martedì 31 gennaio 2023

Quando eravamo soldati

Bobo Pernettaz alla Fiera di S.Orso 2023


Quando eravamo soldati


Arrivai ad Aosta dopo il Silenzio che la caserma dormiva già.

Non sapevano dove mettermi e così passai la notte in una delle celle adiacenti al corpo di guardia.

La Testafochi era una caserma dura, ma non un brutto posto. Il posto adatto per incontrare persone interessanti. A parte i valdôtaines, ospitava politici di estrema sinistra e marginali con precedenti penali. Tutti insieme per poterci controllare meglio.

Dopo qualche settimana, mi assegnarono alla compagnia Comando. Come in tutte le caserme d'Italia avevano bisogno di gente che sapesse fare il lavoro dei sottufficiali e anche gli estremisti andavano bene. Sempre meglio dei firmaioli che si erano arruolati perché “meglio le stellette che lavorare”.

Mi trovai così catapultato in una specie di intergruppi, in una camerata piena di compagni di Lotta continua, Avanguardia operaia e gruppi vari, assegnati a uffici, magazzini e persino armerie, come Bobo Pernettaz.

Lo notai già la prima sera. All'ora della libera uscita, un gigante si catapultò dal locale docce, nudo come un bimbo appena nato, saltellando al ritmo di una canzoncina di cui ricordo ancora il ritornello celebrativo della serata che l'attendeva: “fuori dalla Testafochi per chiavare come pochi”.

Era Bobo.

Fu subito amicizia vera.

Era il 1973.

Oggi, abbiamo tutti e due la barba bianca e un po' di esperienza in più.

Ma lo sguardo di Bobo è rimasto lo stesso come il pizzico di allegra follia che lo rende l'artista e il poeta che è.

Un abbraccio, Bobo.

lunedì 30 gennaio 2023

Ucraina anno zero


 

mercoledì 25 gennaio 2023

Giornata della Memoria. Quattro riflessioni

 

Scritta sul muro della sala delle docce di Mauthausen










27 febbraio 2023 – Giornata della Memoria

Giorgio Amico 

Quattro riflessioni su Memoria, storia e guerra


Prima riflessione: Memoria o ricordo?

Memoria e ricordo sono in genere considerati termini indicanti la stessa cosa. In realtà, ad una riflessione più attenta, i due vocaboli esprimono concetti profondamente diversi. Mentre il ricordo è fenomeno individuale, carico di emotività e filtrato dall'esperienza concreta del singolo individuo, la Memoria, e il maiuscolo è voluto, è realtà collettiva, fattore identitario e base del tessuto connettivo di una comunità.

Lo capirono per primi i Greci che della Memoria (Mnemosine) fecero una dea, figlia di Urano il Cielo) e di Gea (la Terra), che unendosi con Zeus generò le nove muse, cioè diede vita alla cultura e alle arti.

Secondo Diodoro Siculo è grazie a essa che gli uomini sono in grado di elaborare concetti e dunque di poter comunicare fra loro. Solo grazie alla Memoria, infatti, esiste un passato e dunque le premesse di un futuro e l'uomo non è costretto a vivere in un eterno presente, ripetendo sempre gli stessi errori. È la Memoria, dunque a rendere gli uomini pienamente uomini, capaci di scelte e in questo simili agli Dei.

È la Memoria a distinguere i viventi dai morti. Ce lo dice Omero nel decimo canto dell'Odissea. I defunti hanno perso ogni consapevolezza del passato, “sono ombre che vagano” nell'oscurità dell'Ade.

E su questo concetto che i Greci inventarono la Tragedia, non semplice spettacolo, ma rito collettivo, cerimonia sacra destinata a mantenere vivi i miti alla base della fondazione della polis e in questo modo a rinsaldare periodicamente i legami che tenevano uniti i cittadini e che li facevano sentire membri di una comunità coesa e vivente.

Oggi che la polis ha dimensioni globali e che il pensiero dominante è totalmente concentrato sul presente e sullo spettacolo del consumo, solo la Memoria può renderci uomini e non ombre vaganti nell'oscurità, esseri pensanti, capaci di scelte e dunque “simili agli Dei”.

La Memoria oggi è rappresentata dal ricordo delle vittime della Shoah nella speranza che questo eviti che nuovamente l'umanità precipiti in un tale abisso di orrori. Il confrontarsi con la Shoah e in particolare sull'atteggiamento tenuto verso di essa e non solo dai Tedeschi, con la sua incidenza nella storia del Novecento e su come essa cambiò in profondità il modo di guardare alla storia, ci pone però di fronte a due interrogativi: esistono spettatori innocenti delle atrocità della storia? Si può ancora parlare di un senso della storia?

Seconda riflessione: esistono spettatori innocenti delle atrocità della storia?

“Se non ora, quando?”, così Primo Levi titola nel 1982 un suo fortunato romanzo, vincitore fra l'altro del Premio Campiello, in cui ricostruisce la lotta partigiana degli ebrei polacchi e russi contro l'invasore nazista.

Un titolo suggestivo, una frase di grande impatto, che Levi non crea dal nulla, ma riprende da uno dei principali esponenti della mistica ebraica, quel rabbino Hillel, vissuto qualche decennio prima di Cristo, che, interrogato sul significato profondo della Torah (i primi cinque libri della Bibbia e in senso più generale la Legge ebraica), rispose:

“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Se non noi, chi? Se non ora, quando? Tutto il resto è commento”.

Dunque, ci ricorda Levi, è sempre di noi e di ora che si scrive e si parla. La storia non è uno spettacolo a cui comodamente assistere. Non ci sono semplici spettatori e non è possibile tirarsene fuori a volontà. Ogni avvenimento, passato o presente, ci interpella tutti. Anche chi si ritiene estraneo a ciò che accade e che conseguentemente sceglie di non agire, è direttamente responsabile. Non esiste neutralità possibile. Come nell'invettiva rivolta agli indifferenti nella Canzone del Maggio di Fabrizio De Andrè, la storia è una continua chiamata in causa che non prevede l'esistenza di innocenti.

Terza riflessione: esiste un senso della storia?

L'idea che la storia abbia un senso, una direzione precisa sostanzia l'intero percorso della cultura occidentale. E' una visione tutta interna all'idea della storia come progresso. È il grande mito giudaico-cristiano della Provvidenza divina che opera nella e tramite la storia degli uomini che con l'illuminismo si fa laico e diventa religione civile incentrata sull'idea di Progresso. Quelle “magnifiche sorti e progressive” su cui già nel 1836 Giacomo Leopardi esprimeva profeticamente il suo scetticismo.

Una visione ottimistica che il Novecento, il secolo di Auschwitz e Hiroshima, ha fatto a pezzi. Il Dio che è morto della canzone di Francesco Guccini. Più lucido di tutti, un filosofo ebreo tedesco, morto suicida in Francia nel 1940 per non cadere nelle mani della Gestapo, Walter Benjamin, nelle sue tesi sul concetto di storia, scritte negli ultimi mesi di vita, annota:

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

E' un'immagine terribile. Bellissima e folgorante. Impossibile da dimenticare. Ed in effetti, anche ad una veloce lettura il secolo scorso ci appare come un enorme accumulo di rovine che rimandano alle tante macerie di oggi. Un gioco di specchi che conferma l'intuizione di Benjamin e la sua ferma convinzione che ogni accumulo di civiltà nasconda un parallelo ed eguale accumulo di barbarie.

Lo aveva già intuito alcuni decenni prima Joseph Conrad con il suo romanzo Cuore di tenebra, denuncia delle pulsioni di morte di un Occidente che, giusto un anno dopo, nel 1900, avrebbe celebrato a Parigi con una grande Esposizione Universale e un'Olimpiade l'inizio del secolo del progresso e della luce.

Lo aveva dichiarato con coraggio nel 1916 Rosa Luxemburg, opponendosi con tutte le sue forze di donna e di socialista alla guerra che stava travolgendo l'Europa e che incubava i germi del totalitarismo

: “se il periodo, ora appena iniziato delle guerre mondiali, dovesse continuare il suo corso fino alle estreme conseguenze, sarà il regresso nelle barbarie, la fine della civiltà”

15 milioni di morti, un terzo civili - a cui va aggiunto il numero incalcolabile delle vittime dell'epidemia di spagnola, della guerra civile e della carestia in Russia, del genocidio degli armeni in Turchia – è il prezzo della prima guerra mondiale.

Nulla in confronto ai 55 milioni di morti, due terzi dei quali civili, della seconda guerra mondiale. Per non parlare poi delle cento e più guerre che da allora hanno continuato a insanguinare il mondo fino ad arrivare alla tragedia dell'Ucraina.

“Il XX secolo – citiamo Enzo Traverso, fra i più importanti storici contemporanei – tuttavia, non ha soltanto rivelato le illusioni dello storicismo e illustrato il naufragio dell'idea di Progresso; ha anche generato l'eclissi delle utopie inscritte nelle esperienze rivoluzionarie. Come l'Angelo della nona tesi di Benjamin, Auschwitz ci costringe a guardare la storia come un campo di rovine, mentre il gulag ci impedisce ogni illusione e ingenuità di fronte alle interruzioni messianiche del tempo storico”.

Quarta riflessione a modo di conclusione: la guerra come guerra civile

In un'epoca di grandi sconvolgimenti e di sanguinosi conflitti religiosi, un poeta inglese contemporaneo di Shakespeare seppe in un pugno di versi descrivere bene la tragedia interiore dell'uomo moderno in un mondo squassato da un vento tempestoso di cui non si conosce la direzione.

Scrive John Donne:

Nessun uomo è un'Isola,

intero in se stesso.
Ogni morte d'uomo mi diminuisce,
perché io partecipo dell'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.

Versi, ripresi nel 1940 da un altro grande scrittore, Ernest Hemingway, alla ricerca di un titolo che sintetizzasse bene il significato profondo del suo grande romanzo sulla guerra civile spagnola.

Nel 1947, in un'Italia ancora profondamente segnata dalla guerra civile e da odi tanto profondi da durare fino ad oggi, Cesare Pavese riflette su quei fatti nel libro La casa in collina e scrive:

“Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.

Proprio in questo rendere ragione consiste il senso non politico, ma morale della Memoria.

Ma la Memoria da sola basta o è solo un primo passo? E qui entra in campo la politica, intesa, sia ben chiaro, come la intendevano gli antichi Greci che ne furono gli inventori, scelta non egoista di cittadinanza, partecipazione consapevole e attiva alla vita collettiva avente come scopo il bene comune.

Nel Talmud è scritto, lo ricorda la chiusura del film Schindler's List, il capolavoro di Steven Spielberg, “chi salva una vita, salva il mondo intero”. Parole che ci ricordano che l'impegno personale, il coraggio di prendere posizione, qui e ora, rappresentano l'unica risposta possibile agli orrori di un mondo che non permette evasioni. “Basta che esista un solo giusto, perché il mondo meriti di essere stato creato” ci dice ancora il Talmud. E di più in effetti non è possibile dire.

25 gennaio 2023



lunedì 23 gennaio 2023

L'arte a Genova secondo Ricaldone

 


Un omaggio doveroso a un grande critico d'arte


1985-2020

L ARTE A GENOVA SECONDO RICALDONE


Chiunque volesse accingersi, in un futuro più o meno prossimo, a scrivere una storia dell’arte a Genova, a cavallo dei secoli XX e XXI, non potrà prescindere da un libro appena arrivato in libreria: “Da una non breve unità di tempo” (Il Canneto editore, pagine 525, 30 euro), in cui Sandro Ricaldone ha raccolto saggi, presentazioni, articoli, scritti tra il 1985 e il 2020. Ricaldone si autodefinisce un outsider della critica d’arte e ciò è probabilmente vero, se ci si riferisce alla sua assoluta autonomia di azione e di giudizio, rispetto a qualsiasi valutazione di tipo accademico e, meno che mai, di mercato. Ma la definizione non regge se si guarda invece alle dimensioni, quantitative e qualitative, del suo lavoro che non è stato solo teorico o storico ma anche di attivo operatore culturale, instancabile organizzatore di mostre, convegni, conferenze. Si potrebbe senz’altro definirlo, con una termine ormai passato di moda, un “critico militante”, che ha cioè sempre vissuto fianco a fianco agli artisti, condividendone e, a volte, sopportandone con stoicismo e altrettanta empatia, difficoltà – anche economiche – ma soprattutto eccentricità, idiosincrasie, suscettibilità e, alla fine, creatività.

Ricaldone ha scelto, deliberatamente, di non fornire al lettore un bilancio, un quadro generale, una sintesi – insomma una storicizzazione di quella “non breve unità di tempo”, pur avendone resa disponibile la preziosissima materia prima – ritenendoli, forse, prematuri se non addirittura inutili o “impossibili”. Ma se l’autore si sottrae alle tassonomie e alle definizioni, al lettore (se per giunta è dotato di tutti i difetti del giornalista) non è vietato cercare nel libro qualche “filo conduttore”, assonanze, sintonie, quelle che Baudelaire avrebbe chiamato “corrispondenze”, del cuore e della mente, naturalmente del tutto arbitrarie e personali.

Dopo la fine della stagione delle neo-avanguardie “collettivistiche”, nazionali e internazionali, che avevano dominato gli anni Sessanta e Settanta – a cui Ricaldone ha dedicato un precedente volume “L’avant-garde se rend pas”, sempre edito dal Canneto – negli anni successivi, a causa della “condizione postmoderna”, descritta e teorizzata da Lyotard o dai filosofi italiani del “Pensiero debole” (detto grosso modo: crisi delle Grandi Narrazioni: cristianesimo, comunismo, socialdemocrazia, liberalismo classico. Tutto è già stato detto e scritto, restano solo degli epigoni, destinati a “rifare” il già visto), prevale l’individualismo. In questo Zeitgeist, strettamente legato a un contesto economico-politico, governato dall’ideologia neo-liberista: “la società non esiste” proclamava nel 1987 Margaret Thatcher (in realtà le cosiddette Narrazioni erano tutt’altro che finite, avevano soltanto cambiato volto) tendono, inevitabilmente, a imporsi nuove forme di narcisismo, nella vita quotidiana, nel sociale e anche nella cultura e nell’arte. Lo dimostra, per fare un solo esempio, l’evoluzione delle Biennali di Venezia che diventano prima vetrina delle diverse “visioni del mondo” dei curatori e poi si concentrano su un tema culturale, più o meno vago e interessante, sul quale si fanno convergere lunghe teorie di artisti.

A smentita, almeno apparente, di quanto affermato sopra, a proposito del prevalere dell’individualità, il libro di Ricaldone si apre con un testo del 1985 dal titolo “Spazio Paradigma” una sorta di manifesto, redatto da Ricaldone, ma frutto del lavoro collettivo di un gruppo di artisti (evidentemente l’onda lunga degli anni Settanta si faceva ancora sentire, anche perché tutti i protagonisti di quel momento l’avevano vissuta): Claudio Costa, Luisella Carretta, Pier Giorgio Colombara, Arnaldo Esposto, Carlo Merello, Rodolfo Vitone.

Il gruppo aveva l’obiettivo, molto pragmatico, di riutilizzare una serie di spazi nell’ex ospedale ptrico di Quarto a Genova, aperto al mondo esterno dopo la riforma Basaglia e diretto da uno psichiatra umanista come Antonio Slavich, per dedicarli ad attività artistiche, atelier e spazi espositivi, in stretto contatto con i molti pazienti all’epoca ancora presenti negli edifici ottocenteschi. Da lì nacque, grazie principalmente a Costa, l’Istituto per le materie e le forme inconsapevoli e il relativo museo di Art Brut, pienamente attivi ancora oggi. Questo luogo rappresenta, simbolicamente ma non solo, uno dei più robusti fili che tengono unita questa lunga storia, ancora tutta da scrivere.

Per i successivi dieci anni, sino alla prematura scomparsa, nel 1995 a soli 53 anni, Claudio Costa ha rappresentato un punto di riferimento per tutta l’arte genovese. In lui infatti convergono e si irradiano alcuni di quei fil rouge che stiamo tentando di identificare. In primo luogo l’antropologia, nel senso di un’arte “culturale”, concetto sul quale cercheremo di tornare dopo. Costa non è solo un artista ma un intellettuale, ricercatore, saggista, poeta, romanziere – autore di uno straordinario romanzo rimasto sfortunatamente inedito – un organizzatore capace di connettere le persone come pochi altri, anche grazie a una straordinaria energia; in lui si può ben dire che arte e vita coincidessero. A Costa può anche essere fatta risalire un’altra “linea”, a nostro modesto avviso, fondamentale dell’arte genovese, quella malinconica, una sorta di “linea d’ombra”, dal titolo conradiano di una mostra curata da Ricaldone alla galleria Entr’acte.

Su questa linea – che potrebbe anche essere ripercorsa a ritroso fra gli artisti delle precedenti generazioni, basti citare Giannetto Fieschi (1921-2010) – si possono collocare i nomi, oltre che di Costa, di Roberto Anfossi, Nicola Bucci, Enzo Carioti, Piergiorgio Colombara, Beppe Dellepiane, Giancarlo Gelsomino, Stefano Grondona, Giuliano Menegon, Carlo Merello, Rolando Mignani, Piero Millefiore, Piero Terrone e anche chi scrive. La mostra aveva come epigrafe una citazione del filosofo Mario Perniola (1941-2018) che recita: “Oggi più che mai l’arte lascia dietro di sé un’ombra, una sagoma meno luminosa in cui si ritrae quanto di inquietante e di enigmatico le appartiene. Quanto più violenta è la luce con cui si pretende di investire l’opera e l’operazione artistica, tanto più nitida è l’ombra che esse proiettano; quanto più diurno e banalizzante è l’approccio all’esperienza artistica, tanto più l’essenziale di essa si ritrae e si protegge nell’ombra”.

Di quell’ombra Beppe Dellepiane (1937- 2019) ha sperimentato ogni recesso nella temperie degli anni Settanta, stagione d’oro della performance, conservando sempre un’intima coerenza, aliena da ogni contaminazione con le mode culturali; proprio per questo la sua ricerca sui temi del corpo, della malattia e del sacro e mantiene una vibrante attualità. A dispetto della sua riservatezza Dellepiane può quindi essere considerato, a tutti gli effetti, un maestro. Sul fronte della performance la stessa coerenza e solidità espressiva si deve ascrivere ad Angelo Pretolani e Roberto Rossini. Aurelio Caminati (1924-2012) dopo una consolidata carriera di pittore, iniziata nel dopoguerra, decise di svilupparla in chiave performativa, con le sue “trascrizioni”, in forma di sacra rappresentazione, di grandi capolavori dell’arte antica; anche lui collaborò con Costa in una delle esperienze più originali di questa stagione: il Museo antropologico di Monteghirfo.

Ancora la malinconia, sconfinata a un certo punto in un tragico accesso, ha invece caratterizzato l’opera di Stefano Grondona (1952-2019), uno dei più straordinari artisti della sua generazione.

Il postmoderno aveva portato anche con sé un ritorno alla pittura (caso emblematico la Transavanguardia) che poteva effettivamente caratterizzarsi come un “rappel a l’ordre” (non privo di finalità squisitamente commerciali) ma anche come una ritrovata libertà stilistica, dopo gli “eccessi” ideologici degli aanni Setttanta, come nel caso di Roberto Agus, pittore e musicista, Antonio Porcelli, Andrea Crosa.

Nel gruppo dello Spazio Paradigma era presente anche Rodolfo Vitone, (1927-2019), artista attivo dalla fine degli anni Cinquanta (fu anche il primo editore nella rivista Marcatrè) nell’ambito della poesia visiva. Una corrente fondamentale dell’arte novecentesca, che ebbe a Genova una della sue capitali con artisti come Corrado D’Ottavi, Luigi Tola, Miles e in particolare Anna Oberto (femminista, il suo lavoro di evolverà poi in chiave performativa) e Martino Oberto (1925-2011), attenti lettori di Wittgenstein, che alla metà degli anni Cinquanta, con la rivista Ana Eccetera, anticiparono il Concettuale. La vocazione filosofica della Scrittura Visuale genovese fu poi sviluppata da Rolando Mignani (1937-2006), attento lettore di Derrida.

Il Concettuale (insieme, e contro, l’Arte Povera, nata proprio a Genova), nel senso di una ben codificata corrente artistica, aveva monopolizzato, pur con tutte le sue evidenti aporie, il dibattito degli anni Sessanta e Settanta, ma negli Ottanta cominciava a declinare, anche se il concettuale con la c minuscola, nel senso della consapevolezza dell’arte rispetto ai propri linguaggi, ha pervaso tutta la cultura del Novecento. In una direzione post-concettuale e neo-performativa è andato invece il lavoro di due artisti come Cesare Viel e Luca Vitone.

Questa mia sommaria (e partigiana) ricostruzione dice, come è ovvio, molte meno cose di quante se ne trovano nelle oltre 500 pagine del libro, ma è fondata su una consapevolezza che prima sintetizzavo nella definizione di “arte culturale”, un sintagma paradossalmente ossimorico ma che vuole semplicemente evidenziare come l’arte genovese non si sia mai concentrata solo sull’opera, come in fondo il mercato richiede anche nelle più recenti evoluzioni tecnologiche (vedi Nft), ma ha sempre preferito occuparsi della vita, anzi – meglio – delle forme di vita; questo le ha permesso, pur nella sua posizione defilata e apparentemente provinciale, di intercettare quanto di più significativo avveniva nel mondo. Probabilmente il mondo non se ne è accorto, ma questo è un altro problema.

Giuliano Galletta

Good Morning Genova

20 gennaio 2023

Nella foto Sandro Ricaldone a Casa Anatta, Monte Verità, Ascona.



lunedì 16 gennaio 2023

Mirella Bentivoglio (groviglIO) e a Mario Diacono (writhings)



Nel pomeriggio di martedì 17 gennaio 2023 vengono presentati alla Biblioteca Universitaria di Genova due nuovi video-documenti che fanno parte della serie Incontri sul verbovisuale, di Riccardo Boglione e Georgina Torello. Così, dopo quelli dedicati a Ugo Carrega (2015) e Arrigo Lora Totino (2020), verranno proiettati i fiammanti Mario Diacono’s Writhings e Mirella Bentivoglio: groviglIO.

Nel primo caso – première assoluta – il poeta, critico e gallerista romano radicato negli Stati Uniti spiega, fra le altre cose, il percorso che lo ha fatto approdare ai suoi tipici “objtexts”, e illustra i rapporti avuti con importanti artisti e scrittori del 900.

Nel caso di Bentivoglio il video – incluso nella retrospettiva Quanto Bentivoglio? in corso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma – non solo getta luce sulla sua poliedrica vicenda artistica, ad esempio attraverso l’analisi della celebre Storia di un monumento, ma rivela anche aspetti curiosi della sua parabola come critica.


L' Ucraina e la crisi della sinistra italiana

 


Riprendiamo larghi estratti dell'intervento di Fabrizio Burattini da cui emerge come gran parte della sinistra italiana si dimostri da quasi un anno totalmente incapace di assumere una posizione chiara sulla guerra in Ucraina, o nascondendosi dietro slogan vuoti di contenuti concreti o simpatizzando apertamente per Putin e rendendosi in tal modo complice dei suoi crimini.


L'Ucraina e la crisi della sinistra italiana

di Fabrizio Burattini


L’invasione e la distruzione dell’Ucraina da parte degli eserciti della Federazione russa continua da quasi un anno.

Certo, com’è noto, di guerre, devastazioni, efferatezze, stragi è punteggiata tutta la storia del capitalismo. La “pace mondiale” stipulata subito dopo la sconfitta del nazifascismo non si è certo trasformata in quella pace predicata nella “carta delle Nazioni unite”, che si impegnavano a “mantenere la pace e la sicurezza internazionale, prendendo efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace” (dall’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite del 1945).

Inoltre, lo sappiamo, oggi, in questa fase, il mondo è investito da una raffica di crisi, da quella economica a quella ambientale, da quella alimentare a quella delle migrazioni… Dunque, laddove ci si volti, i motivi per la mobilitazione delle/degli anticapitaliste/i si moltiplicano, mentre le forze da impegnare in quelle mobilitazioni si fanno sempre più scarse. Ma queste constatazioni, direi ovvie, non tolgono nulla alla natura sconvolgente di quella guerra. Invece, buona parte della sinistra italiana ha sostanzialmente banalizzato quella guerra, come a dire che, essendo una delle tante, sarebbe inutile prenderla di petto e si è concentrata non tanto sulle sofferenze delle popolazioni direttamente coinvolte, ma piuttosto sulle conseguenze che la guerra comporterebbe sulle classi popolari italiane.

La sinistra italiana (seppure con diverse sfumature, ma sostanzialmente con un comportamento largamente convergente) ha scelto, al contrario, di ignorare l’occasione cruciale di intervento e di iniziativa antiguerra che la vicenda ucraina costituiva, ha scelto di non mettersi in sintonia con l’ondata emotiva che la criminale iniziativa di Putin ha innescato nelle opinioni pubbliche dei paesi dell’Europa occidentale, e in particolare in quella italiana, altrimenti colpevolmente sorda anche alle più indicibili sofferenze umane quando queste si verificano lontano dalla sua comfort zone. Anzi, ha scelto di contrapporsi a quell’ondata emotiva, indicandola come frutto subalterno della propaganda dell’imperialismo occidentale. E ha scelto di privilegiare la ricerca di una ipotetica sintonia con il “pacifismo dei bottegai”, di quelli che guardano con ostilità alla resistenza ucraina, avversano le sanzioni, tifano sordamente (a volte perfino esplicitamente) per la “vittoria del più forte”, perché tutto ciò che comportano la resistenza e le sanzioni mette in discussione i loro miserevoli affari.

Nel corteggiare questa presunta “maggioranza pacifista degli italiani”, non a caso, la sinistra si è trovata in una non onorevole e non pagante concorrenza diretta con Berlusconi e con Salvini.

Un atteggiamento radicalmente diverso poteva diventare uno strumento per far riflettere le persone sul proprio egoismo, per sollecitare un moto di sdegno verso Putin e di solidarietà verso le ucraine e gli ucraini, e contemporaneamente per indicare quelle sofferenze come un esempio dello strazio di tutti gli altri popoli che soffrono in situazioni di guerra o di oppressione da parte di potenze straniere.

Da grandissima parte di quella che, chissà perché, continua ad essere considerata la “sinistra radicale” italiana, la guerra di invasione della Russia in Ucraina è stata colta come occasione per parlare d’altro, evitando accuratamente ogni cenno significativo a quello che in Ucraina accadeva e accade.

Considero questa innegabile realtà uno dei principali indicatori della crisi terminale di quella che fu la “sinistra italiana”, un segnale di perdita di ogni vero orientamento internazionalista e, in fin dei conti, di gravissimo appannamento della sua capacità di comprendere il mondo.

La prima qualità che dovrebbe differenziare una donna o un uomo di sinistra da donne e uomini di destra è la capacità di empatia con il resto delle classi popolari, qualunque sia il colore della loro pelle, la loro religione, il loro luogo di vita. L’ “empatia”, termine che si è diffuso nella cultura verso la fine del Novecento, viene così definita dal dizionario: “capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Più in particolare, il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione”. In parole povere, la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”. Senza scomodare il vocabolario e con la forza comunicativa che il personaggio aveva, il Che Guevara, in una nota lettera ai figli, scrisse: “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. È la qualità più bella di un buon rivoluzionario”.

Occorre riconoscere che le ingiustizie commesse contro il popolo ucraino in questo anno di guerra non sono state “sentite nel profondo” dalla sinistra italiana, anzi non sono state sentite neanche superficialmente, una sinistra che ha preferito privilegiare e “sentire” le “sofferenze” dell’oligarchia russa, descritta più o meno a ragione come gravemente minacciata dall’imperialismo statunitense (e dai suoi alleati europei), in qualche misura giustificandone la reazione sulla pelle del popolo ucraino.

La “sinistra” ha osato sfilare nelle, ahimè, pochissime occasioni di mobilitazione sulla questione, centrando le proprie parole d’ordine sul disarmo della resistenza ucraina e sulla fine delle sanzioni alla Russia. Dunque una sinistra italiana che è stata giustamente percepita dal popolo ucraino come supporter dell’aggressione russa, dei suoi bombardamenti, dei suoi massacri, dell’attuale ricatto del freddo (attraverso il bombardamento sistematico delle centrali elettriche), ecc.

Una “sinistra” che si è distinta per aver avallato, accettato e fatte proprie le motivazioni (peraltro cangianti a seconda delle differenti convenienze militari e politiche) strumentalmente accampate dalla leadership della Federazione russa.

(...)

Molti a “sinistra” hanno accolto con soddisfazione la sequela delle menzogne russe, comprese quelle più cinicamente aberranti, come l’insinuazione che i morti di Bucha fossero figuranti stipendiati dalla propaganda ucraina.

Gli “argomenti” di Putin, la loro assurdità e il loro carattere volgarmente strumentale non meriterebbero di essere puntualmente smascherati nell’ambito di una sinistra che pretendendosi “antimperialista” dovrebbe diffidare per principio di quel che viene dal governo di una potenza imperialista, come diffidiamo per principio di quel che viene dalle centrali imperialiste nostrane.

La poca serietà e la incapacità di analisi di questa sinistra peraltro si dimostrano con il fatto che questa stessa, fino agli anni 80 del secolo scorso, definiva l’Unione sovietica, al tempo di Kruscev e di Breznev, come potenza “socialimperialista”, mentre oggi, dopo tutto quel che è successo, considera la Russia un attore positivo a difesa del “carattere multipolare” del pianeta.

E’ utile ricordare a questo proposito che il caos geopolitico che ha caratterizzato il pianeta dopo la sconfitta degli USA nel Vietnam, dopo quella dell’Iraq e, infine, dopo quella dell’agosto 2021 dell’Afghanistan, quel caos che aveva condotto perfino il presidente francese Macron a definire la NATO in “stato di morte cerebrale”, è in via di ricomposizione proprio grazie all’aggressione russa all’Ucraina. In questi ultimi 10 mesi, la centralità dell’imperialismo statunitense si sta decisamente ricostituendo, la NATO si è abilmente potuta ricostruire una “funzione” che aveva perso con la fine della Guerra fredda, e la sua popolarità sta purtroppo crescendo in modo esponenziale (vedi le nuove adesioni e il consenso che essa riscuote in ampie parti del mondo, non solo tra i governi ma anche nelle opinioni pubbliche).

Ma l’empatia non significa solo considerare con pietà e in maniera solidaristica le sofferenze del popolo ucraino: in quel modo ci si potrebbe limitare a sostenere iniziative di solidarietà (come l’invio in Ucraina di cibo, coperte, generatori elettrici, ecc.), iniziative che comunque in Italia sono state totalmente ignorate o addirittura guardate con diffidenza dalla sinistra e lasciate (salvo qualche lodevole eccezione) alle associazioni religiose e laiche. Per una o un internazionalista, empatia significa appunto “mettersi nei panni dell’altro” e dal comodo della nostra comfort zone interrogarsi su quel che faremmo noi internazionaliste/i se ci trovassimo là.

La sinistra avrebbe peraltro già dovuto farlo per la Siria, a partire dal 2011 quando sono scoppiate le prime proteste e le prime rivolte contro il regime di Bashar al-Assad. L’alternativa era: schierarsi a difesa del regime, fino a salutare come positivi i criminali bombardamenti russi e dell’esercito di Assad che hanno raso al suolo la città di Aleppo e tanti altri centri minori, fino a considerare contro ogni evidenza come fake news le denunce dell’uso da parte del regime e dei russi di bombe termobariche o di armi chimiche? Oppure scegliere di sostenere, ovviamente conservando la propria indipendenza di analisi e di iniziativa, la ribellione popolare?

E, analogamente, come ci saremmo comportati se ci fossimo trovati in Ucraina il 24 febbraio? Noi siamo un po’ troppo affezionati all’affermazione che Carl von Clausewitz fa nel suo “Della guerra” secondo cui “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Quell’affermazione nasconde (soprattutto al lettore disattento) che una situazione di guerra (a differenza di quando agisce ancora la “politica”) non consente troppe scelte e non ammette furbeschi posizionamenti neutralistici. Le scelte a disposizione si riducevano e si riducono sostanzialmente a tre:

  • salutare come liberatoria l’invasione russa, e scegliere in modo vario di collaborare con essa;

  • scappare e lasciare che la difesa di case, di infrastrutture e della vita di chi non può scappare e della stessa indipendenza politica del paese fosse compito solo dell’esercito regolare;

  • oppure in vario modo partecipare alla resistenza ucraina antirussa, cercando di dare il proprio contributo, armato o disarmato, appunto alla difesa del paese.

E’ evidente che grandissima parte della “sinistra radicale” italiana, se si fosse trovata al posto della o del “giovane ucraina/o” avrebbe adottato la prima posizione, o al massimo la seconda, apparentemente quasi nessuno la terza.

(...)

In ogni caso, anche al di là delle innegabili responsabilità NATO, è politicamente sconsiderato mettere le “sofferenze” dei russi e degli ucraini sullo stesso piano, in una falsa equivalenza. Nel conflitto sono direttamente coinvolti un paio di centinaia di migliaia di militari russi (in gran parte coscritti certo, a parte i mercenari, ma comunque corrispondenti allo 0,1% della popolazione di tutta la Federazione) mentre dalla parte ucraina sono coinvolti e duramente, materialmente ed esistenzialmente colpiti, non solo l’esercito ma tutti i 43 milioni di cittadini e, per certi versi, emotivamente anche quei 6 o 7 milioni di ucraine e di ucraini che erano emigrati già prima del 24 febbraio.

Ovviamente dobbiamo essere anche dalla parte dei ragazzi russi, trascinati a combattere in una guerra che non è minimamente la loro, e dalla parte delle loro famiglie, ma non possiamo nasconderci che c’è un gigantesco divario etico tra chi, come le classi popolari russe che sono costrette a una vita quotidiana più ardua e a un periodo di maggiori difficoltà economiche (il tutto sempre per responsabilità intera della leadership putiniana) e chi, come le classi popolari ucraine che vivono quotidianamente la realtà di missili che radono al suolo intere città.

Lo ripeto, internazionalismo è in primo luogo porsi la domanda “che cosa farei io (con il mio bagaglio ideale e politico) se fossi lì”, altrimenti internazionalismo non è. Un tempo l’essere internazionalisti portava perfino a partire con le “brigate internazionali”. Ma almeno non deve portare a subordinare la propria posizione sull’Ucraina alle convenienze politiche e ai “posizionamenti” nazionali. Questo non è né potrà mai essere internazionalismo.

Quello che ho cercato di dire sulla/sul “giovane ucraina/o” lo si può altrettanto dire sulla/sul “giovane russa/o”. L’internazionalismo vuol dire anche chiedersi che posizione deve assumere un internazionalista russo. L’internazionalista russo non vive la medesima impellenza dell’ucraino, ma la sua coscienza internazionalista dovrebbe spingerlo ad assumere una posizione convergente. Ed è quello che fanno migliaia di giovani oppositori russi e soprattutto russe. Le/i democratiche/i russe/i dovrebbero dire (seguendo l’esempio di tanta parte della sinistra italiana) che la responsabilità della situazione è della NATO? Che l’Ucraina è infestata dai nazisti? che è antidemocratica perché mette fuorilegge l’opposizione? In tale modo non sarebbe più all’opposizione di Putin, perché ne condividerebbe le analisi di fondo.

Al contrario, le oppositrici e gli oppositori russi adottano in sostanza quella che fu la linea del movimento americano contro la guerra del Vietnam tra il 1966 e il 1975: “Fuori la Russia dall’Ucraina”, “Riportate a casa i nostri ragazzi”. E i settori più coscienti, come accadde per gli USA oltre 50 anni fa, agitano la parola d’ordine fondamentale: “Per la vittoria dell’Ucraina”.

Già so che i nostri “sinistri radicali” controbatteranno: “Ma noi siamo qua, dobbiamo opporci alla NATO”. Giusto. Ma io direi che noi dobbiamo anche opporci alla NATO, mentre per la sinistra nostrana l’opposizione e la denuncia delle responsabilità NATO e UE ha sostituito e ha cancellato ogni traccia di solidarietà con il popolo ucraino, con la sua resistenza e con la sua sinistra classista e internazionalista.

Viene giustamente denunciato il “doppiopesismo” dei mass media filoatlantici che denunciano le angherie dell’esercito russo ma tacciono o addirittura giustificano le angherie degli americani nelle loro numerose guerre imperialiste, quelle dei turchi contro i curdi, quelle israeliane contro i palestinesi, ecc. Ma a quel “doppiopesismo” viene contrapposto un doppiopesismo altrettanto inverecondo che banalizza la sofferenza del popolo ucraino.

Parte di questa sinistra, per giustificare la propria posizione campista e a volte esplicitamente “putinista”, ha anche messo in discussione il concetto stesso di autodeterminazione, ritenendolo un residuo del Novecento. A questo proposito, rimando a quel che scrissi in un altro mio articolo di giugno 

(...)

Aggiungo infine, a ulteriore dimostrazione della crisi perfino morale dell’internazionalismo, che a nessuno nella “sinistra radicale” italiana è minimamente venuto in mente di organizzare iniziative che abbiano dato voce ai protagonisti ucraini o russi che siano. Hanno fatto eccezione solo le estremamente significative occasioni nelle quali il “Comitato per il no alla guerra in Ucraina” ha ascoltato la ricercatrice ucraina Daria Saburova, il sociologo russo Alexander Bikbov e il giornalista italo-russo Jurii Colombo.

Lo stesso comitato che ha organizzato e realizzato l’unica manifestazione di sinistra nei pressi dell’ambasciata russa a Roma lo scorso venerdì 7 ottobre.


Fonte: refrattario.blogspot.com




venerdì 13 gennaio 2023

Italo Calvino, Sanremo e dintorni

 


Italo Calvino, Sanremo e dintorni
Un itinerario letterario (1923-2023)

a cura di Veronica Pesce
Il Palindromo Editore

Pur senza dargli i natali, la città di Sanremo è centrale nella biografia di Italo Calvino perché vi trascorse gli anni fondamentali della sua formazione. «San Remo continua a saltar fuori nei miei libri, nei più vari scorci e prospettive» dichiarò lo scrittore in una celebre intervista. 

E proprio su questi scorci in cui si può riconoscere o intravedere Sanremo si articola l’itinerario proposto, poco più di quaranta tappe distribuite fra la città e l’entroterra. Mappa alla mano il lettore potrà seguire le tracce dell’opera calviniana, cercare il sentiero dei nidi di ragno e l’albero del barone rampante, ritrovare fra le strade di Sanremo le impalpabili città invisibili. 

Il progetto di itinerario letterario è stato promosso dal Comune di Sanremo per celebrare il centenario della nascita dello scrittore (1923- 2023) e si è realizzato attraverso la collaborazione tra l’Università degli Studi di Genova, le scuole del territorio e l’Accademia di Belle Arti di Sanremo.

Questa guida è curata da Veronica Pesce e il progetto di itinerario è stato elaborato da Laura Guglielmi e Veronica Pesce.

Il volume contiene in allegato la mappa letteraria della città con indicate le tappe della vita e dei riferimenti alle opere di Italo Calvino.


giovedì 12 gennaio 2023

Sandro Ricaldone, Da una non breve unità di tempo

 


SANDRO RICALDONE

Da una non breve unità di tempo

(Il Canneto editore).


Tutto sull'arte contemporanea a Genova dal 1985 al 2020.

Gli artisti, i movimenti, i temi e le polemiche che hanno caratterizzato la scena artistica genovese degli ultimi trentacinque anni. Sandro Ricaldone, storico e critico d'arte, curatore, collezionista, instancabile animatore culturale, con la raccolta di scritti ( articoli, saggi, presentazioni) "Da una non breve unità di tempo" (Il Canneto editore, pagine 525, 30 euro) disegna un quadro, esauriente e approfondito, della storia dell'arte contemporanea a Genova. 

Si tratta di un testo unico, che colma una lacuna nel panorama editoriale, che offre al lettore e all'appassionato, ma anche all'addetto ai lavori, uno strumento fondamentale per comprendere un fenomeno complesso e variegato come quello della ricerca estetica piú recente. Le personalità dei singoli artisti, anche grazie al ricchissimo archivio personale dell'autore, vengono lette e interpretate, con puntualità e rigore ma anche con notevole empatia, nel contesto storico nazionale e internazionale. Dalla poesia visiva alla performance, dall'arte antropologica al neo-pop, il periodo preso in esame risulta fra i piú complessi, contradditori ma anche stimolanti della seconda parte del Novecento e dell'inizio del XXI secolo.

Ricaldone è uno dei massimi esperti delle neo-avanguardie europee - Bauhaus immaginista, Lettrismo, Internazionale situazionista. Fluxus - alle quali ha dedicato il precedente volume "L'avantgarde se rend pas", (edito nel 2018 sempre per i tipi del Canneto) e che con questo libro va a costituire un dittico di straordinario interesse e originalità. 

Fra gli artisti presi in esame in questo volume: sono stato maggiormente legato: Roberto Agus, Pier Giulio Bonifacio, Aurelio Caminati Claudio Costa, Pier Giorgio Colombara, Andrea Crosa, Beppe Dellepiane, Mauro Ghiglione, Stefano Grondona, Carlo Merello, Anna Oberto, Martino Oberto, Angelo Pretolani, Roberto Rossini, Rodolfo e Luca Vitone e molti altri.

mercoledì 11 gennaio 2023

Italia: una sinistra fatta di gruppuscoli

 


Il numero di dicembre di Le Monde diplomatique/il manifesto, dedica un corposo articolo di Hugues Le Paige al trionfo elettorale del centro-destra di Giorgia Meloni. L'articolo, molto interessante, contiene anche una riflessione, che riprendiamo, sulla crisi drammatica della sinistra.

Hugues Le Paige

Una sinistra fatta di gruppuscoli

Il Pd, al governo negli ultimi undici anni (ad eccezione dei due anni del governo Conte-Salvini), è diventato una sorta di garante delle istituzioni. È il partito che sostiene le coalizioni di unità nazionale e i cosiddetti governi «tecnici», che attuano drastiche politiche di austerità — come il governo di Mario Monti nel 2011, con il suo piano di riduzione della spesa pubblica da 20 miliardi di euro. Queste misure sono sempre presentate come inevitabili, senza alternative, apolitiche. Tuttavia, come sottolinea il politologo Arthur Borriello, «il passo indietro della politica non è altro che un'operazione politica». Da Romano Prodi, che nel 1996 ha imposto l'austerità per far sì che l'Italia rispettasse i parametri di Maastricht, fino alla coalizione guidata da Draghi, passando per Matteo Renzi e il suo «Jobs Act» che deregolamentava le condizioni di assunzione e di licenziamento, il Pd, come la maggior parte dei partiti socialisti europei, si è fuso nello stampo del social-liberismo.

Interessato più ai problemi sociali al centro delle preoccupazioni delle classi urbane benestanti che ai temi della redistribuzione, dell'occupazione e della solidarietà, il Pd ha progressivamente perso il contatto con la massa dei lavoratori precari (o meno) e dei disoccupati, nonostante in Italia le disuguaglianze stiano crescendo. Secondo l'Istituto nazionale di statistica (Istat), nel 2021 il paese contava 2,9 milioni di famiglie in condizioni di povertà relativa (con un reddito inferiore alla metà del reddito medio italiano), alle quali si aggiungono 1,9 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta — senza accesso o con accesso limitato a cibo sano, abitazioni dignitose, elettricità, istruzione e acqua potabile.

Dopo le elezioni, molti attivisti, intellettuali e dirigenti del Pd hanno avviato una forma di autocritica, mettendo in discussione la funzione puramente istituzionale del loro partito. Il Pd «si è trasformato nel portinaio sonnacchioso che dalla guardiola controlla e preserva il Palazzo», ha osservato lo scrittore Stefano Massini, in riferimento a Pier Paolo Pasolini, che aveva usato la metafora del palazzo per distinguere i luoghi del potere dal mondo popolare. Lo stesso Letta ha dichiarato all'indomani delle elezioni: «Non dobbiamo essere la protezione civile della politica.» Queste prese di coscienza tardive indicano che la strada da percorrere sarà lunga e disseminata di revisioni laceranti. Il congresso previsto per gennaio, che rischia di ridursi a una guerra di successione, non sarà sufficiente.

Mentre il Pd rimane diviso sul-la questione delle alleanze (con il Movimento 5 stelle o con il partito liberista e centrista di Renzi e Carlo Calenda) e sull'atteggiamento da tenere nei confronti del movimento pacifista, che il 5 novembre ha riunito a Roma 100.000 persone, a sinistra non prende forma nessuna soluzione alternativa. Alle ultime elezioni, Sinistra italiana, alleata ai Verdi per l'Europa, e la lista Unione popolare, che raggruppava diversi gruppuscoli politici — ma che aveva ricevuto il sostegno di Jean-Luc Mélenchon e di Jeremy Corbyn —, si sono dovute accontentare di candidature simboliche (ottenendo rispettivamente il 3,6% e P1,4%). Eppure, al di fuori della politica di partito, collettivi, associazioni e centri sociali sono attivi su diversi temi sociali e climatici, del tutto assenti dalla campagna elettorale.

In Italia la sinistra non si è mai ripresa dall'autodissoluzione del Pci nel 1991. Le sue successive metamorfosi si sono dimostrate incapaci di ricostruire un movimento combattivo. Fondato nel 2007 nella speranza di unire assieme ex comunisti ed ex democristiani, il Pd ha visto rapidamente prevalere i secondi sui primi, che da tempo avevano messo da parte la loro eredità culturale. «Il Pd è in difficoltà da quando è nato, pochi mesi prima che la crisi dei mutui subprime sconvolgesse l'ordine liberale del mondo, osserva lo storico del pensiero politico Carlo Galli (Il Manifesto, 30 ottobre 2022). (...) A quella crisi l'Unione europea ha risposto con l'austerità, che i dem hanno sostenuto (...). [Il Pd è] un partito immerso in una nebbia neoliberista, con una fiducia cieca nella globalizzazione. E quando questa è andata in pezzi, il partito è rimasto muto, non ha saputo stare dentro la ripoliticizzazione della società.» Voltando una pagina fondamentale della storia italiana — quella dell'anti-fascismo come collante della società —, la vittoria di Meloni ha gettato una luce impietosa sullo stato della sinistra italiana, alla disperata ricerca di una nuova identità.

Le Monde diplomatique/il manifesto – dicembre 2022

domenica 8 gennaio 2023

Il Movimento Lavoratori per il Socialismo

 


Mettendo ordine nel mare magnum di riviste, giornali, appunti e schede di lettura è saltato fuori un quaderno di un centinaio di pagine, redatto all'inizio degli anni Ottanta in vista di una possibile pubblicazione e poi, tanto per citare Carletto, abbandonato alla rodente critica dei topi. In base al principio ligure del “qui non si butta via niente”, ne riprenderemo alcune schede in un rubrica un po' malinconica: riordinando i cassetti della memoria. Pensiamo che ci si riconosceranno in molti, come noi ormai settantenni, ma nutriamo anche la speranza che qualche giovane possa trovarla di un qualche interesse.

Giorgio Amico

Riordinando i cassetti della memoria

Il Movimento Lavoratori per il Socialismo


Nel febbraio 1976 un congresso durato ben 9 giorni, dal 21 al 29, celebra la morte del vecchio Movimento studentesco della Statale e la nascita di un nuovo soggetto politico, il Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS).

Il congresso chiude un ciclo di dibattiti e aspri scontri durato due anni nel corso del quale era stato sconfitto ed espulso il gruppo capeggiato dall'ormai ex leader storico Marco Capanna che proponeva di mantenere il movimento come un movimento settoriale capace di orientare i figli della borghesia ad un’alleanza col movimento operaio e attivo nell’interesse delle masse popolari. Tale linea fu bollata dal nuovo gruppo dirigente (Cafiero-Toscano) come ‘deviazionismo di destra’, incapace di comprendere che la fase della contestazione si era chiusa definitivamente e che se ne apriva un’altra totalmente diversa e dunque la necessità di una riconversione politica del movimento.

Nel gennaio-febbraio 1974 Capanna, Fabio Guzzini e Giuseppe Liverani andranno a costituire il "Movimento autonomo degli studenti di Milano", al di là del nome altisonante di fatto un gruppuscolo che andrà presto ad accasarsi nel Pdup.

L'espulsione di Capanna non placò le polemiche. Alla fine di ottobre sempre del 1974, dopo un lungo dibattito interno, un folto gruppo di quadri dirigenti (circa 300) si allontanò dal Movimento Studentesco, con un manifesto murale intitolato "Perché usciamo dal Movimento Studentesco". Il gruppo prese il nome di "Coordinamento dei Comitati antifascisti" di Milano e finì poi per confluire nella nascente area dell'autonomia.

Il nuovo leader sarà Salvatore Toscano fautore di una nuova linea imperniata sostanzialmente su tre punti:

  1. allargare il campo d'azione del movimento all'intera società

  2. trasformarsi da movimento in partito, dotandosi di un'organizzazione adeguata.

  3. uscire dall'ambito milanese per estendere il proprio intervento a tutto il territorio nazionale.

Al Congresso di fondazione 500 delegati in rappresentanza, secondo il resoconto ufficiale, di ben 106 sezioni sparse su tutto il territorio nazionale – sezioni, va detto, della cui esistenza ben pochi si erano fino a quel momento accorti fuori dagli ambiti lombardi – approvano 20 pagine di tesi congressuali in cui si sostiene come prioritario superare “il settarismo e il dogmatismo del passato” al fine di portare avanti un ambizioso processo di unificazione delle forze autenticamente marxiste-leniniste. A questo fine  rapporti vengono stretti con l'Organizzazione Comunista Marxista-Leninista (OCML) presente soprattutto in Puglia e Avanguardia Comunista (AC) forte a Roma e nel Lazio.

Avanguardia comunista era nata nel febbraio 1974 dall'unificazione del gruppo Il comunista (a sua volta formatosi dall'unione dei Nuclei comunisti rivoluzionari di Franco Russo e Paolo Flores d'Arcais con il Fronte comunista rivoluzionario calabrese) con il Comitato comunisti romani Marxisti-Leninisti, meglio conosciuto come Viva il comunismo, di cui era leader Augusto Illuminati. Caratteristica di questa organizzazione era un maoismo ultrastalinista nonostante tutti gli esponenti citati si fossero formati e avessero militato fino al 1968 anche con incarichi dirigenti (Illuminati) nei Gruppi comunisti rivoluzionari, la sezione italiana della Quarta Internazionale trotskista, fondata e diretta da Livio Maitan.

    una pagina del quaderno

Per il MLS versare lacrime su un mitico '68 “perduto” non porta da nessuna parte. “Noi – affermano con toni perentori i dirigenti della nuova organizzazione – rifiutiamo questo atteggiamento: il '68 non è naufragato , ma i temi della sua lotta si sono allargati, coinvolgendo ampi strati di lavoratori, il movimento delle donne, le masse giovanili. L'MLS non nasce dalle ceneri della contestazione sessantottesca, bensì dalle spinte reali del paese”. (l'Espresso n.10, marzo 1976).

Il nuovo partito punta molto sul una attività di propaganda rivolta ai vecchi quadri della frazione del PCI riunita attorno a Secchia di cui in implicitamente si considera l'erede. Impostazione rafforzata dall'adesione di alcune prestigiose figure della Resistenza come Giuseppe Alberganti, nominato presidente del partito, e del critico d'arte Raffaele De Grada. Il richiamo è al PCI della “democrazia progressiva” (1945-1948), già evidente nel titolo “Fronte Popolare” della rivista settimanale.

Nonostante gli sforzi di radicamento sul territorio nazionale il MLS rimase una realtà prevalentemente milanese con un certo seguito al Sud, in particolare dopo l'unificazione con Avanguardia comunista in Sicilia (Palermo, Catania, Siracusa, Agrigento, Termini Imerese) ed grazie all'OCML in Puglia. Sezioni più piccole operarono anche a Napoli, Reggio Calabria, Bologna, Firenze.

Dopo la sua fondazione, una volta verificatasi irrealizzabile l'ipotesi di formare un polo marxista-leninista in alternativa alle principali organizzazioni della estrema sinistra (PdUP, LC, AO), il MLS tentò di superare l'immagine settaria guardando prima con grande attenzione alla sinistra del PSI e poi avvicinandosi al PdUP per il comunismo, in cui confluì nel congresso di Roma del 1981.


sabato 7 gennaio 2023

Raffaele K. Salinari. Dagli esplosivi a La ciociara. Storia della Ferrania

 


Oggi Il supplemento culturale de il Manifesto dedica il paginone centrale alla storia della Ferrania e al Museo che a Cairo Montenotte ne ricorda la storia avventurosa e magica. Ancora una volta, pur trattando il tema nel modo più rigoroso, Raffaele K. Salinari riesce a farci sognare, passando con naturalezza dall'alchimia al cinema, dalla scienza alla storia politica.

Raffaele K. Salinari

Dagli esplosivi alla Ciociara

DAI PRODOTTI PER LA GUERRA A QUELLI PER IL CINEMA: STORIA DELLA FERRANIA

Molti ricorderanno la scena di Una finestre sul cortile, il giallo di Alfred Hitchcock, in cui Raymond Burr cerca di assassinare James Stewart e questi si difende accecando l'assalitore con i flash della sua macchina fotografica. Cambiando il più rapidamente possibile le piccole lampadine, Stewart, immobilizzato sulla sedia a rotelle dalla gamba ingessata, «spara» negli occhi di Burr lampi di luce che, per alcuni momenti, gli fanno perdere la vista.

Altri ancora saranno forse più affezionati alla prima scena di Giù la testa, di Sergio Leone in cui un impassibile James Coburn fa esplodere una carica di fulmicotone nella carrozza della famiglia allargata di Rod Steiger dando l'avvio alla pellicola con la famosa battuta: «Giù la testa, coglione!». Ultimo riferimento, tra i tanti, Vite vendute con Yves Montand ed il suo trasporto di nitroglicerina. Ebbene, possiamo dire che queste scene epitomizzano, in diversi modi, la storia della più famosa fabbrica di pellicola cinematografica italiana.

LA POLVERE PERI CANNONI ZARISTI

Questa vicenda parte da lontano ed arriva ad un luogo e a un marchio che tutti conosciamo perché il suo nome è legato, almeno nei meno giovani, alle foto che trattenevano i ricordi di una vita: quello delle pellicole Ferrania. Siamo nel 1870 e la Repubblica Francese, dopo la sconfitta di Sédan e la costituzione dell'Impero Germanico, persegue il suo scopo di rivincita sui tedeschi anche stringendo alleanza con l'Impero Zarista, superando tutte le differenze ideologiche tra la propria costituzione democratica e quella assolutistica delle Russie.

In questo quadro una particolare, quanto interessata, attenzione venne posta dai francesi all'armamento dell'esercito russo, già da allora imperniato sull'uso massiccio dell'artiglieria pesante, segnatamente composta dai cannoni da campagna. I transalpini, in specifico, consigliarono allo Zar di adottare il loro cannone Déport da 75 mm, adatto anche alle ondulate pianure russe. Questo era un apparato bellico relativamente maneggevole quanto potente, che poteva essere trasportato anche dai cavalli e richiedeva come carica di lancio l'uso di un esplosivo a deflagrazione progressiva, costituito da una miscela di nitrocellulosa a diverso tenore di nitrazione, chiamato «polvere B». Naturalmente, oltre alla vendita dei cannoni, i francesi fecero altrettanto per la «polvere B».

LA POLVERE B

Anche se non si è chimici, ma ci si è divertiti a far esplodere qualche mortaretto in occasione del Capodanno, pratica ora formalmente proibita come tante altre di ascendenza apotropaica in nome della sicurezza ma, in realtà, per far intristire ancor più l'avvio del Nuovo Anno, un pizzico di scienza degli esplosivi fa sempre bene. Non parliamo qui della classica Molotov, primitiva ma efficace, bensì appunto del fulmicotone, tanto caro ai dinamitardi di tutto il mondo. Orbene esso è composto appunto di cellulosa, che si trova nel cotone, acido nitrico ed ossido di azoto. In particola-re è affascinante la storia dell'azoto, gas presente nell'aria in grande quantità, ma che fu isolato ed utilizzato come fertilizzante, e gas esplosivo, solo in tempi recenti. A questo punto, prima di tracciare una breve, quanto tremenda, storia di questo gas, portiamo l'attenzione del lettore su un testo di alchimia del XVII secolo, il famoso Azoth di Basilio Valentino che descrive, richiamando il nome «azoto», questa misteriosa sostanza come il Solvente Universale usato dagli alchimisti per la ricerca della loro Pietra Filosofale. Data l'alta valenza simbolica dei nomi usati nelle scienze iniziatiche, ci si deve domandare se quello che stiamo per narrare non sia un monito che giustifica ciò che viene, giustamente, chiamato «segreto iniziatico» e che impedirebbe ai profani, cioè a coloro che non hanno l'animo volto al «bene ed al progresso dell'umanità», l'utilizzo di tali potenze; un po' come ci dice Disney nell' Apprendista stregone.

DAL BLU DI PRUSSIA AL CYCLON B

Questa parte della storia parte da Johann Jacob Diesbach lo scopritore del blu di Prussia come pigmento artificiale. Prima di lui il blu dei dipinti veniva estratto dalla macinazione dei lapislazzuli, cioè «pietre del cielo», conosciute fin dall'antichità. Nel 1782, Carl Wilhelm Scheele, uno scienziato importante per la storia degli elementi chimici, mescola del blu di Prussia con un agitatore sul quale vi erano residui di acido solforico. Nasce così, forse per caso, uno dei veleni più letali: il cianuro; da lui chiamato, per questa origine, acido prussico. Costituito da azoto, carbonio e potassio, il cianuro ha il potere di interrompere repentinamente la respirazione, rilasciando il tipico aroma di mandorle amare.

La storia del cianuro, come ci ricorda Benjamin Labatut nel suo libro Quando abbiamo smesso di capire il mondo, si incrocia ad un certo punto con la scoperta dell'azoto da parte di Fritz Haber, colui che, a detta dei giornalisti dell'epoca, «fece il pane dall'aria». Nel 1907 Haber aveva, infatti, trovato il modo di ottenere l'azoto dall'aria. Come sappiamo questo è un elemento fondamentale per la crescita delle piante. Prima della scoperta di Haber la domanda di azoto come fertilizzante veniva evasa riesumando, ad esempio, milioni di scheletri, dato che lo si poteva ricavare dalle ossa dei morti. Dai soldati e cavalli deceduti nelle battaglie, ai crani dei bisonti americani e fino agli schiavi delle tombe dei faraoni egizi, le ossa di milioni di scheletri finirono triturate come fertilizzante nei campi agricoli.

E dunque la scoperta di Haber cambiò la storia dell'agricoltura e, di conseguenza, dell'umanità. Tuttavia, come nella storia della Ferrania, le sue ricerche si svolgevano originariamente in ambito militare: doveva fabbricare esplosivi e polvere da sparo. Con lo stesso procedimento utilizzato per ottenere azoto dall'aria Haber costruì, infatti, la prima arma di sterminio di massa, un gas terribile utilizzato per la prima volta ne1915 ad Ypres, la tristemente famosa Iprite. Questo gas, combinato con il cianuro, produsse un pesticida terrificante: lo Zyklon, il ciclone. La sua prima versione, lo Zyclon A, fu utilizzata sugli aranceti californiani e sui treni statunitensi, la susseguente, lo Zyclon B, per sterminare milioni di persone nelle camere a gas. Del suo colore, blu ovviamente, se ne vedono ancora tracce su quei muri.

LA S.I.P.E:

Torniamo ora alla nostra storia. Il commercio di fulmicotone e cannoni procedette senza intoppi sino alla Grande Guerra ma, già nel 1914, i francesi dovettero interrompere le forniture di detonatore per via delle loro esigenze belliche. Ecco che, allora, non essendo i russi attrezzati per produrre la polvere B, si rivolgono in Italia alla S.I.P.E. la Società Italiana Prodotti Esplodenti che accettò la commessa e decise di costruire ex novo uno stabilimento per la sua produzione: la sede scelta fu nei pressi del paese di Ferrania per via di un'ampia area allora disabitata e della vicina ferrovia della linea Savona-San Giuseppe di Cairo che poi proseguiva per Cengio e Torino da una parte e Alessandria e Milano dall'altra. Per questo fu immediatamente tracciato un vialone tra l'area destinata alla fabbrica e la strada ferrata: sorse così la Stazione di Ferrania.

I francesi avevano intanto consegnato ai tecnici della S.I.P.E. i protocolli per la fabbricazione della polvere B, che comincia subito ad entrare in produzione ed inviata in Russia via mare attraverso il porto di Arcangelo. Tutto cessa nel 1917 per via della Rivoluzione di Ottobre e la pace separata con gli imperi Centrali.

LA NASCITA DELLA F.I.L.M.

A questo punto, conclusa anche la Prima Guerra Mondiale, si impone agli stabilimenti di Ferrania una decisa necessità di riconversione industriale. Ora, gli impianti per la fabbricazione della polvere B erano in realtà anche adatti alla produzione di pellicole fotografiche, cinematografiche e per Raggi X. Infatti, gli impianti per la produzione di etere solforico, le impastatrici e le centrifughe per la produzione della nitrocellulosa, si prestavano a questo fine attraverso una ingegnosa opera di adattamento. Come si vede da questa breve storia, il tema della riconversione degli impianti bellici a fini civili, ma anche il contrario, è sempre di attualità.

E dunque nasce la F.I.L.M., Fabbrica Italiana Lamine Milano, con sede legale nel capoluogo lombardo ma stabilimenti a Ferrania, che comincia a prendere il nome di Ferrania F (Film). La prima stesura di pellicola avviene verso il 1920 e, all'Esposizione di Torino del 1923, la Ferrania Film presenta la sua prima pellicola cinematografica positiva. Nel 1926 nasce la pellicola radiografica medica e nel 1927 il negativo cinema ed infine la famosa e popolare pellicola fotografica in rullini.

Ora, all'inizio abbiamo parlato delle lampadine flash delle vecchie macchie fotografiche, quelle che si usavano sino agli anni '60 del secolo scorso. Ebbene il filamento di questi bulbi, «sparava» il suo lampo luminoso perché intriso di nitrocellulosa, la stessa usata per la produzione delle pellicole cinematografiche.

IL FASCISMO E ILSECONDO DOPOGUERRA

Gli anni della dittatura fascista, con l'autarchia ed il controllo politico delle produzioni industriali, furono durissimi per la Ferrania. In particolare venivano a mancare componenti importanti, come il nitrato d'argento, infine ricavato con una campagna di recupero sul modello di quella Oro per la Patria.

Poi lo scoppio della guerra mise in grande difficoltà la Ferrania che, nonostante ciò, nel 1941 mette in produzione una pellicola invertibile per fotografia a colori con sensibilità di 13 / 10° DIN. Nel 1943, dopo l'armistizio, la Ferrania viene gestita dai nazisti che la denominano Stabilimento Ausiliario Germanico, ma i partigiani riescono a boicottare la produzione, tutta destinata a Cinecittà, senza distruggere la fabbrica che nel '45 torna libera.

Ed eccoci finalmente al debutto internazionale delle sue pellicole cinematografiche. Già alla fine degli anni '40 la Ferrania realizza il primo negativo a colori per il cinema. Con questo nuovo prodotto viene realizzato prima il documentario a colori Ceramiche Umbre, presentato in occasione del rinato Festival di Venezia nel '49 ed infine, nel '52 il celeberrimo Totò a colori di Steno, seguito da Africa sotto i mari con una esordiente Sofia Loren. E fu proprio la Loren con il suo Oscar per La ciociara a sancire il livello internazionale della Ferrania che utilizzò il premio come fonte pubblicitaria a livello mondiale.

Il resto della storia ed anche l'inizio che si perde nel Medioevo, lo possiamo trovare nel bellissimo Museo della pellicola, presso il Palazzo Scarampi di Cairo Montenotte (www.ferraniafilmmuseum.net) che appassionati curatori aprono al grande pubblico per tenere viva va la memoria sia di quanti hanno lavorato nella Ferrania, sia per mostrare quella geniale capacità italica di trarre il meraviglioso dalla distruzione.

il Manifesto/Alias – 5 gennaio 2023

martedì 3 gennaio 2023

Cosa resta oggi dei vecchi gruppi extraparlamentari?

 


Giorgio Amico

Riordinando i cassetti della memoria

Cosa resta oggi dei vecchi gruppi extraparlamentari?

La realtà dei gruppi della Nuova sinistra fu politicamente molto eterogenea, frutto della partecipazione di svariate componenti provenienti dalla sinistra (PCI, PSI, PSIUP), dalla tradizionale opposizione di sinistra (trotskisti, maoisti, operaisti), dalle realtà spontanee rappresentate nel '68 dal movimento studentesco e dalle lotte operaie dell'autunno '69, oltre che, dato solitamente trascurato, dalla disintegrazione delle organizzazioni giovanili del mondo cattolico.

I gruppi cosiddetti extraparlamentari furono spesso la risultante fra vecchie forme di aggregazione tipiche degli anni Sessanta e il nuovo tipo di esperienze politiche vissute nel biennio 68-69. Esemplari i casi di Avanguardia Operaia e di Servire il popolo che ebbero origine comune nel buon lavoro entrista svolto dai trotskisti dei GCR nel PCI milanese.

I gruppi furono sempre vicini ai movimenti di contestazione, ma senza esaurirne la carica sovversiva o assumerne una totale rappresentanza politica. Le pratiche svolte erano sostanzialmente omogenee e così il tipo di approccio alla realtà, nonostante le divergenze ideologiche, attenuate comunque da una quasi generale accettazione del maoismo come teoria di riferimento.

Con il riflusso successivo al 1972 iniziò a prevalere una tendenza all'istituzionalizzazione e all'inserimento, pur su posizioni verbalmente massimaliste, nell'ambito del sistema politico a partire dalla partecipazione alle elezioni e al tentativo di raggiungere una presenza in parlamento. Di fatto i gruppi tesero a diventare in tutto e per tutto partitini sul modello del Pci che pensavano di poter condizionare da sinistra. Ne derivò da un lato la crisi di organizzazioni come Lotta Continua che nel 1976 si sciolse nei movimenti, dall'altra incerti e contradditori tentativi di unificazione che portarono alla spaccatura di Avanguardia Operaia e del Pdup e alla nascita da un lato di DP e dall'altro del nuovo Pdup.

Questo processo di istituzionalizzazione portò a partire dal 76 alla nascita e al progressivo rafforzamento, soprattutto dopo i fatti del 1977, dell'area radicalmente alternativa dell'Autonomia Operaia, in larga parte derivazione del vecchio Potere Operaio, e ad una accelerazione del fenomeno della lotta armata.

Il movimento del '77 travolse completamente l'area della nuova sinistra. Il colpo di grazia fu dato dalla nascita di nuovi movimenti di massa, come quello femminista e quello ecologista. Già alla fine degli anni Settanta la realtà rappresentata dai gruppi può dirsi esaurita. Quello che ne resta negli anni Ottanta confluirà, al momento dello scioglimento del PCI, in Rifondazione comunista con l'eccezione dell'area bordighista sempre più residuale e frammentata e che comunque non va nel suo complesso oltre il centinaio di militanti. Caso a se stante è quello di Lotta comunista che proprio dal riflusso dei movimenti e dalla scomparsa dei gruppi troverà spazi di crescita notevoli, ulteriormente ampliati poi nei decenni successivi dalla fine del PCI e dal fallimento dell'ipotesi di partito comunista di tipo nuovo rappresentata da Rifondazione. Una crescita tale da fare a livello globale di Lotta comunista, dopo la crisi del SWP inglese e del NPA in Francia o del Partido Obrero argentino, uno dei più consistenti, se non il più consistente gruppo politico ancora richiamantesi al marxismo rivoluzionario.