TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 23 gennaio 2023

L'arte a Genova secondo Ricaldone

 


Un omaggio doveroso a un grande critico d'arte


1985-2020

L ARTE A GENOVA SECONDO RICALDONE


Chiunque volesse accingersi, in un futuro più o meno prossimo, a scrivere una storia dell’arte a Genova, a cavallo dei secoli XX e XXI, non potrà prescindere da un libro appena arrivato in libreria: “Da una non breve unità di tempo” (Il Canneto editore, pagine 525, 30 euro), in cui Sandro Ricaldone ha raccolto saggi, presentazioni, articoli, scritti tra il 1985 e il 2020. Ricaldone si autodefinisce un outsider della critica d’arte e ciò è probabilmente vero, se ci si riferisce alla sua assoluta autonomia di azione e di giudizio, rispetto a qualsiasi valutazione di tipo accademico e, meno che mai, di mercato. Ma la definizione non regge se si guarda invece alle dimensioni, quantitative e qualitative, del suo lavoro che non è stato solo teorico o storico ma anche di attivo operatore culturale, instancabile organizzatore di mostre, convegni, conferenze. Si potrebbe senz’altro definirlo, con una termine ormai passato di moda, un “critico militante”, che ha cioè sempre vissuto fianco a fianco agli artisti, condividendone e, a volte, sopportandone con stoicismo e altrettanta empatia, difficoltà – anche economiche – ma soprattutto eccentricità, idiosincrasie, suscettibilità e, alla fine, creatività.

Ricaldone ha scelto, deliberatamente, di non fornire al lettore un bilancio, un quadro generale, una sintesi – insomma una storicizzazione di quella “non breve unità di tempo”, pur avendone resa disponibile la preziosissima materia prima – ritenendoli, forse, prematuri se non addirittura inutili o “impossibili”. Ma se l’autore si sottrae alle tassonomie e alle definizioni, al lettore (se per giunta è dotato di tutti i difetti del giornalista) non è vietato cercare nel libro qualche “filo conduttore”, assonanze, sintonie, quelle che Baudelaire avrebbe chiamato “corrispondenze”, del cuore e della mente, naturalmente del tutto arbitrarie e personali.

Dopo la fine della stagione delle neo-avanguardie “collettivistiche”, nazionali e internazionali, che avevano dominato gli anni Sessanta e Settanta – a cui Ricaldone ha dedicato un precedente volume “L’avant-garde se rend pas”, sempre edito dal Canneto – negli anni successivi, a causa della “condizione postmoderna”, descritta e teorizzata da Lyotard o dai filosofi italiani del “Pensiero debole” (detto grosso modo: crisi delle Grandi Narrazioni: cristianesimo, comunismo, socialdemocrazia, liberalismo classico. Tutto è già stato detto e scritto, restano solo degli epigoni, destinati a “rifare” il già visto), prevale l’individualismo. In questo Zeitgeist, strettamente legato a un contesto economico-politico, governato dall’ideologia neo-liberista: “la società non esiste” proclamava nel 1987 Margaret Thatcher (in realtà le cosiddette Narrazioni erano tutt’altro che finite, avevano soltanto cambiato volto) tendono, inevitabilmente, a imporsi nuove forme di narcisismo, nella vita quotidiana, nel sociale e anche nella cultura e nell’arte. Lo dimostra, per fare un solo esempio, l’evoluzione delle Biennali di Venezia che diventano prima vetrina delle diverse “visioni del mondo” dei curatori e poi si concentrano su un tema culturale, più o meno vago e interessante, sul quale si fanno convergere lunghe teorie di artisti.

A smentita, almeno apparente, di quanto affermato sopra, a proposito del prevalere dell’individualità, il libro di Ricaldone si apre con un testo del 1985 dal titolo “Spazio Paradigma” una sorta di manifesto, redatto da Ricaldone, ma frutto del lavoro collettivo di un gruppo di artisti (evidentemente l’onda lunga degli anni Settanta si faceva ancora sentire, anche perché tutti i protagonisti di quel momento l’avevano vissuta): Claudio Costa, Luisella Carretta, Pier Giorgio Colombara, Arnaldo Esposto, Carlo Merello, Rodolfo Vitone.

Il gruppo aveva l’obiettivo, molto pragmatico, di riutilizzare una serie di spazi nell’ex ospedale ptrico di Quarto a Genova, aperto al mondo esterno dopo la riforma Basaglia e diretto da uno psichiatra umanista come Antonio Slavich, per dedicarli ad attività artistiche, atelier e spazi espositivi, in stretto contatto con i molti pazienti all’epoca ancora presenti negli edifici ottocenteschi. Da lì nacque, grazie principalmente a Costa, l’Istituto per le materie e le forme inconsapevoli e il relativo museo di Art Brut, pienamente attivi ancora oggi. Questo luogo rappresenta, simbolicamente ma non solo, uno dei più robusti fili che tengono unita questa lunga storia, ancora tutta da scrivere.

Per i successivi dieci anni, sino alla prematura scomparsa, nel 1995 a soli 53 anni, Claudio Costa ha rappresentato un punto di riferimento per tutta l’arte genovese. In lui infatti convergono e si irradiano alcuni di quei fil rouge che stiamo tentando di identificare. In primo luogo l’antropologia, nel senso di un’arte “culturale”, concetto sul quale cercheremo di tornare dopo. Costa non è solo un artista ma un intellettuale, ricercatore, saggista, poeta, romanziere – autore di uno straordinario romanzo rimasto sfortunatamente inedito – un organizzatore capace di connettere le persone come pochi altri, anche grazie a una straordinaria energia; in lui si può ben dire che arte e vita coincidessero. A Costa può anche essere fatta risalire un’altra “linea”, a nostro modesto avviso, fondamentale dell’arte genovese, quella malinconica, una sorta di “linea d’ombra”, dal titolo conradiano di una mostra curata da Ricaldone alla galleria Entr’acte.

Su questa linea – che potrebbe anche essere ripercorsa a ritroso fra gli artisti delle precedenti generazioni, basti citare Giannetto Fieschi (1921-2010) – si possono collocare i nomi, oltre che di Costa, di Roberto Anfossi, Nicola Bucci, Enzo Carioti, Piergiorgio Colombara, Beppe Dellepiane, Giancarlo Gelsomino, Stefano Grondona, Giuliano Menegon, Carlo Merello, Rolando Mignani, Piero Millefiore, Piero Terrone e anche chi scrive. La mostra aveva come epigrafe una citazione del filosofo Mario Perniola (1941-2018) che recita: “Oggi più che mai l’arte lascia dietro di sé un’ombra, una sagoma meno luminosa in cui si ritrae quanto di inquietante e di enigmatico le appartiene. Quanto più violenta è la luce con cui si pretende di investire l’opera e l’operazione artistica, tanto più nitida è l’ombra che esse proiettano; quanto più diurno e banalizzante è l’approccio all’esperienza artistica, tanto più l’essenziale di essa si ritrae e si protegge nell’ombra”.

Di quell’ombra Beppe Dellepiane (1937- 2019) ha sperimentato ogni recesso nella temperie degli anni Settanta, stagione d’oro della performance, conservando sempre un’intima coerenza, aliena da ogni contaminazione con le mode culturali; proprio per questo la sua ricerca sui temi del corpo, della malattia e del sacro e mantiene una vibrante attualità. A dispetto della sua riservatezza Dellepiane può quindi essere considerato, a tutti gli effetti, un maestro. Sul fronte della performance la stessa coerenza e solidità espressiva si deve ascrivere ad Angelo Pretolani e Roberto Rossini. Aurelio Caminati (1924-2012) dopo una consolidata carriera di pittore, iniziata nel dopoguerra, decise di svilupparla in chiave performativa, con le sue “trascrizioni”, in forma di sacra rappresentazione, di grandi capolavori dell’arte antica; anche lui collaborò con Costa in una delle esperienze più originali di questa stagione: il Museo antropologico di Monteghirfo.

Ancora la malinconia, sconfinata a un certo punto in un tragico accesso, ha invece caratterizzato l’opera di Stefano Grondona (1952-2019), uno dei più straordinari artisti della sua generazione.

Il postmoderno aveva portato anche con sé un ritorno alla pittura (caso emblematico la Transavanguardia) che poteva effettivamente caratterizzarsi come un “rappel a l’ordre” (non privo di finalità squisitamente commerciali) ma anche come una ritrovata libertà stilistica, dopo gli “eccessi” ideologici degli aanni Setttanta, come nel caso di Roberto Agus, pittore e musicista, Antonio Porcelli, Andrea Crosa.

Nel gruppo dello Spazio Paradigma era presente anche Rodolfo Vitone, (1927-2019), artista attivo dalla fine degli anni Cinquanta (fu anche il primo editore nella rivista Marcatrè) nell’ambito della poesia visiva. Una corrente fondamentale dell’arte novecentesca, che ebbe a Genova una della sue capitali con artisti come Corrado D’Ottavi, Luigi Tola, Miles e in particolare Anna Oberto (femminista, il suo lavoro di evolverà poi in chiave performativa) e Martino Oberto (1925-2011), attenti lettori di Wittgenstein, che alla metà degli anni Cinquanta, con la rivista Ana Eccetera, anticiparono il Concettuale. La vocazione filosofica della Scrittura Visuale genovese fu poi sviluppata da Rolando Mignani (1937-2006), attento lettore di Derrida.

Il Concettuale (insieme, e contro, l’Arte Povera, nata proprio a Genova), nel senso di una ben codificata corrente artistica, aveva monopolizzato, pur con tutte le sue evidenti aporie, il dibattito degli anni Sessanta e Settanta, ma negli Ottanta cominciava a declinare, anche se il concettuale con la c minuscola, nel senso della consapevolezza dell’arte rispetto ai propri linguaggi, ha pervaso tutta la cultura del Novecento. In una direzione post-concettuale e neo-performativa è andato invece il lavoro di due artisti come Cesare Viel e Luca Vitone.

Questa mia sommaria (e partigiana) ricostruzione dice, come è ovvio, molte meno cose di quante se ne trovano nelle oltre 500 pagine del libro, ma è fondata su una consapevolezza che prima sintetizzavo nella definizione di “arte culturale”, un sintagma paradossalmente ossimorico ma che vuole semplicemente evidenziare come l’arte genovese non si sia mai concentrata solo sull’opera, come in fondo il mercato richiede anche nelle più recenti evoluzioni tecnologiche (vedi Nft), ma ha sempre preferito occuparsi della vita, anzi – meglio – delle forme di vita; questo le ha permesso, pur nella sua posizione defilata e apparentemente provinciale, di intercettare quanto di più significativo avveniva nel mondo. Probabilmente il mondo non se ne è accorto, ma questo è un altro problema.

Giuliano Galletta

Good Morning Genova

20 gennaio 2023

Nella foto Sandro Ricaldone a Casa Anatta, Monte Verità, Ascona.