mercoledì 29 febbraio 2012

Gli scioperi del marzo 1944 a Savona


Il primo marzo 1944 gli operai savonesi entravano massicciamente in lotta. Nonostante la durissima repressione lo sciopero riusciva. Centinaia di lavoratori verranno arrestati e deportati in Germania, solo pochi sopravviveranno.

Giorgio Amico

Gli scioperi di marzo e le deportazioni in Germania


Continua, intanto, e si intensifica l'agitazione nelle fabbriche. Nella seconda metà di febbraio in seguito ad uno sciopero vengono arrestati quattro operai della Scarpa & Magnano: Ernesto Miniati, Edoardo Wuillermin, Angelo Canepa e Aldo Manitto. I lavoratori dello stabilimento di Villapiana protestano contro i ritardi della Direzione che non ha ancora pagato gli aumenti salariali strappati con lo sciopero di dicembre.



A dimostrazione dell'importanza che il Partito Comunista attribuisce a Savona che, non va dimenticato, rappresenta uno dei principali centri del triangolo industriale, il 28 febbraio giunge a Savona Giancarlo Pajetta che, assieme a Andrea Gilardi, segretario della Federazione, da una abitazione sita in via Poggi, svolge un instancabile opera di organizzazione e coordinamento dell'ormai prossimo sciopero generale. Uno sciopero, si legge in un notiziario della GNR, «a carattere apparentemente economico ma in effetti politico, di concerto con il movimento partigiano».

Le indicazioni del partito agli operai sono chiare: organizzare la lotta, sabotare la produzione, bloccare le ferrovie, disarticolare la rete di controllo tedesca delle industrie italiane. Nelle fabbriche del Savonese viene capillarmente diffuso il seguente manifesto:



"Lavoratori,
da novembre ci battiamo per assicurare il pane a noi e alle nostre famiglie. Con la nostra combattività e la nostra unità abbiamo strappato agli occupanti tedeschi e fascisti e ai padroni loro alleati, qualche misera concessione e molte promesse. Ma quello che ci è stato formalmente promesso lo si vuole ora negare e le promesse fatte sono già state dimenticate...
Tutto continua peggio di prima. I fascisti e i tedeschi ci vogliono terrorizzare per affamarci. Nelle officine arrestano i nostri migliori compagni, arrestano ovunque i familiari di patrioti. Nelle carceri torturano bestialmente i prigionieri; dei pretesi tribunali ordinano delle fucilazioni in serie e i militi fascisti e le SS tedesche si abbandonano nelle nostre città e nei nostri villaggi a dei massacri di inermi e di innocenti cittadini...
Lavoratori!, Italiani!, dobbiamo avere fiducia nelle nostre forze. Il nemico non è forte: è feroce perchè ha paura e sente arrivare la sua fine. Già vacilla sotto i colpi che riceve su tutti i fronti. Che anche dal fronte interno, che anche da noi, riceva il colpo che lo atterrerà!"



Preparato con estrema attenzione, lo sciopero riesce compattamente anche a Savona. Gia il giorno 2 marzo in un messaggio alla Direzione del PCI Gian Carlo Pajetta segnala il grande successo ottenuto a Savona, tanto più importante considerato che a Genova lo sciopero è fallito, ma anche l’elevato numero degli arresti:



"Da Savona non ci sono notizie dirette. Riuscita totalitaria come si prevedeva. Solo lo stabilimento che aveva scioperato nei giorni scorsi è mancato. I negozi non si sono chiusi e sembra che il CLN all’ultimo momento non abbia marciato. All’Ilva sono entrati i tedeschi, ma lo sciopero è continuato. Anche a Vado sciopero, 40 arresti a Vado e 100 a Savona, secondo le prime notizie."



In effetti il prezzo pagato è alto. Incapaci di impedire lo svolgersi dell’agitazione, tedeschi e fascisti hanno risposto con la repressione più brutale. Alla Brown Boveri di Vado Ligure alcuni operai, considerati promotori dell'agitazione, vengono arrestati. Altri 27 operai vengono arrestati nello stabilimento SAMR, ad essi si aggiungono trenta lavoratori catturati alla Piaggio di Finale, mentre oltre un centinaio saranno i rastrellati all'ILVA di Savona.


Gli arrestati verranno prima trasferiti alla Colonia "Merello" di Spotorno, adibita a campo di concentramento e poi, dopo una sosta a Genova, deportati in Germania. 67 lavoratori, considerati inadatti al rigido regime dei campi di lavoro germanici, verranno direttamente avviati al tristemente noto campo di sterminio di Mauthausen da cui, a guerra finita, solo in otto faranno ritorno a Savona.

Nonostante la brutalità della repressione, lo sciopero generale è un successo. Lo stesso Ministero degli Interni della RSI deve riconoscere in un comunicato che nel savonese gli scioperanti si contano a migliaia. In un lungo articolo su La Nostra Lotta, Luigi Longo esalta il sereno eroismo degli operai savonesi che non si sono piegati alla repressione. Lo riportiamo integralmente:


"A Savona le autorità, a conoscenza della preparazione dello sciopero, avevano fatto affluire in città 300 bersaglieri che, insieme con un forte contingente di tedeschie di fascisti del luogo, iniziarono subito violente rappresaglie contro gli operai, specialmente i giovani.
Alto era lo spirito combattivo delle masse, dimostrato dal fatto che gli operai dell’Ilva, in questi ultimi mesi, dopo lo sciopero di dicembre, per ben tre volte erano riusciti a far sospendere dalla direzione il licenziamento di 1500 operai da inviare in Germania.
Il 1° marzo, gli operai dell’Ilva sono in prima linea ad incrociare le braccia. Nella mattinata, subito dopo l’attuazione dello sciopero, irrompono nello stabilimento due plotoni di tedeschi e molti bersaglieri che, armati di fucile mitragliatore, prelevano a caso dai diversi reparti circa un centinaio di operai e, fattili salire in camion, li portano prima in caserma, poi in questura e infine al campo di concentramento di Spotorno. Il mattino seguente la massa riprendeva il lavoro. Anche alla Servettaz lo sciopero riuscì in pieno il primo giorno, nonostante che anche qui molti operai fossero già stati arrestati e gli altri minacciati con le armi se non riprendevano il lavoro. Tutte le piccole officine di Savona si comportarono benissimo; scioperarono tutto il giorno e non ripresero il lavoro che dopo i grandi stabilimenti.
L’unico grande stabilimento di Savona che non ha partecipato allo sciopero è stato la Scarpa e Magnano. Le maestranze di quest’officina, poco tempo prima, avevano condotto un’agitazione per avere l’indennità di 500 lire in più delle 192 ore promesse dagli industriali. Tale agitazione portò all’arresto di alcuni operai e alla chiusura dello stabilimento per tre giorni. Il giorno 2, a Savona, alla partenza degli arrestati, ha avuto luogo una manifestazione di donne.
A Vado ligure, la mattinata del 1° marzo, alle 8, quasi tutti gli stabilimenti del settore entrano in isciopero, mentre gli altri sospendono il lavoro alle 10. La reazione della polizia fascista ottiene che la Brown-Boveri riprenda il lavoro, ma le altre maestranze restano in isciopero, parte fino a mezzogiorno, parte fino a sera. Si è particolarmente distinto lo stabilimento Materiali Refrattari che, protraendo lo sciopero anche il 2 marzo, veniva chiuso a tempo indeterminato dalle autorità. Alla Siap gli operai preferiscono abbandonare lo stabilimento, piuttosto che cedere alla pressione tedesca. Nell’Ilva Ferro-Rotaie vengono operati 23 arresti di operai, presi a caso. Nella notte fra il 3 e 4 marzo, vari autocarri di cosiddetti bersaglieri fascisti, guidati e informati da elementi traditori del luogo, si recano a Zinola con l’intento di effettuare numerosi arresti. I compagni ricercati tentano di fuggire; alcuni non vi riescono, essendo pressochè bloccate le strade. Nel tentativo di fuga un compagno viene ripetutamente colpito da colpi di moschetto. La sera del 4, egli decedeva all’ospedale: era un ex confinato politico, lascia la moglie e quattro figli.
A Finale Ligure, alle ore 10 del 1° marzo, entra in isciopero compatto lo stabilimento Piaggio. All’irrompere dei carabinieri nello stabilimento, questi sono affrontati con energia e risolutezza da alcuni operai, che rivendicano il diritto allo sciopero per non morire di fame. Dopo varie minacce, i carabinieri procedono ad incolonnare 150 tra operai ed operaie, per portarli fuori dello stabilimento con l’intenzione di incarcerarli; ma l’intervento degli altri operai impedisce questa azione. Lo sciopero continua compatto per tutta la giornata. La sera un manifesto dell’autorità tedesca anticipa il coprifuoco alle ore 19."



Lo sciopero generale, a cui partecipa quasi un milione di lavoratori in tutta l’Italia del Nord, costituisce tra l’altro la risposta degli operai alla legge sulla socializzazione delle imprese del 12 febbraio con cui Mussolini aveva tentato di recuperare consenso fra i lavoratori. La riuscita straordinaria dello sciopero, il fatto che, pur preavvertite, le autorità non siano state in grado di impedirlo, dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che le maestranze delle fabbriche del Nord non credono più alle promesse dei fascisti e che la propaganda del regime non ha più la minima presa su di loro. Anche a Salò c’è chi lo ammette senza reticenze. È il caso di uno dei capi del sindacalismo repubblichino che in una lucida (e coraggiosa) lettera a Mussolini descrive con estremo realismo lo stato d’animo delle masse e al contempo delinea i tratti contradditori di quella che sarà la politica comunista del dopo-liberazione:



"Le masse ripudiano di ricevere alcunchè da noi. […]La massa ragiona, anzi sragiona in un modo assai strano. Addossa al fascismo ed a noi il tracollo sul campo di battaglia, l’alleanza con la Germania che reputa funesta, l’invasione del territorio nazionale, la perdita dei possedimenti coloniali (dimenticando che l’Impero era stato creato da Voi); la distruzione delle città, i lutti sparsi dovunque copiosamente. Insomma, la massa dice che tutto il male che abbiamo fatto al popolo italiano dal 1940 ad oggi supera il gran bene elargitole nei precedenti venti anni, ed attende dal compagno Togliatti, che oggi pontifica da Roma in nome di Stalin, la creazione di un nuovo paese di Bengodi, nel quale, accanto ad un comunismo annacquato, cioè mediterraneo, direi quasi solare, dovrebbe soppravvivere una democrazia di marca anglo-sassone, pronta ad agire ed a frenare il prevalere delle ideologie che vengono da Oriente."



Come già a dicembre, anche in questa occasione la vendetta dell'occupante non si farà attendere. Il 15 aprile, in risposta al ferimento di un soldato tedesco avvenuto qualche giorno prima, tredici antifascisti prigionieri vengono condotti sul promontorio di Valloria e lì falciati a raffiche di mitra. Cadono così Attilio Sanvenero, Matteo De Salvo, Paolo Attilio Antonini, Edoardo Gatti, Francesco Falco, Pietro Salvo, Lorenzo Baldo, Nello Bovani, Mario Gaggero, Giuseppe Rambaldi, Aldo Tambuscio, Giuseppe Casalini, Angelo Galli. Per terrorizzare la popolazione per 22 giorni le salme restano insepolte, nonostante le accorate richieste delle famiglie e gli appelli del Vescovo di Savona. L’eccidio di Valloria avrà un seguito giudiziario nel primo dopoguerra. Il 3 ottobre 1946 un avvocato indirizza al Sindaco di Savona un dettagliato promemoria sull’accaduto chiedendo l’apertura di un’inchiesta e l’individuazione dei responsabili. Ma, come per le altre stragi compiute dai tedeschi, tutto verrà insabbiato. Due mesi più tardi il comandante dei carabinieri di Savona risponde con una nota di poche righe che «nessun elemento utile è stato raccolto» e l’inchiesta viene chiusa. In quel momento le sinistre sono ancora al governo e il comunista Fausto Gullo è ministro della giustizia.

(Da: Giorgio Amico, Operai e comunisti, La Giovane Talpa, Milano 2005)

68° Anniversario dello sciopero e delle deportazioni del 1° marzo 1944



L’Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei lager nazisti, le Organizzazioni Sindacali CGIL-CISL-UIL e l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Savona

1° MARZO 1944 IL CLN ALTA ITALIA PROCLAMA LO SCIOPERO CONTRO IL NAZISMO E LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA.
ADERISCONO 5200 LAVORATORI DELLA PROVINCIA DI SAVONA.
LA RAPPRESAGLIA NAZIFASCISTA IN RISPOSTA ALLO SCIOPERO EBBE COME CONSEGUENZE IL CARCERE, LA DEPORTAZIONE E LA MORTE DI MOLTI LAVORATORI.

68° ANNIVERSARIO DELLO SCIOPERO E DELLE DEPORTAZIONI DEL 1° MARZO 1944

“1° marzo 1944: una pagina di storia che diede vita alla Costituzione della Repubblica Italiana”
Solo la conoscenza del passato consentirà ai giovani di scrivere il futuro.

lunedì 27 febbraio 2012

Migrations culinaires: la cuisine francophone de chez nous




MIGRATIONS CULINAIRES
LA CUISINE FRANCOPHONE DE CHEZ NOUS

Trois soirées pour découvrir la richesse de la cuisine francophone dans notre territoire

Il mercoledì sera dalle 20.30 alle 22.00
presso i locali del CIAO a Torre Pellice, via volta 5

Nell’ambito dei progetti per la tutela e la promozione delle lingue minoritarie 2011/2012 saranno proposte tre serate dedicate alla cultura culinaria francofona, nel mese di marzo 2012.

Gli incontri serali con cadenza settimanale della durata di 1h30 (20.30-22) vedranno protagoniste tre donne provenienti da regioni francofone (Maghreb, Svizzera e Madagascar) che illustreranno in lingua francese le tradizioni gastronomiche dei loro paesi e racconteranno le loro esperienze di donne immigrate, “ideatrici forzate” di nuovi piatti che mescolano sapori e ingredienti di mondi diversi. Si prevede la dimostrazione
pratica della realizzazione di un piatto tipico.

Mercoledì 7 marzo 2012 - La cuisine marocaine à l’honneur
SAADIA EL-KAMLADI

Mercoledì 14 marzo 2012 - La cuisine suisse de chez nous
ROLANDE MOINAT

Mercoledì 21 marzo 2012 - Saveurs et parfum de Madagascar
MARIE-LOUISE RASDAMAHAFALY

Info: segreteria@fondazionevaldese.org - tel. 0121.932179
www.fondazionevaldese.org

giovedì 23 febbraio 2012

Ettore Cozzani tra letteratura e giornalismo




Ettore Cozzani tra letteratura e giornalismo


Nel foyer del Teatro della Corte di Genova prosegue, con il quarto appuntamento, il ciclo di incontri, organizzato dalla Fondazione Novaro in collaborazione con il Teatro Stabile, volto a rivisitare l’attività di alcuni autori liguri della prima metà del ‘900 che hanno avuto un ruolo di risalto nel panorama della cultura nazionale.


Giovedì 23 febbraio, alle ore 17, Elda Belsito e Marco Vimercati indagano la figura dello scrittore-editore-giornalista Ettore Cozzani

Nel corso dell’incontro, accompagnate da proiezioni, Maria Comerci darà voce ad alcune pagine dell’Autore



La rivista “L’Eroica” è, con la casa editrice omonima, l’immagine fedele del percorso morale e intellettuale di Ettore Cozzani alla ricerca della Poesia, intesa soprattutto come ragione di vita e di ogni forma artistica, ricerca condotta fuori dai circuiti canonici e dai vari salotti culturali, al di là di ogni scuola e movimento letterario; ricerca che lo ha relegato in un posto solitario nella storia delle nostre lettere, quasi ai margini dell’ufficialità..

Nato il 3 gennaio 1884 a La Spezia da famiglia di modeste condizioni, grazie a una borsa di studio frequenta la Scuola Normale di Pisa dove si laurea con una tesi sulla poesia sanscrita. Studia con Gioacchino Volpe e Vittorio Cian, ma subisce soprattutto l’influenza della figura di Giovanni Pascoli, di cui è allievo devoto e a cui dedica, nel tempo, numerose pagine di approfondimento.

Ben presto comincia a insegnare nella Scuola complementare pareggiata a La Spezia.

Nel 1911 assieme all’architetto Franco Oliva fonda la rivista “L’Eroica”, una rivista che si propone “di annunciare, propagare, esaltare la poesia, comunque e dovunque essa si manifesti: in ciascuna arte e nella vita”.

Nel 1912 organizza a Levanto la prima esposizione italiana di xilografia, evento di grande importanza di cui si festeggia il centenario appunto quest’anno con una mostra itinerante dal titolo “I cento anni della xilografia italiana”.

Tra i miti e modelli di poesia e di vita, oltre Pascoli, è d’Annunzio, che peraltro non collaborerà mai con “L’Eroica”. Cozzani, dopo molte peripezie, riesce però a coinvolger e il “vare” nell’inaugura­zione del monumento per l’impresa dei Mille, a Genova, il 5 maggio 1915.

Nel 1917 si trasferisce a Milano, dove continua la sua attività di scrittore ed editore. All’indomani della Seconda guerra mondiale, viene internato a Bresso ma presto rilasciato in quanto riconosciuto innocente. Prosegue la sua attività di editore e divulgatore fino alla morte, avvenuta il 22 giugno 1971.

Giornalista, editore e oratore (notabili alcune sue Lecturae Dantis), Cozzani è anche scrittore (suoi i romanzi La siepe di smeraldo, 1920; I racconti delle Cinque Terre, 1921; Le strade nascoste, 1921; Il Regno Perduto, 1927; Poema del mare, 1928).

lunedì 20 febbraio 2012

Claudio Carrieri, Abissi di speranza



Claudio Carrieri

“Abissi di Speranza” (Dipinti)

dedicati ai migranti che dall’Africa attraversano il Mediterraneo per approdare alle coste d’Europa

Palazzo del Commissario, Fortezza del Priamàr, Savona

Da giovedì 23 febbraio a sabato 24 marzo 2012

Inaugurazione: giovedì 23 febbraio ore 17.30


L’apertura della mostra sarà preceduta da una conferenza sui migranti, organizzata da FLC-CGIL, nella sala della Sibilla, alle ore 16.00

Alla mostra parteciperanno gli alunni delle scuole secondarie e del Liceo Artistico

Orario: da martedì a domenica 15.30-18.00
(mattino su prenotazione cell. 3289451144)



Claudio Carrieri

Il metodo

Le società sono in rapido mutamento, spinte, nello svolgimento inarrestabile della rete globale, a nuovi processi di relazione, a nuove connessioni. Adeguarsi a questi cambiamenti, con il compito di comporre i canoni del bello, è continuo esercizio dell’arte.

Laddove, sicuramente le scienze economiche, ma anche quelle tecnologiche e perfino la fisica fondamentale interagiscono con le dinamiche collettive, certamente la conformazione delle regole non può prescindere da scelte legate all’etica; questo, tanto più, vale per l’arte. Qui occorre che la ricerca artistica non si restringa al campo della pura estetica, ma acquisisca la coscienza, oserei dire scientifica, di un intervento concreto nella dialettica sociale.

In questo senso, su un altro versante, si ascriverà il punto di vista dell’arte alla discussione sulla qualità, la direzione, il significato delle conoscenze, ciò che per Edgar Morin è: “Il Metodo”. Ecco perché il fare artistico è destinato a diventare una delle più ardue attività umane e perché è necessario, oggi più che mai, che si rivolga verso nobili scopi come quello di porsi a trait d’union fra le persone e le loro comunità.

L’arte è complementarietà

Il “manufatto” artistico a questo punto si ridefinisce ancora attraverso le qualità che derivano dalla sua funzione, funzione che si può individuare soltanto partecipando al dibattito civile, non per rappresentare fazioni o ideologie, ma intervenendo direttamente nella definizione dei valori.
La leva emotiva, centrale nella tessitura di un migliore equilibrio sociale, appartiene, nella sua accezione più alta, all’arte.

Pensieri e culture distanti, se non addirittura inconciliabili, attraverso l’arte possono trovare affinità, possibilità per un completamento che non resti confinato nel cielo mentale delle pure ricerche linguistiche e formali, ma venga assimilato nelle coscienze e diffuso attraverso una luce perfino spirituale.

Questo tentativo è il valore aggiunto che scamperà l’arte dal rischio di arroccarsi sulle torri del concettuale o, ammantata di nero nichilismo, tornare a visitare il già visto, tradendo il limite del modello estetico borghese che, non riuscendo a superarsi, diventa autoreferenziale, declina e, tramontando, dell’arte annuncia la morte.

L’intento è quindi rivoluzionario: innovare, cambiare i parametri, assumere nuovi canoni di riferimento, fare piazza pulita del vecchio.
Ma Rivoluzione qui non significa sovversione dell’ordine sociale, al contrario, significa integrazione, reciproca acquisizione, sinergia valoriale: un processo di sviluppo culturale, dove l’arte diviene elemento catalizzatore, capace di stimolare la curiosità per l’altro, favorire l’incontro, l’armonia fra le diversità, con lo scopo di una crescita civile comune.

Da qui nasce: “Abissi di Speranza”

Questa mostra dichiara il valore politico del punto di vista dell’arte, che si può rinnovare solo se prende parte attivamente alla costruzione sociale. Solo così il suo linguaggio, depurato dagli orpelli concettuali, dal decadentismo estetico, può diventare autenticamente popolare, tornare ad essere accessibile ai più.

Bello è ciò che si rappresenta attraverso il buon gesto, buono è qualità concordata nel dibattito civile al quale l’arte deve partecipare schierandosi. Questa oggi è la genesi formale del bello.




Claudio Carrieri. Nato a Prince George (Canada) nel 1956 e oggi residente a Savona, lavorando nelle fabbriche di Albissola entra presto a contatto con artisti e ceramisti del posto e dal 1977 inizia a esporre come pittore e scultore in numerose mostre personali e collettive in Italia, Spagna, Portogallo, Canada.

venerdì 17 febbraio 2012

Giacomo Checcucci, Giorgio Morandi e Farfa


Torniamo a occuparci di Futurismo e di Farfa, "poeta record nazionale futurista" come si definiva lui, con questo intervento di un giovane e promettente ricercatore savonese.

Giacomo Checcucci

Giorgio Morandi e Farfa



Giorgio Morandi e Vittorio Osvaldo Tommasini, in arte Farfa, sono due artisti diversissimi e radicalmente differente è stata ed è la ricezione della loro opera da parte dell’ufficialità accademica. La loro arte, una agli antipodi dell’altra, non ha praticamente nulla in comune, e il successo mondiale di Morandi e la clandestinità intellettuale di Farfa stabiliscono uno scarto di fama per ora incolmabile. Un elemento in comune nonostante tutto esiste: i due artisti sono perfettamente coevi. Nato nel 1890 Morandi, nato nel 1879 o nel 1881 Farfa, morti entrambi nel 1964 il primo di malattia, il secondo investito da una motocicletta.

Giorgio Morandi è considerato uno dei più grandi pittori italiani del ‘900. Dopo un percorso accademico di successo e una prima fase vicina alla pittura “metafisica” di De Chirico e Carrà, Morandi intorno al 1920 si ritira nella sua casetta e ritorna ad una concezione più classica dell’arte. Vivrà tutta la vita nel suo appartamento/studio a Bologna di Via Fondazza n. 36 con la madre e le tre sorelle, conducendo un’esistenza tanto abitudinaria quanto cocciutamente dedicata alla pittura. Coerentissimo il tragitto che lo porta dalla “metafisica” al gruppo animatore della rivista Valori Plastici e infine alla riscoperta della classicità connessa al cosiddetto “ritorno all’ordine”, reazione tradizionalista allo spirito d’avanguardia e in particolar modo futurista. Studia la luce e i volumi con una caparbietà proverbiale e affina la tecnica pittorica quasi esclusivamente esprimendosi in nature morte. Passa quasi 50 anni in casa a dipingere tre bottiglie, un lume o un barattolo su un tavolino in scala di grigio e marrone. Pochissimi i ritratti e di minore rilevanza i paesaggi. Grande riflessione sulla luminosità e la disposizione delle forme nello spazio. L’estro è ridotto ai minimi termini. Bottiglie, lumi e barattoli in scala di grigio e marrone su un tavolino da salotto degli ospiti di una casa medioborghese. Questo è il massimo di fantasia che questo paese richiede ad un artista per celebrarlo come pittore simbolo di un secolo.

Farfa, Soubrette (1927)

La sua non è stata una fama critica postuma: intellettuali del calibro di Cesare Brandi, Roberto Longhi e Giulio Carlo Argan lo sostengono in vita, appoggiano il suo percorso artistico solitario, la sua ostinata e ossessiva ricerca, le sue brocche e i suoi vasi sempre uguali, nella sostanza, per decenni. Sebbene il soggetto sia sempre lo stesso, sta nelle impercettibili differenze di luce, colore e di tocco tra un dipinto e l’altro, il motivo di una stima così unanime. Più traspirazione che ispirazione, più mestiere che genialità. I suoi quadri nel corso dei decenni hanno visto incrementare in modo progressivo ed esponenziale le cifre dei prezzi, sempre più astronomici e sempre più incomprensibili.


Farfa era creatività pura: gioco, immaginazione e divertimento. Nasce a Trieste, vive a Torino, Savona e Sanremo ma gira l’Italia grazie alla sua vivacità umana e intellettuale. Non è un pittore con una seria formazione accademica, ma un autodidatta di vero talento con guizzi geniali. Etichettato giustamente o meno come pittore naïve e poeta illetterato se non analfabeta, non si è mai curato di dimostrare il contrario dedicandosi allo studio della tecnica pittorica o della retorica. Aderisce al Futurismo di cui sarà animatore in ogni sua città e al quale sarà fedele tutta la vita da una posizione eterodossa e sui generis che lo porterà a ricoprire, in virtù del suo spirito anticonformista, il ruolo di “futurista-antifuturista”. Il Futurismo celebra infatti la velocità, la macchina e la guerra e Farfa deride quei valori tanto quanto quelli tradizionali. Il suo futurismo, il suo avanguardismo è principalmente religione del nuovo.

In vecchiaia non si adagia sugli allori, anzi sui metalli visto che la sua corona futurista ottenuta in qualità di Poeta Record Nazionale è un casco d’alluminio. Aderisce quindi in tarda età ma alla Patafisica (la scienza delle soluzioni immaginarie) di cui è sempre stato rappresentante inconsapevole e rifiorisce grazie alla frequentazione tra Albisola e Milano delle giovani leve dell’arte italiana, tra cui l’amico Enrico Baj. Confrontandosi con i nuovi movimenti estetici esprime, anche nella sua ultima parte dell’esistenza, un’inventiva senza briglie. Una trovata dietro l’altra per 50 anni quindi, gli stessi impiegati in maniera così diversa da Morandi. Poesie sui tubi e sugli affari, quadri fatti con il domino o le monete, “cartopitture” con lime e limoni, botti e bottoni. Inoltre cartelli pubblicitari, abiti di moda, progetti cinematografici, canzoni, ceramiche, fotografie e opere teatrali. Mai ha avuto il successo meritato né in vita né dopo la morte pur possedendo ben oltre il minimo sindacale della fantasia: solo il critico/gallerista ribelle Arturo Schwarz sembra avergli concesso lo spazio e il ruolo che merita. A livello economico Farfa si è sempre barcamenato, grazie all’aiuto della paziente moglie e di alcuni buoni amici, visto che le sue opere non hanno mai avuto un prezzo tale nel mercato dell’arte da garantirgli una serena tranquillità economica.


Morandi, Natura morta (1947)

Farfa diceva dei “naturamortisti”, e quindi di Morandi, che occorre portare sulle loro tombe quadri con fiori e non fiori veri. Chi non ha saputo dare sfogo all’immaginazione non si merita, neppure da morto, la natura da copiare. Non si chiede quindi un reintegro di Farfa nella storia ufficiale, un ricollocamento della sua figura nella tradizione della pittura italiana del ‘900 in postazioni più alte di quella che occupa ora. Non si merita un torto così grosso. Né nessuno pretende, sia chiaro, un declassamento di Morandi. Rimane però l’interrogativo: la cultura di stato, nel delineare i sommersi e i salvati, nell’assegnare le poltrone in prima fila, i posti in piedi a fondo sala e relegare gli altri nomi nel sottoscala della storia dell’arte, è così monoliticamente giusta? Non che siano insindacabili i pareri dei singoli professori in qualsiasi realtà culturale, ma risulta evidente che l’elaborazione complessiva di un sistema di valori qualitativi di una data materia forse sia troppo osservata come un assioma insindacabile, una presa di posizione indiscutibile e un’impalcatura religiosa. Si dirà che i cambiamenti in sede critica esistono e sono sempre esistiti e che da sempre le “azioni borsistiche” dei pittori, degli scultori come dei poeti salgono e scendono nei libri di testo e negli studi critici. Esattamente come capita nel mercato. Ma il concetto sottinteso è pur sempre che l’accademia, suscettibile di errori, si approssimi gradualmente, nel suo giudizio complessivo, ad un’idea di verità, la qual cosa pensando a Farfa e a Morandi può parere così bisognosa di un ribaltamento radicale da sembrare completamente inverosimile. Il mercato però non colma o controbilancia questa lacuna: le opere di Farfa hanno oggi un costo molto esiguo rispetto a quelle di Morandi e nulla suggerisce un’inversione di rotta.


(Da: http://ccristoforoastengo.myblog.it/archive/2012/02/09/giorgio-morandi-e-farfa-di-giacomo-checcucci.html)

giovedì 16 febbraio 2012

Quali interessi dietro il carbone a Savona?



L’Italia risulta avere una capacità produttiva di energia quasi doppia rispetto alla massima richiesta.

Con la metanizzazione, soluzione meno invasiva, i posti di lavoro sarebbero comunque tutelati.
18 Comuni della Provincia hanno tutti deliberato contro l’ampliamento della centrale di Vado Ligure, una centrale sprovvista della obbligatoria Autorizzazione Integrata Ambientale, che continua da 40 anni a bruciare migliaia di tonnellate di carbone al giorno senza un controllo pubblico sulle emissioni delle ciminiere.

L’Ordine dei Medici parla di “minaccia reale e consistente alla salute ed alla vita dei cittadini” e la ormai enorme letteratura scientifica internazionale quantifica i danni alla salute delle polveri ultrafini derivanti dalla combustione del carbone, anche con filtri di nuova generazione.

I GUADAGNI ANDRANNO ALLE GRANDI LOBBY MENTRE AI CITTADINI SAVONESI RESTERANNO LE MORTI PREMATURE E I COSTI SANITARI.

NO AL CARBONE
SI ALLA METANIZZAZIONE

martedì 14 febbraio 2012

Piero Simondo, L'immagine imprevista



Mercoledì 15 febbraio 2012, ore 17.30
Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce

Via Jacopo Ruffini 3 - Genova


PIERO SIMONDO
L’IMMAGINE IMPREVISTA
Rendiconti, opere,interviste

Presentazione del volume di PIERO SIMONDO edito da Il Canneto, pubblicato in occasione dell´antologica dell´artista svoltasi la scorsa estate nell´Oratorio de´ Disciplinanti di Finalborgo.

Intervengono:

- Nicolò De Mari
- Giuliano Galletta
- Sandro Ricaldone
- Paola Valenti

Il volume, introdotto da un saggio critico di Sandro Ricaldone, raccoglie gli scritti in cui Simondo rievoca alcuni fra gli eventi e le esperienze che l´hanno visto protagonista, dalla creazione – con Asger Jorn e Pinot Gallizio – del Laboratorio Sperimentale di Alba, all´organizzazione del Primo Congresso Mondiale degli Artisti liberi, svoltosi nella città piemontese nel 1956, ed alla fondazione dell´Internazionale Situazionista, avvenuta l´anno seguente durante un soggiorno nella sua casa di Cosio d´Arroscia.

A questi si affiancano il resoconto di un lungo colloquio con Cesare Viel e le interviste degli anni ´90, in cui l´autore ripercorre le tappe fondamentali del suo itinerario creativo Completano il volume una significativa selezione di monotipi e dipinti realizzati fra il 1954 ed il 2008 ed una sezione dedicata a fotografie e documenti d´epoca.

Mauro Faroldi, Camminare per Atene con il cuore gonfio



Un reportage in diretta da Atene per Vento largo da Mauro Faroldi, vecchio e caro amico, che da anni vive e lavora ad Atene come giornalista freelance e traduttore.

Mauro Faroldi

12 febbraio, qui Atene

A casa, mi preparo spiritualmente per scendere in Piazza Syntagma, sarà una serata lunga e difficile. Gli autobus quasi non circolano, prendo un taxi, lo guida una bella signora sui 55 anni, non è abbrutita come lo sono la maggior parte dei taxitzídes di Atene, ha cura di sé, non ti alita in faccia il fumo della sua sigaretta, è gentile nonostante stia dodici ore il giorno in mezzo al traffico per mettersi in tasca si e no quaranta euro. Mi racconta che fa questo lavoro da solo un anno e mezzo, ma per lei è tanto, una vita. Ha tre figli, che vivono grazie al suo lavoro, la più grande è laureata, ha lavorato per sei mesi in un ufficio senza essere stata mai pagata, poi l’hanno cacciata dicendo che aveva problemi psicologici… Gli altri figli studiano, non mi parla del marito, sarà separata o vedova o semplicemente il marito è disoccupato e la carretta tocca tirarla solo a lei. Mi dice che non ha paura del presente, il presente si affronta, è il futuro che fa paura perché sembra non esistere.

Scendo a piazza Omonia, inizio a scattare fotografie risalendo via Stadiu per arrivare poi a Syntagma. È ancora presto ma la gente sta arrivando in piazza sempre più numerosa, alcuni giovani inveiscono contro i poliziotti schierati davanti al Parlamento: “Fate un lavoro di merda, anche a voi hanno tagliato lo stipendio e arriverete a prendere 300 euro il mese per fare i servi di chi ci sta affamando!”. Giro un po’ fra la folla a pochi metri dalla statua del milite ignoto, improvvisamente decine di clacson annunciano l’arrivo di un corteo sono decine di moto che accompagnano due auto. Sulla prima Manolis Glezos, classe 1922, eroe della Resistenza Greca, a 19 anni assieme a un compagno strappò la bandiera nazista dall’Acropoli, sulla seconda Mikis Theodorakis, 87 anni, una vita dedicata alla musica, anni e anni passati in galera, al confino, in esilio, un lungo percorso politico che dalla sinistra l’ha portato a essere un uomo di destra. La folla applaude commossa e urla: “Salvate la Grecia! Salvate la Grecia!”. Ma per “salvare la Grecia”, è necessario affondare prima la Grecia, delle banche, degli armatori, dei rentier, dei partiti arroganti, surrealisti e mafiosi. Manolis saluta bello e gagliardo, straordinariamente giovane per i suoi anni. Mikis arranca, cammina a fatica, ha un bastone ed è sorretto, al contrario di Manolis mostra un’imponenza che gli è rimasta nonostante le ferite del tempo.

Ogni minuto di che passa la piazza e le vie adiacenti sono sempre più piene, le stazioni del metrò straboccano di gente. Molti volti, specie i più giovani, sono allegri, altri sono seri tutti sono consapevoli che al “palazzo” i giochi sono già stati fatti, staremo a vedere chi, fra i deputati, si sfilerà da un voto plebiscitario ottenuto grazie a un gioco di pressioni e di ricatti. Con rabbia e disperazione la folla urla: “Na kaì! Na kaì! To burdelo tis Vulì”. Cioè “Deve bruciare! Deve bruciare! Quel bordello del Parlamento!”, certo non lo stanno mandando a dire….

Giro per la piazza per immergermi meglio nella folla, improvvisamente al cellulare mi chiama Antonio, ci troveremo più sotto a Stadiu, mentre mi avvio sento i primi botti dei lacrimogeni, sembrano bombe carta, la polizia inizia a caricare. Stadiu è piena di gente così Panepistimiu fino a piazza Omonia, faccio in tempo a trovarmi con Antonio e Sandra che veniamo investiti dai gas lacrimogeni, come tanti giovani e pensionati, insegnanti e casalinghe, lavoratori e disoccupati indosso la mia maschera antigas, un oggetto che va molto in Grecia di questi tempi. Saliamo verso Panepistimiu, il fumo dei lacrimogeni diventa insopportabile, la gente che accalca la strada arretra lentamente verso Omonia, arretra ma non si disperde vuole continuare a manifestare. In fondo a Panepistimiu il corteo del Pame, il sindacato legato al Partito Comunista, decide d’allontanarsi dalla zona calda e di concentrarsi più in giù in via 3 Septembriu, inquadrati come soldatini, protetti da un poderoso servizio d’ordine scendono verso piazza Omonia e via 3 Septembriu. Sandra e Antonio mi salutano, io rimango, decido di riavvicinarmi a piazza Syntagma, per strada ci sono ancora migliaia e migliaia di persone che vogliono manifestare la loro rabbia nonostante il centro di Atene si è ormai trasformato in un campo di battaglia e qua e là si vedono alzarsi lingue di fuoco. Nella confusione più totale sento vibrare il cellulare, è Teresa si è rifugiata a casa di un’amica, mi chiede di raggiungerla. Rimango ancora un po’, poi, facendo un percorso molto esterno al campo di battaglia raggiungo Teresa a casa di Mika. In tv vediamo la città in preda alle fiamme, bruceranno una quarantina di edifici, fra cui alcuni dei pochi edifici neoclassici sopravissuti a un’altra devastazione, quella edilizia degli anni ’50 e ’60. Alle due di notte il parlamento vota la legge che massacra salari e pensioni, i partiti del governo di “unità nazionale” si sono persi una settantina di deputati per strada, ma come appariva scontato, ce l’hanno fatta.

Mattino, mi alzo, trangugio un caffè e vado in centro. Atene è ferita, forse mortalmente, come sono lontani i fasti e le glorie dei giorni delle Olimpiadi del 2004! Scendo dal filobus davanti al Politecnico, dove nel ’73 i carri armati della giunta misero a tacere nel sangue i moti studenteschi, e vado verso Omonia. Il volto di chi incontri è triste, depresso, stravolto. Arrivo in piazza Klathmonos dove è bruciato un cinema, i pompieri sono ancora all’opera. Molti, attoniti si fermano a guardare, qualcuno scatta fotografie, l’odore dei lacrimogeni permane ancora e si mischia con il fumo degli incendi, non è una piacevole sensazione. Di fronte a quello che è rimasto dell’edifico un senza tetto dorme sotto un portico fra cartoni e vecchie coperte, pochi metri più in là accanto alla libreria francese Kaufman, fondata nel lontano 1918, anche questa sfasciata e saccheggiata, un anziano, fra vetri, pezzi di marmo e ferri, lustra le scarpe a un passante, non ha altro modo per vivere. Non molto lontano alcuni extracomunitari raccolgono tutti i ferri divelti nella battaglia di Atene, li andranno a vendere per pochi euro. Davanti alla libreria Ianos, una donna di mezz’età, invasata arringa alla folla dicendo che quello che sta succedendo è volontà di Dio per punire i nostri peccati.

Ho il cuore gonfio, riprendo a camminare, piazza Korais, via Panepistimiu, Akadimia, Syntagma, Ermu, Atinas ovunque devastazioni, stiamo vivendo in una società impazzita. Una società in cui pochi hanno tutti e molti non hanno niente non può essere che una società basata sulla violenza e i primi responsabili sono coloro che tutto hanno. Un pugno di banchieri decide di mettere un popolo alla fame, alla protesta legittima e sacrosanta si associa una protesta primordiale, bruta, cieca, autodistruttiva figlia di un’umanità che sembra destinata alla decadenza. Mi sembra di vivere in un paese senza speranza, non ho pianto per i lacrimogeni ma ora ho voglia di piangere, e qui non sono il solo.

Atene, Kypseli, 13 febbraio 2012


Mauro Faroldi (La Spezia 1956). Giornalista. Ha studiato Lettere ad indirizzo storico presso l'Università di Pisa. Ha lavorato in fabbrica e sui treni. Ora vive e lavora ad Atene.

sabato 11 febbraio 2012

martedì 7 febbraio 2012

Prendere la parola. Donne protestanti attraverso la storia






PRENDERE LA PAROLA: DONNE PROTESTANTI ATTRAVERSO LA STORIA
“A cosa ci serve ricostruire la memoria? Ha senso la ricerca di una genealogia femminile?

Le nostre antenate erano diverse dalle loro vicine di diversa confessione? Una maggior emancipazione delle donne protestanti ostacola la percezione della differenza sessuale?” E ancora: “Ha senso oggi parlare di femminismo? Quali sono le aspirazioni e i desideri delle donne oggi?”

A partire dal museo delle donne valdesi di Angrogna, un gruppo di donne rilegge con occhi di oggi il racconto di vita delle proprie nonne o bisnonne, con l’intenzione di estendere questa ricerca a chiunque ne abbia l’interesse, per contribuire ad innescare spirali virtuose sul cammino delle donne verso una vera libertà personale.


Fondazione Centro Culturale Valdese
Torre Pellice (To)
Museo delle donne valdesi
Angrogna (To)

Con il patrocinio del Comune di Torre Pellice

Prendere la parola
Donne protestanti attraverso la storia

18 febbraio 2012
Torre Pellice – Via d’Azeglio 10
Civica Galleria "Filippo Scroppo"

Programma

Mattino
Ore 10 Introduzione: senso del convegno e aspettative
Ore 10,30 Donne della Riforma: Marie Dentière e Caterina Schütz -Intreccio tra motivazioni teologiche e spinta all’eguaglianza
TOTI ROCHAT
Ore 11 Ugonotte e Puritane: Anna Trapnel e Marie Durand – Differenza e autorità
ANNALISA BOSIO
Ore 11.30 Suffragismo: Elisabeth Cady Stanton - Emancipazione e differenza
FEDERICA TOURN E GIOVANNA RIBET
Ore 12 Donne valdesi - Mamme, nonne, bisnonne
SABINA BARAL E INES PONTET
Proiezioni di immagini di accompagnamento alle presentazioni

Pomeriggio
Ore 14.30 La memoria del presente
Racconti significativi di donne di oggi
Interventi liberi sul tema
Dibattito aperto
Coordinatrici: GIOVANNA RIBET E FEDERICA TOURN
Ore 17 Conclusioni e chiusura
Rinfresco


Informazioni: tel. 0121932 79
segreteria@fondazionevaldese.org

lunedì 6 febbraio 2012

Gianluca Paciucci, Walter Binni ovvero quando la cultura diventa impegno politico



Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa recensione di Gianluca Paciucci, poeta d'avanguardia, educatore e intellettuale impegnato e per noi prima di tutto carissimo amico.

Gianluca Paciucci

Walter Binni, ovvero quando la cultura diventa impegno politico

Il volume di Walter Binni, La disperata tensione (Firenze, Il Ponte editore, 2011, pp. 354), a cura di Lanfranco Binni, cui si deve una puntuale e appassionata introduzione, è un'opera importantissima che fornisce ai lettori gli scritti politici del grande critico letterario perugino. Autore di fondamentali scritti di critica su Leopardi, Alfieri e sul Neoromanticismo, capace, ventitreenne, di creare un vero e proprio caso letterario con la sua tesi di laurea dal titolo La poetica del decadentismo (pubblicata nel 1936), Walter Binni emerge dai suoi scritti di intervento politico come un intellettuale di primo piano, intransigente e cosciente del ruolo che si può e si deve svolgere anche nei momenti più duri della vita di una nazione.

Binni è la smentita più efficace di chi sostiene la necessaria separatezza di una repubblica delle lettere lontana dal resto dell'umanità, nei cui confronti l'intellettuale avrebbe solo la possibilità di svolgere un ruolo di guida esterna, quasi fosse un sapiente (un tecnico?) cui chiedere l'elemosina di un parere illuminato, e non un essere in carne e ossa implicato nella rete della storia e dei rapporti sociali. Non si tratta di una vecchia discussione: così l'hanno trattata i vecchi e nuovi servi che, sulla “neutralità” delle arti e delle lettere hanno costruito fior di carriere per nulla neutrali, ma al servizio dei padroni di turno. Così hanno ammansito e abbrutito un popolo, facendolo crollare al loro triviale livello e diventarne infine il megafono: di un altro popolo, gioioso e combattivo, avevano paura, dovevano aver paura! Lo hanno avvilito, per guidarlo con le loro urla sguaiate.


IL POTERE DI TUTTI

Altro il popolo, altro il modello di intellettuale proposto da Walter Binni: letteratura e politica non sono mai separate, l'una entra nell'altra come fossero la stessa cosa, nemmeno il recto e il verso di un foglio, ma un'intimità serrata, che è critica non trasformabile in potere. Da quali modelli Binni attinge questa forza fusionale? I nomi non sono quelli né di uno sterile e delinquenziale zdanovismo né di un engagement un tempo alla moda, e nell'ultimo trentennio insultato dalle mute dei nuovi cani da guardia, forti di livore postmodernista o semplicemente clientes con la sportula da riempire. I suoi nomi sono quelli della radicalità poetico-politica di Leopardi, capace di individuare nei primi decenni dell'Ottocento le contraddizioni e gli inganni del nodo reazione/progresso, e al tempo stesso di proporre una via eroica e limpida di superamento del presente (i grandissimi versi della Ginestra, su cui Binni ha scritto pagine decisive); e quelli di alcuni grandi ancora misconosciuti del Novecento, da Michelstaedter (la “persuasione” contro la “rettorica”) a Capitini. I figli del mare dello scrittore goriziano, l'ultimo Leopardi (Pensiero dominante-A se stesso) e “Capitini e l'antifascismo: la disperata tensione”, insieme ad altri contributi, letture e ascolti, e a stringate osservazioni (quasi un testamento e già una rinascita) appaiono nei fogli di appunti lasciati da Binni “nel novembre 1997, a pochi giorni della morte”1: sono i nomi della fedeltà a un pensiero indomabile. In mezzo, con l'aiuto di questi tre, e poi per via subito autonoma e presto “magistrale”, Binni affronta l'oceano del Novecento con i mezzi vigorosi della critica sociale e letteraria. I primi testi raccolti in La disperata tensione risalgono al 1934-'35 (sulla questione tedesca, affrontata con piglio polemico anti-hitleriano, nella cui dottrina Binni riconobbe la centralità del razzismo), l'ultimo a pochi giorni prima della morte (“Il sorriso di Eleandro”, fortemente polemico contro chi vorrebbe leggere in Leopardi una “falsa disperazione omologata a mode 'nere' e nefaste”).

Il volume si articola in alcuni consistenti blocchi: gli scritti politici tra il 1944 e il 1947, culminanti nel discorso all'Assemblea Costituente (venne eletto nelle liste socialiste) del 17 aprile 1947, e altri testi dedicati alla scuola pubblica; gli interventi sulle vicende universitarie negli anni Sessanta, con l'altro grande discorso dedicato all'assassinio di Paolo Rossi (Omaggio a un compagno caduto. Orazione funebre per Paolo Rossi, pronunciata a Roma il 30 aprile 1966); i testi dedicati ad Aldo Capitini, maestro di vita, cui si legano i ricordi di Perugia -città di entrambi, e anche di Paolo Rossi e dei suoi genitori-, uno dei luoghi di Binni, insieme a Pisa (la Normale), Genova, Firenze e Roma (l'insegnamento universitario), ma luogo fondante, altissimo2 di dolci colli, e non di vette boriose. Proprio in terra umbra, e non poteva forse svilupparsi altrove, è nata la proposta politica di Capitini, quella omnicrazia, quel potere di tutti che è taglio netto e duraturo delle radici del potere, che è fine della sopraffazione, che è liberalsocialismo, nel senso di libertà nel socialismo, e non certo quel pasticcio velenoso che è diventata oggi questa parola sulle labbra di tanti, magari ex comunisti (da Occhetto in poi).

PER UNA SCUOLA LIBERA

Impressionante è leggere tutti gli interventi, articoli, recensioni e discorsi dedicati al tema della scuola pubblica, e anche avvilente, a nostra vergogna: la forza di Binni è la forza di un pensiero che non ha paura; la mediocrità dell'oggi è la paura nei confronti del pensiero. Non che nel primo dopoguerra o nei giorni che seguirono l'orazione funebre per Paolo Rossi, non ci siano state polemiche, anche grossolane e meschine. La stampa cattolica e di destra, le istituzioni universitarie, per lunghissimi decenni saldamente in mano a un baronato retrogrado, e singoli intellettuali attaccarono le posizioni di Binni, ma questi si difese, e fu difeso, e soprattutto sentiva -crediamo- la forza di un insieme di energie che in lui trovavano libero sbocco. E poi c'erano punti rigorosamente non negoziabili! A questo serviva l'egemonia culturale, campo di battaglia disertato da tutta quella sinistra che negli ultimi trent'anni ha sdoganato di tutto, da Bottai a Craxi a Cristo (atei devoti anche a manca...), in conversioni ridicole e concrete cessioni di sovranità, pagate caramente dal nostro Paese ma lautamente ricompensate ai neocon (il mediocre predicozzo di Giuliano Ferrara -24 dicembre 2011, Raiuno ore 20.30- sul bambin Gesù, è il punto di non ritorno della devastazione intellettuale trionfante).

Non negoziabile è il principio di una scuola pubblica e laica. Dice Binni nel sopra citato discorso all'Assemblea Costituente: gli articoli della Costituzione italiana dedicati alla scuola affermano “questi due grandi princìpi, cioè la libertà d'insegnamento e la possibilità per tutti di entrare in qualsiasi grado della scuola” al fine di “portare il maggior numero di persone al possesso dell'istruzione, della tecnica ed alla consapevolezza conseguente di questo possesso...” (p. 195); e poi, dopo aver argomentato contro qualsiasi sovvenzione alle scuole private perché “queste sovvenzioni hanno l'unico risultato di dare maggior forza alle scuole private diminuendo l'efficienza delle scuole di Stato”, ecco la perorazione finale: “Vorrei dirvi che la scuola pubblica ci unisce e la scuola di parte ci divide (...). Vorrei che non fosse rotta quella solidarietà, quell'unità, formatasi anche nell'esperienza dura della lotta contro il tedesco oppressore (...). Noi non portiamo un attacco, ma una difesa; non andiamo all'assalto dell'altrui posizione, ma vogliamo difendere la posizione della libera formazione...” (p. 202). Una difesa vincente: è grazie a posizioni intransigenti come questa di Binni, e nonostante l'articolo 7, che nell'Italia del dopoguerra la scuola è stata un bastione della vita democratica, che è vita “aperta” (il concetto di apertura è centrale nel lessico di Capitini), il cui contrario è la vita “chiusa”, preparata da scuole “chiuse”, da una chiusa formazione in scuole confessionali e di parte. Chi vuole chiudersi in uno di questi luoghi infelici, dicono Binni e la Costituzione, lo faccia, ma “senza oneri per lo Stato”. Oggi un discorso di questa levatura verrebbe trascinato nel fango delle urla di neocon e teodem, e messo all'indice da una gerarchia cattolica sempre più potente e prepotente. Noi all'intransigenza di Binni, e di non pochi altri e altre (Maestre e Maestri ce ne sono, basta liberarli e liberarle dagli ergastoli), dovremmo ispirarci, cominciando col leggere questo libro immenso.




Walter Binni
La disperata tensione
Il Ponte, 2011
Euro 20

Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".



sabato 4 febbraio 2012

Malcom X, gli afroamericani e le lotte dei popoli del Terzo mondo



"Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti eguaglianza e giustizia o qualunque altra cosa. Se sei un uomo, prenditela".

"Io vi parlo da vittima del sistema americano; vedo l'America con gli occhi della vittima e non riesco a vedere nessun sogno americano. Quello che vedo è un incubo americano".

Malcom X


lunedì 6 febbraio 2012, ore 20.30

Sala Rossa del Palazzo Comunale di Savona

nell'ambito dell'edizione 2012 della scuola di politica organizzata dal Partito della Rifondazione Comunista

Giorgio Amico parlerà di

Malcom X, gli afroamericani e le lotte dei popoli del Terzo mondo






"Piccolo delinquente "stilistico" che vive jazz, ballo e sesso come terreno preparatorio di un'esperienza spirituale decisiva, zoot suiter partecipe non così inconsapevole di una temperie culturale la cui onda lunga condurrà ai movimenti di liberazione dei decenni successivi, convitto che assume la religione in senso identitario e politico, leader influente, oratore efficace, minaccia pubblica. Nella biografia di Malcolm c'è tutto. Malcolm ha portato alla luce e reso manifesto un destino alternativo rispetto a quello dell'America bianca. La sua lezione è stata declinata nel senso della sopravvivenza individuale e comunitaria, l'energia della lezione è ancora incisiva, trasversale, onnipervadente, e non dà mostra di spegnersi. L'eco delle sue parole è ovunque."

Wu Ming 5 (Liberazione del 27 febbraio 2005)

"Agli occhi della gran parte dei neri americani Malcom X è diventato il simbolo dell'uomo che ha infuso coraggio ai neri, colui che ha impavidamente sfidato il razzismo ovunque e ha instillato nei giovani di colore l'orgoglio per la loro storia e la loro cultura."

Manning Marable (Malcom X, Donzelli 2011)





Io, l'altro


A Palazzo Imperiale, in Piazza Campetto 8 a Genova

giovedì 9 febbraio, alle ore 18.00


Presentazione di: Io, l'altro

Opere di Claudio Ruggieri alias Pintapiuma

disegni e dipinti realizzati tra il 1998 e il 2012 con maschere tradizionali dei popoli bassa, dan e mano ( Costa d’Avorio e Liberia)

dal 6 al 26 febbraio 2012

Orario: da mercoledì a sabato dalle 14.30 alle 18.30

su appuntamento telefonando a +39 329 9611927





Giuliano Arnaldi

Io, l'altro


"L'uomo che dipinse le Grotte di Lascaux scelse il luogo più buio e lontano, e presumibilmente inaccessibile. L'artista crea per se stesso, si ri/flette nella sua opera che probabilmente manifesta l'altro che c'è dentro ognuno di noi: questo altro si svela più o meno liberamente attraverso un codice di segno, materia, colore che narra, rappresenta la percezione assoluta di se, ovvero l'intuizione di quell'altro assoluto che è dentro ognuno e per il quale non si immagina ( o si teme, o si spera) la fine.

Il codice può essere consapevole, appreso da una tradizione oppure istintivo ed estemporaneo, ma è sempre innato, è l'elaborazione creativa di un complesso sistema neurofisiologico che qualifica l'uomo per ciò che è.

E' irrilevante che questo manifestarsi sia astratto o figurativo, sia forma, colore, segno o assenza totale o parziale di essi, che sia assolutamente realistico o addirittura reale oppure fantasmagorico, inquietante o surreale, proprio perché è il manifestarsi di quell'altro indefinito e indefinibile che sappiamo esistere dentro di noi, ma che non sappiamo, non vogliamo, non possiamo ri/conoscere.

Possiamo intuire di che pasta sia fatto, alimentato com'è dalle speranze, dalle paure, dalle domande , sopratutto le domande, quelle di sempre, quelle che la vita impone a volte in modo drammatico ma che sottotraccia scandiscono la quotidianità di ogni essere umano.


Alcuni, proprio gli artisti, hanno un dono: parlando di se riescono ad essere così essenziali e insieme articolati che parlano di ciascuno, e ciascuno si può riconoscere nell'essenza della loro opera.

Si dice che un'opera d'arte piaccia quando "ti prende", ed è proprio così: ti ri/conosci in uno stato d'animo, in un sentimento che è attivato da un segno, da un colore, da un suono. Quando ciò accade, si manifesta l'archetipo e l'opera è arte primaria, sia essa fatta ieri o quarantamila anni fa, sia essa di pietra, di terra, di metallo, dipinta, scolpita, incisa, suonata, cantata, raccontata, elaborata tecnologicamente o solo pensata…."

Questa sorta di dichiarazione di intenti di Tribaleglobale trova conferma nella leggera profondità di campo del lavoro di Pintapiuma , che oggi qui rinnova il dialogo con maschere ieratiche di popoli lontani, altri e per ciò così dentro il nostro sentire, con un sussurro incisivamente amplificato dalla coralità strepitosa di Palazzo Imperiale, dei suoi affreschi, del suo ritmo architettonico.

Condividere questo evento è davvero un' esperienza per ciascuno, non per tutti….