbene, a tracciare i contorni delle parole,
emerge chiaramente il disegno di un potente simbolo egizio: il Dijed,
che sicuramente non tutti potevano individuare dietro l’occultamento
del calligramma, e che serviva a segnalare a Cristina l’appartenenza
di G. D. Cassini alla corrente occulta e risorgente dell’antica
sapienza egizia.
Apriamo qui una breve
parentesi sulla personalità, diciamo focosa, delle regina: chi
ancora oggi guardasse le porte bronzee di Villa Medici, al Pincio,
dopo Trinità dei Monti, vedrebbe una vistosa ammaccatura. Se poi si
voltasse incontrerebbe con lo sguardo una fontana sormontata da una
palla. Ebbene, si dice, sia la stessa palla che Cristina sparò da un
cannone verso la Villa, da Castel Sant’Angelo, per vendicarsi di un
appuntamento galante mancato… con un cardinale.
Ora, tornando alla
religione degli antichi Egizi, bisogna dire che Zed (o Dijed), viene
tradotto come “stabilità”, corrispondente dell’ebraico Jachin,
che insieme a Boaz erano biblicamente i nomi delle due colonne del
tempio di Salomone, e che oggi ritroviamo in tutti i templi
latomistici. Il Dijed è la rappresentazione della spina dorsale del
dio Osiride, sposo di Iside, sovrano dell’Oltretomba. Per gli
Egizi, come per le filosofie e pratiche yoga, la spina dorsale è
sede e canale dell’energia vitale, del Prana, e simboleggia dunque
la stabilità della vita che si rinnova. Il geroglifico multicolore
che lo rappresenta somiglia a un pilastro, ma anche ad un bel cono
gelato con molte palline sovrapposte dai gusti differenti!
E qui chiudiamo allora il
cerchio tra il nostro Cornetto, o Mottarello, e le sue
ascendenze simboliche, ricordando che il Djed rappresenta anche
l’axis mundi che compare, non a caso, anche nello stemma
dell’Accademia dei Gelati. E dunque, mentre gustiamo il nostro
gelato, che si sta immancabilmente sciogliendo, simbolo della vita
che bisogna cogliere e godere nella sua immediatezza, rammentiamoci
anche che stiamo tenendo in mano l’asse del mondo, il simbolo della
nostra stessa presenza nell’infinito fluire dell’esistenza.
il manifesto/Alias- 24 agosto 2019