Le foto di Giovanni
Cocco svelano angoli di una Venezia quasi inimmaginabile dalla gran
parte dei turisti: silenziosa, privata, sempre più vuota di abitanti
e meravigliosamente autentica.
Caterina Serra
Fotografie di Giovanni
Cocco
L'altra Venezia: la
città souvenir persa nel vuoto
Guarda, l'aquila di mare
è tornata in laguna. Insieme al germano reale, l'alzavola, l'oca
lombardella, il piovanello partito dalla Siberia, la garzetta che
sembra un airone ma ha il becco nero come le zampe che finiscono
gialle. Vengono tutti a svernare a Venezia. Un flusso migratorio
gentile, un popolo aereo, che viene e va senza pretese di occupazione
né temporanea né permanente. La città alza gli occhi al cielo, con
l'aria un po' stanca, stordita dal milione di voci che la assordano,
sfinita dal conto dei passi di gente che ogni giorno gira in tondo,
si ferma, riparte, si perde. Dove sono? Chiede qualcuno con la
cartina della città in mano. Ogni tanto ci gode, a farli perdere, a
confonderli, spezzandogli davanti agli occhi la strada, improvvisando
un canale che interrompe il cammino. Ogni tanto invece offre ponti
all'altro flusso, quello che ha attraversato il mare, e allunga un
cappello a ridosso dei muri.
Ogni tanto i due flussi
si incrociano ma senza confondersi. Lo sanno tutti, Venezia richiede
elasticità, sinuosità di movimenti, e tagli netti improvvisi, come
a sparire. È questo a confondere, l'impossibilità di un procedere
lineare, omogeneo, l'insostenibilità di un pensiero che non ammette
contraddizioni. Sembra ferma, la città più intatta della storia,
con le sue gondole che ancora nessuno ha dipinto di rosa, col suo
canale di palazzi sospesi come piatti sulle asticelle di un
giocoliere, e la stessa aria magica di un castello incantato. Eppure.
Come un parco a tema da visita domenicale, Venezia apre ogni giorno
come una disneyland da visitare. Qualcuno dice che sta morendo,
qualcun altro annuncia a gran voce che la città più bella del mondo
è in vendita, che se la godono come un luna park, se la portano via
come un bel souvenir, ci passano qualche giorno per foto in pose
inchiodate a ponti che servono da belvedere.
Dicono che stia
cambiando, che si stia svuotando di chi c'era nato e vissuto, che si
stia facendo incatenare di negozi tutti uguali, a omologarla di copie
di se stessa, sotto l'estetica un po' fetish di maschere di un brutto
carnevale, dentro stanze di ori e stucchi come dark-room, un buio
della storia in cui infilarsi eccitati dall'idea stessa di non sapere
più dove si è. Dove siamo finiti? Se la comprano i più ricchi
della terra e se la affittano, non è che ci vengono a stare, le case
costano sempre di più e allora si lascia l'acqua incerta per la
terraferma. Ogni tanto qualcuno sibila che sono anche i veneziani che
se la vendono la loro amatissima città, affittacamere e venditori di
case come si vendessero l'anima, ché agli schei sono attaccati
tutti.
Ma dove sono?, nel senso
di dove mi trovo, se lo chiede il turista spaesato, e il veneziano
spaesato anche lui. Il turista che non solo si perde tra calli che
gli sembrano uguali, ma che si ritrova in una città che non sa
neanche se è quella vera, per dire storica, quell'unica al mondo
fatta così, o non sia invece una delle sue tante riproduzioni. A
fine giornata nella città-souvenir, c'è sempre qualcuno che si
domanda: a che ora chiude Venezia?, con la paura di restare dentro
mentre si spengono le luci, la giostra si ferma, il divertimento è
finito.
Cosa accade a una città
svuotata dei suoi abitanti e popolata di turisti? Cosa ne è dello
spazio pubblico? E cosa succede a quello privato se l'uso di una casa
non è più abitativo? Come se lo spazio pubblico potesse essere
rinchiuso dietro i cancelli di una biglietteria, come se vivere non
fosse abitare, aver cura di ogni bene comune, alimentare lo spirito
della città con ciò che fa parte della sua storia, della sua
identità. O come se lo spazio privato fosse lì pronto ad aprirsi al
miglior offerente, e le cose non facessero parte di noi, non
ricordassero niente a nessuno.
Anche le case ogni tanto
si chiedono, dove siamo? Se la città diventa un pittoresco spassoso
paese dei balocchi, quel pieno di voci e piedi che la affatica tanto
è un vuoto di senso, di cittadinanza, di vita reale, di vita vera,
verrebbe da dire, in cui la domanda, più storica che geografica, di
chi ci passa o ci vive, e vuole viverci ancora con amore per la
città, sarà la stessa: dove sono?
La Repubblica – 15
marzo 2017