Perchè
la letteratura delle donne è rimasta quasi un sottogenere, ignorata
da critici e studiosi? Rispondere a questa domanda può far capire
meglio il percorso accidentato della poesia di Alda Merini.
Gianluca Paciucci
Donne che circondano mura
Per Alda Merini dopo gli
anni del grande oblìo e delle reclusioni ripetute, sono giunti
quelli del merinismo (devo questo termine all’amico editore
Claudio Del Bello) realizzato a ogni angolo, come se la
società letteraria italiana volesse farsi perdonare le assidue
dimenticanze di cui si è macchiata, nei confronti delle poete del
Novecento, anche nelle scuole declinato essenzialmente al maschile.
Maria Corti è stata testimone della “generale indifferenza presso
tutti i più noti editori italiani, a cui personalmente mi rivolsi”
per suggerire la pubblicazione di quel capolavoro che è Terra
Santa, poi uscito in rivista (Il Cavallo di Troia, n° 4, inverno
1982 - primavera 1983) e infine in volume, da Scheiwiller. E poi
l'esplosione di libri e libretti, di pubblicazioni su pubblicazioni
che hanno reso Merini una poeta tra le più conosciute di fine
Novecento e inizio nuovo Millennio, fino alla morte nel 2009, e al
culto che le viene tuttora riservato anche al di fuori di quello che
è il pubblico di professionisti e professioniste della poesia.
Una lettura di genere
permetterebbe di scoprire il perché di tanta furia escludente
nei confronti della letteratura delle donne, ingiustificabile tanto
più in un Novecento italiano ed europeo che ha visto grandissime
scrittrici, puntualmente ignorate da manuali e canoni letterari, e
solo risarcite tardivamente. Un Novecento che in Italia si apre con
Una donna di Sibilla Aleramo, e che vede figure di notevole
spicco come Elsa Morante, Alba de Céspedes, Anna Maria Ortese, Anna
Pozzi, Amelia Rosselli, Goliarda Sapienza, Patrizia Valduga, Patrizia
Cavalli, Simona Vinci e tante, tantissime altre, che lo stanco e
prepotente machismo della critica ha però puntualmente rimosso.
Ricordo le parole
sprezzanti di Angelo Guglielmi nei confronti della studiosa Carla
Benedetti, di cui quasi metteva in discussione il diritto di
intervenire nel dibattito letterario; e quelle svilenti (e avvilenti)
di Matteo Marchesini nei confronti del volume Nuovi poeti italiani
pubblicato da Einaudi nel 2012 a cura di Giovanna Rosadini e che
raccoglieva 12 autrici, alcune delle quali veramente straordinarie
(ma anche Einaudi, che misero titolo: un libro con poesie di dodici
donne e il maschile poeti... Perché? Pigrizia e malizia si
mescolano, quando un femminile come poete, più dell'antico e
riduttivo poetesse, è di semplice ed efficace
utilizzazione...).
Con Merini
l'esclusione/rimozione è stata doppia: la separazione, le mura della
Terra Santa (i famosi versi “Ho conosciuto Gerico, / ho
avuto anch'io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le
mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati
tutti...”) sono state moltiplicate e rese più spesse dall'essere
femmina e poeta di Merini: mura dentro mura, mura a proteggere altre
mura, e tutte dentro un corpo di donna che le circonda, pieno e
smarrito. Che cosa escludono i canoni della Letteratura -obbligatoria
la maiuscola, nell’attuale ritorno all’ordine- quando escludono
versi e corpi di poeti e poete, e soprattutto di queste ultime?
Escludono il corpo del verso, l'esibizione priva d'ogni forma
d'estetismo di membra non canoniche, e cioè apocrife, e di un forte
sentire che non è sentire di maschi, ovvero che non è né reticenze
né inimitabilità di vita, tipiche del dannunzianesimo oggi
trionfante.
Il femminile della
scrittura, mai vittimistico, esplora angoli segreti della vita
sociale e sessuale con un fare che più politico non si può, con un
dire che esplode in un dettato calmo e tagliente. E anche quando la
società delle lettere e dello spettacolo adottò Merini (memorabili
alcuni suoi passaggi televisivi), il suo corpo fuori dai canoni era
sempre lì a dimostrare eccesso ed evasione, passione e prodigalità,
interamente condite da ironia maiuscola: “Il medico mi ha
prescritto due Fondi Bacchelli”, in uno dei suoi tanti meravigliosi
aforismi.
È con la prodigiosa
generosità di Merini e con il suo erotismo come ambiguo pane che la
poeta Gaia Gentile si è confrontata a generare un testo teatrale, su
cui è intervenuto il musicista Giuseppe Camozzi per trasformarne
alcune sezioni in canto o in suggestioni sonore. Non teatro parola
alla Gaber-Luporini, né semplice accompagnamento di letture in
pubblico e neppure versi in musica, come è successo a
molti testi di Merini (fino a una sfiorata partecipazione al Festival
di Sanremo), ma poemusica -la definizione è dei due artisti,
Gentile e Camozzi, usata per la loro prima collaborazione-, intreccio
sensibile di suoni e versi che si fanno vene d'attrice, sola sul
palco. I versi di Gentile dialogano con quelli di Merini, còlti e
virgolettati (“Sono nata il ventuno a primavera”, “una traccia
di nero nella coscienza”...), e partecipano alle continue
metamorfosi del corpo dell'attrice che innanzitutto è Merimia,
già dal titolo un ibrido tra i percorsi di due anime; che entra ed
esce dai personaggi di Merimia e di Piero (“Rientra Merimia nelle
vesti di Piero”, in androginia come ricordo delle origini ed elogio
del teatro) fino alla scissione terminale e al finale offendersi
(“Merimia torce il collo a Piero”); che entra ed esce dalle
diverse arti messe in campo, per una fusione completa di poesia,
danza, recitazione.
I versi detti e quelli
cantati si distinguono per una diversità di tono: sussurrati e
scolpiti i primi, fino a vette di acre e compatta espressività
(“...Nudo contempli la forza tra le tue cosce, / convinto che
possedere sia donare. / Usurpatore di sogni mosso dal nulla / non
cogli il sangue sui ciottoli dei tuoi passi. / Gridano i figli, ma la
bocca soffoca di sabbia / pianta carnivora ristagna e si nutre di
bellezza...”); cullati e cullanti i secondi, con rime facili e
dichiarazioni di poetica (“...Non mi schiacciare serpente / perché
io sono folle, folle, / ma custodisco i gigli della tua mente. /
Liberami amore mio dalla poesia molle...” - con ricca polisemia del
primo verso: non schiacciare me che mi muovo come un serpente; oppure
tu, serpente, non mi schiacciare, Eva più che Maria).
Ci sono forti echi delle
quartine erotiche di Patrizia Valduga insieme a toni quasi da
canzonetta ma che non sai se siano parodia o scelta convinta, perché
è nelle canzonette che c'è la verità sulla vita, come sappiamo da
La signora della porta accanto di Truffaut. “Né con te né
senza di te”, è l'epitaffio del film di Truffaut, ed ecco Gentile:
“...soffiare la sofferenza / dimenticare l'assenza... // Dove tu
sei / dove devo guardare / non ti vedo più tra le stelle / nel
firmamento / nell'infinito dell'amore / negli abissi del cuore /
nelle parole dentro / nel ricordo, nel tormento...”, smarrimenti e
smottamenti, rime trite e parole senza storia, alla Saba, mentre
grava su ogni passaggio l'angoscia del mito classico di Orfeo e
Euridice e di quello cristiano della croce, costanti punti di
riferimento, in Merini.
Questo di Gaia Gentile
non è un omaggio abitudinario e conformista alla poeta dei Navigli,
ma è un superamento del merinismo nella proposta di corpi non
liquidi che, zavorrati dai versi, restano a terra e si esplorano in
amori sacri d'oltraggi. Oltre il merinismo per attingere alla
concreta irriducibilità dei versi di Alda Merini.