giovedì 30 agosto 2012

Finale ligure, Ricomporre Ipazia




L’assessorato alla Cultura del Comune di Finale Ligure in collaborazione con la Libreria Centofiori presenta

UN LIBRO PER L’ESTATE 2012

INCONTRI CON GLI AUTORI

venerdì 31 agosto
Piazzale Buraggi, lungomare di Finalmarina

Inizio ore 21.15

Silvia Aonzo, Betti Briano, Vilma Filisetti e Gabriella Freccero presentano:

Ricomporre Ipazia

Edizioni Tribaleglobale

Conduce Gloria Bardi

sabato 25 agosto 2012

Franco Astengo, Praga 1968




Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di Franco Astengo, come sempre assai stimolante. Una sola considerazione: ci pare sopravalutata la funzione de il Manifesto. In realtà l'esaltazione acritica della rivoluzione culturale e del maoismo da parte di Rossanda & C dimostrava già allora (e la storia successiva del   partito e del giornale lo avrebbe confermato) come il gruppo de Il Manifesto fosse parte del problema e non della soluzione.

Franco Astengo

Praga '68 e le contraddizioni ancora operanti nella sinistra italiana

21 Agosto 1968: i carri armati del Patto di Varsavia entrano a Praga, spezzando l'esperienza della “Primavera”, il tentativo di rinnovamento portato avanti dal Partito Comunista di Dubcek.

1968: l'anno dei portenti, l'anno della contestazione globale, del “maggio parigino”, di Berkeley, Valle Giulia, Dakar, della Freie Universitaat di Berlino svolta verso il dramma.

Si chiude bruscamente un capitolo importante nella storia del '900.

Come mi accade ogni anno, e a rischio di apparire assolutamente ripetitivo, mi permetto di disturbare un certo numero d’interlocutrici e interlocutori per ricordare i fatti di Praga.

 Una riflessione sui risvolti che quell'avvenimento ebbe sulla sinistra italiana: si compirono, in quel frangente, scelte che poi avrebbero informato la realtà politica della sinistra italiana per un lungo periodo e, ancor oggi, si può ravvisare la presenza di “contraddizioni operanti”.

Prima di tutto l'invasione di Praga spezzò lo PSIUP: a distanza di tanti anni possiamo ben dire che si trattò di un fatto politico importante.

Il partito, rappresentativo dell'esperienza della sinistra socialista che aveva rifiutato nel 1963 l'esperienza di governo con la DC, aveva appena ottenuto (il 19 Maggio) un notevole risultato alle elezioni politiche (il 4,4% dei voti con 24 deputati) e su di esso si era appuntata l'attenzione di molti giovani che avevano cominciato a ritenerlo l'espressione di un avanzato rinnovamento a sinistra: lo PSIUP si spaccò in due, da un lato il vecchio gruppo dei “carristi” approvò incondizionatamente l'invasione con toni da antico Comintern (come nessun altro settore della sinistra italiana, usando un’enfasi non adoperata neppure dalla corrente del PCI vicina a Secchia); dall'altra esponenti di spicco del “socialismo libertario”, epigoni della lezione di Rosa Luxemburg, come Lelio Basso e Vittorio Foa, si misero da parte; ma soprattutto furono i giovani, al momento protagonisti del '68, a ritrarsi. Lo PSIUP iniziava così la china discendente, che sarebbe culminata nell'esclusione dal Parlamento con le elezioni del 1972: un evento ripetiamo di un peso rilevante sulle future sorti della sinistra, in particolare al riguardo delle possibilità di aggregazione, iniziativa politica, capacità di rappresentanza di quella che sarebbe stata la “nuova sinistra” di origine sessantottesca.

Il peso più importante, però, della drammatica vicenda praghese ricadde, ovviamente, sul PCI.

Il più grande partito comunista d'Occidente si trovava, in quel momento, in una fase di forte espansione elettorale (il 19 Maggio aveva raccolto 1.000.000 di voti in più rispetto all'Aprile 1963) ma in difficoltà organizzativa, in calo d'iscritti, non avendo ancora superato il trauma dell'aver svolto un congresso inusitatamente combattuto come l'XI del 1966, il primo celebratosi dopo la morte di Togliatti, e contrassegnato dallo scontro (ovattato, ovviamente, com'era costume dell'epoca, ma vissuto intensamente in una larga fascia di quadri) tra le ragioni di Amendola e quelle di Ingrao.

Inoltre il quadro europeo appariva alquanto problematico: il PCF appariva scosso dall'impeto del Maggio e si rinchiuse in una rigida ortodossia, PCE e PCP erano piccoli partiti ancora clandestini, la Lega dei Comunisti Jugoslavi obbedì, ovviamente, alla ragion di stato.

La notizia dell'invasione piombò su di una deserta Roma agostana: i principali dirigenti del PCI erano in ferie, tutti al di là della cortina di ferro. Unico componente della segretaria presente in sede era Alessandro Natta che, in tutta fretta e con i mezzi dell'epoca, contattò gli altri compagni, per varare un documento che suonò immediatamente come un punto molto avanzato di condanna dell'invasione.

Tralasciamo, per brevità, la narrazione del fortissimo dibattito che si scatenò subito, alla base del partito, nelle sezioni, nei comitati federali di tutte le province: un dibattito dove si registrarono anche elementi di netta contrapposizione e di insofferenza, da parte dei settori più arretrati del partito, verso quelle che sembravano le scelte del vertice.

Inoltre il PCI era chiamato a difendere le posizioni di apertura tenute verso il nuovo corso cecoslovacco: qualche mese prima si era svolto, infatti, un incontro tra Longo e Dubcek.

I problemi maggiori, come era prevedibili, vennero dall'esterno e, più precisamente, dall'URSS: la pressione del PCUS per un arretramento nelle posizioni dei comunisti italiani e, semplificando al massimo un vigore di dibattito che ripetiamo risultò altissimo e del tutto inedito per la vita del partito, si arrivò, dopo un incontro Cossutta- Suslov avvenuto a Mosca a una sorta di rientro nell'alveo.

Di quale alveo si trattava?

Il PCI, nella sostanza, si assestò all'interno dei confini della linea tracciata da Togliatti, dopo il XX Congresso del PCUS e l'invasione dell'Ungheria del 1956.

Alla base di tale linea c'era la convinzione secondo cui il modello staliniano, essendo collegato alle condizioni di arretratezza e di accerchiamento in cui si era sviluppata la rivoluzione russa, era destinato a evolvere verso la democratizzazione nella misura in cui si fosse compiuto il processo di industrializzazione, urbanizzazione e alfabetizzazione e nella misura in cui fosse avanzato il processo di distensione internazionale.

Ancora più a fondo, c'era la convinzione che l'autoritarismo politico e la centralizzazione amministrativa, nei paesi dell'Est, fossero fenomeni prevalentemente istituzionali, rappresentassero un ritardo e un’incongruenza della sovrastruttura rispetto alla struttura.

Il gruppo dirigente sovietico rimase così l'interlocutore, come protagonista necessario di una riforma graduale.

Nessun altro soggetto, anche del dissenso comunista, seppe rispondere adeguatamente su questo terreno: né trotzkisti, né maoisti, né terzomondisti. Forse soltanto in alcuni settori della socialdemocrazia di sinistra (cui si accostarono, in seguito, esuli della primavera praghese riparati in Occidente) si registrarono fermenti rivolti nel senso di una ricerca più avanzati.

Nel PCI si registrò, invece, un confronto inedito che diede origine a un aspetto particolare di quello che, poi, per molti anni fu denominato “caso italiano”.

Un gruppo di intellettuali che, nel corso dell'XI congresso avevano sostenuto le posizioni di Ingrao, aveva via, via, elaborato posizioni autonome in contrasto netto con la direzione del Partito, dando anche vita a una rivista teorica ”Il Manifesto”, promotrice di un ampio dibattito e seguita con molto interesse anche da settori esterni al PCI.

Tralascio, ovviamente, anche la narrazione di questa vicenda perché si tratta di un'altra storia, del resto ben conosciuta, per limitarmi alle posizioni che si espressero sulla vicenda cecoslovacca in contrasto con quelle ufficiali.

Le posizioni del “Manifesto” partivano dalla considerazione che ripetere “vogliamo il socialismo nella democrazia”, magari aggiungendo che democrazia è continua espansione dell'iniziativa di più non bastava più.

Era necessario, invece, partire dal dato che nei paesi del “socialismo reale” ci si trovava di fronte alla restaurazione di una società di classe, e che lì stava la radice dell'autoritarismo.

Bisognava interrogarsi sul come mai questo dominio di classe non potesse permettersi il lusso quantomeno di un pluralismo di facciata, e avesse bisogno di un soffocante apparato repressivo e di un’ideologia autoritaria, che pure gli creavano non pochi problemi.

Al PCI, alla sinistra occidentale, toccava rispondere compiendo uno sforzo serio per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell'economia, dello Stato, delle forme di organizzazione, così che l'egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all'interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale.

Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema.

Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un'opposizione cui dar vita dall'interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un'alternativa.

Queste posizioni, sommariamente ricordate in questa sede, risultarono sconfitte, emarginate, espulse.

Non è ovviamente nostra intenzione ricostruire la storia con i se e con i ma: il nostro giudizio è quello che la scelta maggioritaria assunta dal PCI in quel cruciale tornante della storia causò il formarsi di alcune contraddizioni di fondo che, ancor oggi, risultano operanti, come si diceva all'inizio.

Proprio il mancato superamento di quelle posizioni ancora interne alla logica del XX Congresso e presenti in dimensione rilevante nel PCI al momento della caduta del muro di Berlino, nel 1989 e nonostante alcuni seri tentativi compiuti nella metà degli anni'70 dalla segreteria di Enrico Berlinguer (segretaria accantonata, nei suoi contenuti di fondo, dai “nuovisti” non tanto per i tanti e gravi errori politici commessi nel corso della sua gestione, ma per l'accusa di “moralismo”), consentirono agli “ultras estremisti” (ricordate ci sono anche gli estremisti di un presunto moderatismo; scambiato con la subalternità e la sudditanza psicologica nei confronti delle posizioni dell'avversario da unire alla bramosia di essere “ricevuti a palazzo”) del PDS e poi del PD di cacciare via l'intera tradizione ideale, storica, politica dell'area comunista italiana e di trasformarsi in una semplicemente componente del “cartel party” che agita, inutilmente, il teatrino televisivo e salottiero della politica italiana.

Aver mancato una vera e battaglia politica su Praga'68 causò, quindi, nel PCI una crisi (apparentemente soffocata dai grandi successi elettorali del partito negli anni'70) che esplose vent'anni dopo e agisce, ancor oggi, nella totale deriva che la sinistra italiana sta subendo sulla strada della sua estinzione quasi compiuta e rappresenta, purtroppo, un elemento di freno nella possibilità di riaprire una discussione seria su una prospettiva di sinistra capace di raccogliere il meglio dei suoi diversi filoni d’origine.

lunedì 20 agosto 2012

Ralph Rumney, Cosio d'Arroscia 1957



Fui invitato a Cosio d' Arroscia. Ci andammo e Debord tirò fuori questo manifesto che aveva scritto.

Simondo aveva una casa là. Era amico di Jorn e Jorn viveva non troppo distante da Cosio.

Comunque Piero aveva questa casa dove avremmo potuto alloggiare e mangiare senza spendere.

Restammo là per una settimana bevendo da matti e fu così che si formò l'Internazionale Situazionista.

Ralph Rumney








Foto di Ralph Rumney - Nell'ordine sono ritratti Piero Simondo, Guy Debord e Michèle Bernstein

Alfredo



Giorgio Amico

Alfredo

Città ventosa Savona, battuta dal Maestrale, dal Libeccio e dalla Tramontana. E il vento produce effetti strani. Può fare uscire di testa, almeno così diceva Cesco, il partigiano, che aggiungeva: guardatevi intorno, ragazzi, vedrete se non ho ragione.

E in effetti, bastava guardarsi attorno. C'era Moto Gilera, spericolato acrobata su due ruote e mistico bestemmiatore compulsivo e Madonna degli Angeli, dalla stinta tuta blu da ginnasta coperta di medaglie di latta e dai gambali di gomma e Mercedes con gonne svolazzanti e treccine di bimba  a contornare un volto rugoso di vecchia.

Ma il più grande di tutti era Alfredo, l'uomo-cavallo. Nessuno sapeva chi fosse davvero e da dove venisse. Su di lui correvano leggende. Trauma da bombardamento, si diceva. Forse era andata così e forse no. Per tutti era Alfredo e questo bastava.

Attaccato alle stanghe di un carretto, percorreva le vie di Savona dal mercato all'ingrosso di Corso Ricci al Mercato Civico al Porto. Trascinava carichi incredibili, montagne di cassette di frutta e verdura, dall'alba a mezzogiorno. Man mano che il mattino avanzava aumentavano le soste davanti alle osterie e si alzava il tono della sua voce.

Lo sentivamo arrivare. Lo precedevano le sue urla, frasi gridate al cielo. Quando arrivava davanti al Liceo si fermava, mollava le stanghe e guardava in alto verso le finestre di quel palazzo austero. Sapeva che lo aspettavamo. 

Una testa faceva capolino seguita da molte altre. E poi le grida di incitamento: Alfredo! Alfredo! discorso! discorso!

E Alfredo non ci tradiva mai. Portava le mani ai fianchi, assumeva una posa marziale, alzava il mento e gridava: Iddio ha creato il mondo e io dichiaro la guerra.

Duce! Duce! - gridavamo in coro.

Afredo scattava sull'attenti, il braccio levato nel saluto romano. Poi si attaccava di nuovo alle stanghe di quel carretto stracarico e riprendeva il suo cammino.

Povero, vecchio Alfredo, uomo-cavallo bastonato dagli uomini e dalla vita, che non aveva mai incontrato un Nietzsche capace di condividere nell'attimo di un abbraccio la sua disperazione. Solo noi ragazzi, irridenti e sguaiati, troppo giovani per capire che di noi si trattava. Che anche noi avremmo tirato la vita fra le stanghe di quel carro gridando per farci coraggio la nostra verità a un cielo vuoto.

sabato 18 agosto 2012

Nel ventre di Napoli dove i teschi sono sacri




Napoli, città bellissima e misteriosa, sospesa fra modernità invadente e riti senza tempo. Ci arrivammo di sera che il sole tramontava dietro Capo Miseno tingendo di sangue le case e la baia.

Marino Niola

Nel ventre di Napoli dove i teschi sono sacri

Migliaia di crani allineati sopra interminabili file d’ossa. Come i volumi di una biblioteca surreale che si snoda lungo cunicoli misteriosi. Un labirinto sotterraneo che sembra disegnato dalla mano di un naturalista barocco di casa nella tenebra. Sono le anime abbandonate di Napoli. Le chiamano le pezzentelle, le piccole mendicanti. O, semplicemente, le capuzzelle, cioè le testoline. Protagoniste di un culto che sembra irrompere da lontanissime regioni del tempo, come se le porte dell’Ade si spalancassero improvvisamente sulla contemporaneità.

Una scheggia di passato che arriva dritta al cuore del presente. È quel paganesimo sottotraccia che attraversa l’Italia come una corrente segreta, un’energia del passato che sopravvive alla tecnologia, alla ragione, alla secolarizzazione.

Questi corpi senza nome, usciti dalle fosse comuni degli appestati, affollano il cimitero delle Fontanelle, un ossario che insinua i suoi meandri sotto la collina di Capodimonte. Siamo nel popolarissimo quartiere della Sanità. Ma ci sono capuzzelle anche in altri sotterranei della città. La chiesa seicentesca del Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali, le catacombe paleocristiane di San Gaudioso alla Sanità e la basilica di San Pietro ad Aram, una porta degli inferi a due passi dalla stazione centrale. In realtà il sottosuolo di Napoli è una città sotto la città, densa e brulicante come quella di sopra.

Da secoli la pietà popolare ha fatto di questi sans papier dell’aldilà i suoi numi tutelari. Perché li identifica con le anime che soffrono in purgatorio. E continuerebbero a soffrire per l’eternità se non fosse per i devoti che accolgono nel loro pantheon familiare questi spiriti in pena. Mettendoli sugli altari domestici insieme ai propri cari. Risultato, migliaia di anni di purgatorio condonati. Così la concezione indulgenziale della vita, tipica della mentalità popolare napoletana, si proietta nell’altro mondo facendone un riflesso ultraterreno del vicolo. E della sua concitata communitas, fatta di un continuo scambio di favori, di beni, di servizi. Un do ut desche abbraccia vivi e morti in un cosmorama alla García Márquez. I riti che si celebrano in questo perturbante underground sono ciò che resta di cerimonie misteriche precristiane che simulavano la discesa agli inferi. E che avevano spesso come location ipogei e luoghi sotterranei. Non a caso la chiesa ha sempre combattuto queste forme di culto, ritenendole delle sopravvivenze pagane. E soprattutto ha condannato con forza la pratica dell’adozione, che di questa religione nella religione, rappresenta il vero mistero doloroso. I seguaci delle capuzzelle dicono di ricevere in sogno l’anima di un defunto che racconta la propria storia e rivela quale sia il suo cranio. Nome e collocazione. Un riconoscimento postumo insomma.

Così, come guidati da un navigatore soprannaturale, i devoti vanno a colpo sicuro e individuano tra mille la testa da accudire. È un caso paradossale di adozione a distanza. Perché quel che si fa per il teschio va a beneficio dell’anima. È esattamente quello che i Greci chiamavano chrematismos. L’apparizione notturna di un morto assetato in cerca di refrigerio. Non per nulla la cura tradizionale delle anime pezzentelle si chiama refrisco, che significa appunto refrigerio. E che consinatori. ste in una sequela di gesti molto materiali e al tempo stesso molto simbolici. Oltre alle preghiere e all’accensione di lumini, infatti, il cranio viene meticolosamente pulito e lustrato con alcol e ovatta. E messo in naftalina. Materialmente disinfettato e metaforicamente purificato. Azioni che sostituiscono le astrazioni della teologia. La pulizia progressiva delle ossa corrisponde ai tempi di purificazione dell’anima. È la dottrina del purgatorio a uso e consumo dei poveri. Lévi-Strauss avrebbe parlato di pensiero concreto, Henry James di munificenza del cuore. Una generosità sub condicione però. Perché alle anime viene chiesto di ricambiare. Concedendo grazie e favori, proprio come i santi. C’è chi chiede un lavoro, chi è in cerca di marito, chi vuole disperatamente un figlio, chi ha bisogno di trovar casa. E soprattutto malati che domandano di essere guariti. Ma c’è anche chi si aspetta che le anime ricambino il favore dando numeri da giocare al lotto. Proprio come nel mondo antico, dove gli spiriti dei morti senza nome venivano consultati a scopi divinatori.

Quando la grazia arriva il cranio riceve una sorta di beatificazione popolare. Da quel momento diventa una testa potente, una capa gloriosa, esce dalla schiera anonima e viene solennemente sistemato in un tempietto di marmo e vetro con i nomi dei miracolati. Così nel tempo è nato un vero gotha delle capuzzelle. Lucia, detta anche la sposa, che regna nella tenebra del Purgatorio ad Arco e protegge le donne giovani che le offrono il loro velo nuziale. La capa rossa, detta anche il postino delle anime, perché appare in sogno a portare buone notizie. Ma se gli spiriti abbandonati sono generosi con chi si prende cura di loro, a volte sanno essere molto vendicativi con chi li provoca. Lo dimostra la storia del Capitano, temutissimo convitato di pietra degli inferi partenopei. Di lui i devoti parlano facendosi il segno della croce. E raccontano che un giorno il suo cranio venne oltraggiato da un miscredente che gli diede un calcio ed ebbe addirittura la sfrontatezza di invitarlo a cena. La vendetta non si fece attendere. Il morto offeso arrivò puntualmente e per il padrone di casa non ci fu scampo. In realtà è la versione popolare del mito di Don Giovanni, l’uomo che invita a cena il morto. E forse è proprio la leggenda napoletana il nucleo sorgivo del Don Juan di Molière e poi dell’immortale creatura di Mozart.

Queste camere di compensazione del soprannaturale che cerca di risalire alla luce del sole sono fatte apposta per accendere fantasie artistiche e letterarie. Da Herman Melville a Walter Benjamin, da André Gide a Gustav Herling, da Roberto Rossellini fino ad artisti come Joseph Beuys, Rebecca Horn e Francesco Clemente hanno subito il fascino di questi baratri del senso. Oggi quelle che per generazioni di napoletani furono gli hotspot del regno delle ombre, aperti a schiere di devoti capaci di connettersi con le “voci di dentro”, accolgono folle di turisti in cerca di mistero. Da soglie dell’ombra a musei della pietà. Da luoghi cultuali a beni culturali. Discese agli inferi con audioguida.

(Da: la Repubblica del 17 Agosto 2012)

giovedì 16 agosto 2012

Cari professori, non date mai meno di 4 agli studenti




Se scopo della scuola è aiutare i giovani a conoscersi e a trovare la propria via, in altre parole a crescere come persone autonome e responsabili, come si può giorno per giorno distruggere l'autostima di chi ti è stato affidato e chiamarlo educazione?

Mariapia Veladiano

Cari professori, non date mai meno di 4 agli studenti

E poi bisogna anche parlare dei voti. Perché se i test non hanno vita felice qui da noi in Italia, e il perché lo ha raccontato per bene Stefano Bartezzaghi domenica, poi però tutti i test, proprio tutti, diventano numeri che danno idoneità, promozioni, accessi all’università o a selezioni. Sì e no ai nostri progetti di vita. Un test è un bivio: di qua o di là. Per questo non può essere sbagliato, sciatto, ambiguo. E anche quando è perfetto, è solo un puntino nello scorrere dei giorni e delle esperienze di una persona. Niente di più. Dovrebbe. Soprattutto a scuola, dove i test dilagano, importati all’ingrosso dal mito dell’oggettività del valutare. E diventano voto.

E allora parliamo del voto. E quindi della valutazione, della scuola che vogliamo, del mondo in cui viviamo. Tutto si tiene quando si parla di scuola e di ragazzi.

Dopo decenni ormai di letteratura sulla valutazione, il voto incendia sempre ancora le discussioni più scomposte. È così sovraccarico d’altro che quando è negativo per legge sparisce dai tabelloni finali, quasi che l’insufficienza a scuola sia stigma di insufficienza personale e umana di fronte all’universo mondo. E a volte, lo sappiamo, capita qualcosa che non può nemmeno essere nominato. Eppure i giornali devono scriverne. C’è chi, giovanissimo, prende un brutto, bruttissimo (troppo brutto?) voto a scuola e poi ci lascia. Lascia la sua vita.

Sotto quale cielo può capitare questo? Se la vita è altrove – sta scritto nei diari di scuola pieni di tutto: foto, ritagli, lettere, poesie, canzoni, fiocchi di regali, che sporgono colorati, di tutto tranne cose di scuola – allora perché il voto cattivo può per un momento magari, solo un momento, diventare il mondo che si rovescia addosso?

Dei ragazzi spesso non sappiamo nulla. Ostentano quel che non sono per nascondere meglio quel che vorrebbero essere. Dopo la tragedia si dice: ma come si fa? La scuola non può farsi carico di tutto. Ed è così.

Ma valutare è uno dei suoi compiti, serve a capire se il passo di chi insegna è giusto, se chi apprende lo sta facendo, a certificare al mondo che un percorso è compiuto davvero, che ci si può fidare, che quel diploma racconta ciò che i ragazzi sanno e sanno fare e che anche grazie a questo sapranno diventare quel che desiderano.

A scuola la valutazione incrocia tutto intero il tempo in cui i ragazzi esplorano ancora intatte tutte le loro possibilità, cercano conferme del loro valore, hanno paura di non trovarle. È la formazione del sé. Un momento benedetto. In cui ci vuole tempo, spazio per l’errore, e per rimediare all’errore. La valutazione degli apprendimenti, e oggi delle competenze, accompagna questo periodo e pur in una cornice che deve essere definita, chiara, rigorosa e comune, la scuola deve sempre sapere che la vita sorprende, che tutto può accadere, nel bene e nel male. Il voto è solo lo strumento che ci siamo dati per comunicare fra professori, ragazzi, famiglie, mondo. Non è nemmeno così necessario, almeno all’inizio. La scuola trentina prevede che nei primi quattro anni delle elementari i bambini siano valutati per aree di apprendimento.

Non ci sono voti per le singole discipline. A dire che il processo che porta un bambino ad avere gli strumenti per valorizzare le proprie attitudini è meravigliosamente unitario. E non ci sono i voti fino alla terza media. Ci sono giudizi. Articolati ma non bizantini, poche voci che dicono come e cosa è accaduto. Vien così meno la tentazione di quella contabilità lineare della valutazione che i ragazzi delle superiori consegnano a volte all’ultima pagina (il valore simbolico degli spazi!) dei loro diari: cinque più, sei e mezzo, quattro, sei = 5,44. Sarà sufficiente o no? Versione artigianale di certi fogli di excel che invece capita siano i professori a compilare. Ma lo sappiamo che questo non è valutare. Nella didattica modulare, se la verifica mostra che i contenuti del modulo sono stati fatti propri, il voto va a sostituire quello eventualmente negativo nella verifica precedente. Il modulo è appreso. Il brutto voto è rimediato. La recente riflessione sulla valutazione autentica chiede verifiche che mettono in gioco la scuola e la vita, e portano lo studente a misurarsi con quesiti di realtà.

Lo sappiamo ormai che la valutazione è un processo di osservazione, interazione, che chiede tempo e trasparenza e tanta tanta fiducia. Reciproca. Lo studente che si fida, perché ha visto già molte volte che tutto è equo e chiaro: richieste, criteri, modalità di recupero. L’insegnante che si fida dello studente, gli dà credito: di poter migliorare, poco a poco, perché la fiducia dell’altro attiva la fiducia in se stessi. Ai ragazzi la scuola importa, eccome. Nelle aule costruiscono la rete di fiducia in se stessi e negli altri che permetterà loro di resistere anche alle sconfitte.

Certo, poi alla fine c’è un voto. Una sintesi, un punto in cui si concentra tutto il processo. E allora, alla fine, si può parlare del voto. Al riparo dalla carica emotiva perché il voto è anche potere: quanta letteratura e quanta esperienza ce lo hanno raccontato? Al riparo dalla carica ideologica perché la scuola è oggi luogo di battaglia politica e nella furia del dibattere si vorrebbe far credere che i voti bassi aiutino la qualità e il merito.
Non è così. Il Trentino registra l’eccellenza nei test Invalsi e nelle indagini internazionali Ocse-Pisa. Eppure il Regolamento di valutazione della scuola trentina non permette voti sotto il 4 nelle pagelle delle superiori. Dietro c’è una riflessione pedagogica precisa: allo studente si dà un messaggio chiaro, sufficiente a bocciarlo se serve, niente di più.
E infatti poi il Regolamento impedisce quella finzione iniqua che è data dai sei necessari a essere ammessi all’esame di stato come invece capita nel resto dell’Italia. I 4 restano e fanno media vera. Trasparenza, anche qui. Perché la valutazione ha assoluto bisogno di avvenire in un contesto di giustizia. E allora i voti minuscoli, tre due- uno ( zero meno, in una fulminante battuta dei Peanuts) non sono necessari, non fanno bene e possono invece fare male. Inutile lasciarli visto che l’autonomia delle scuole permette altre strade condivise.

Questa è la scuola. Poi c’è il mondo. Se noi consegniamo ai ragazzi un mondo in cui la violenza delle parole, dei rapporti, dell’ingiustizia sociale è normale, accettata e inevitabile, in cui nei film, nei libri, nella realtà la violenza fisica è una strada possibile, quasi ordinaria di risposta all’offesa vera o presunta, o solo equivocata, allora certo un ragazzo può pensare che anche la frustrazione di un voto negativo può essere risolta con la violenza. Contro di sé. Anche il mondo c’entra, eccome. E così certamente no, la vita dei ragazzi non è mai altrove.

(Da: La repubblica del 14 agosto 2012)

mercoledì 15 agosto 2012

Carla Rossi a Mondovì





Il più antico quartiere di Mondovì è Piazza, il borgo che disegna la collina (Monte Regale) di torri e campanili, fitto di stradine e viuzze abbracciate da mura medioevali, che si aprono su edifici sacri e profani.




Nell'ambito dell'annuale Mostra dell'artigianato artistico sono visibili sugli spalti della Torre campanaria (da cui si gode un'incredibile vista sull'arco alpino) le installazioni di Carla Rossi, cara amica di Vento largo.

domenica 12 agosto 2012

Pier Francesco Zarcone, Riflessioni sulla Siria





Un'analisi utilissima tratta dal bel sito Utopia Rossa per orientarsi nel caos siriano al di là delle semplificazioni e delle forzature dei mass media

Pier Francesco Zarcone

Riflessioni sulla Siria

Nel mondo di lingua araba a una “primavera” troppo precipitosamente proclamata dai media occidentali, e da essi stucchevolmente ripetuta, è seguita la stagione delle grandi e devastanti piogge. Gli scrosci sono le gesta a tutto campo dell’estremismo islamico, che notoriamente fu istigato e armato dagli apprendisti stregoni statunitensi in funzione antisovietica ed è a tutt’oggi sovvenzionato dall’Arabia Saudita, il primo Stato islamico integralista dell’epoca contemporanea. 

L’integralismo islamico, ormai saldamente impiantato nello Yemen, si sta radicando nell’Africa subsahariana (a partire dal Mali), massacra in Nigeria e sta trovando nuove forze nella guerra civile siriana. Qui ci occupiamo della Siria, rimandando ad altra occasione il discorso sull’Islam subsahariano e sulle complessità specifiche dell’area in cui opera. 

 Il mosaico etno-religioso siriano

 Per fornire una miglior cornice alle riflessioni che seguono è necessario avere ben presente quale sia in Siria la complessità etno-religiosa. Forse in un’ottica in cui la religione fosse equivalente solo di “fatto religioso”, e l’etnia solo di “fatto etnico”, si dovrebbe parlare di complessità religiosa ed etnica. Tuttavia, a motivo dei fortissimi vincoli comunitari esistenti fra gli appartenenti alle varie confessioni religiose siriane, che si intrecciano ai vincoli tribali-famigliari e sulla base delle identità-distinzioni sono la base della dialettica “noi/gli altri”, sì da far assumere ai gruppi religiosi connotazioni assimilabili a quelle etniche, abbiamo preferito disporre gli aggettivi nel modo suddetto. Per capire come tutto questo incida sull’organizzazione sociale, e sulle esistenze individuali, si ricordi l’assoluta “normalità” dell’esistenza di quartieri urbani e villaggi separati. L’eccezione sono le convivenze in aree “miste”.  

 La popolazione della Siria è in maggioranza (90%) di discendenti degli antichi Aramei, arabizzati da molti secoli; a nord-est c’e una minoranza curda di un certo rilievo (9% circa); a ovest una piccola rappresentanza armena (1%?) e alcuni turcomanni e circassi.

 Più composito è il panorama delle confessioni religiose. Qui sta il vero mosaico. Almeno il 74% della popolazione (74%) è musulmana sunnita, che considera o eterodossi o eretici tout court le altre confessioni musulmane. E in Siria un buon 13% della popolazione appartiene a questo mondo discriminato dai Sunniti: abbiamo gli Alauiti, che formano un ramo specifico dello Sciismo, detengono il potere con la famiglia degli Assad e costituiscono lo zoccolo duro delle Forze Armate; gli Sciiti detti Duodecimani (come in Iran e Iraq); a sud i Drusi, sulla cui ereticità anche i simpatizzanti devono convenire; gli Sciiti Ismaeliti (il cui capo è l’Agha Khan).

 Vi è poi un 10% di Siriani per lo più appartenenti alle Chiese orientali (sono presenti essenzialmente nel nord): per metà fanno parte della Chiesa Ortodossa (Patriarcato di Antiochia), ma ci sono anche quelli delle Chiese Ortodossa Siriaca, Apostolica Armena, Assira, piccole minoranze protestanti, e Cattolici di vario rito (Melchiti, Maroniti, Siri, Armeno-cattolici, Caldei). Gli Ebrei rimasti sono poche decine a Damasco e Aleppo. 

La distribuzione degli elementi del suddetto mosaico risulta dalla mappa.





Il labirinto politico siriano

Il regime di Bashar al-Assad, dopo aver dato una risposta solo militare alle contestazioni di piazza essenzialmente non violente, ma senza porvi fine, si è poi trovato a fronteggiare una vera e propria rivolta armata tradottasi in guerra civile. A questo punto il regime di Damasco non ha saputo, o non ha potuto, infliggere alle opposizioni armate un colpo di maglio del tipo di quello - terrificante, spietato, di brevissima durata ma decisivo - dato nel 1982 dal vecchio Hafez al-Assad, alla città di Hama, centro dell’integralismo dei Fratelli Musulmani siriani, che avevano iniziato azioni armate contro il regime. Oggi fare il bis non è più possibile, con le due maggiori città della Siria – Damasco e Aleppo – trasformate in campi di battaglia, e la defezione di una parte dell’esercito. Oggi al-Assad sembra contrattaccare, più che attaccare dove vuole lui, ed aumenta per i suoi avversari il margine di scelta dei luoghi dello scontro. 

I profughi sono ormai centinaia di migliaia, l’economia siriana è da tempo in ginocchio, il paese è nel caos, i livelli di odio e ferocia reciproca sono alle stelle, e non si vede una via d’uscita realistica. In più alla frontiera settentrionale la Turchia riscalda i muscoli (vedremo il perché in seguito), elementi delle solite forze speciali statunitensi sono all’opera nelle zone controllate dai ribelli, e questi ultimi sono armati e finanziati da due alleati arabi degli Usa, l’Arabia Saudita e il Qatar onnipresenti dovunque l’integralismo islamico possa impiantarsi e propagarsi. 

I ribelli sono all’attacco, ma appaiono ancora lungi dal vincere, e l’esercito siriano continua a combattere. Dai media politicamente corretti si ricava, nella sostanza,  l’immagine di un equivalente siriano della resistenza delle forze mercenarie e tribali di Gheddafi. Si tratta di un’equiparazione facile a farsi in un’ottica semplificatrice, ma non molto corrispondente alla complessità siriana; al pari di quell’altra semplificazione che vede nella guerra civile in Siria il momento culminante di una lotta finalizzata semplicemente a far cadere un regime tirannico. 

Che all’inizio sia stato così è innegabile, ma con il degenerare della situazione e l’assunzione di un carattere radicalmente sunnita – con elementi jihadisti - da parte del fronte di opposizione, la situazione è un po’ cambiata. Per quanto il regime perda pezzi eccellenti (da ultimo un Primo Ministro) ormai è in corso una guerra fra la maggioranza sunnita e le consistenti minoranze siriane, a cui forse si aggiunge ancora una parte della borghesia sunnita. Cioè a dire, detta radicalizzazione fa in modo che ben più di ieri la sorte di queste minoranze dipenda dalla tenuta del regime di al-Assad. Lo zoccolo duro dell’esercito regolare è indubbiamente formato da Alauiti e Sciiti, ma anche le altre minoranze ben sanno che l’eventuale vittoria dei ribelli vorrebbe dire lo scatenarsi di un’ondata di vendette e rappresaglie non controllabili (tanto più che è lecito dubitare dell’esistenza di una forte leadership sul versante della rivolta). Piaccia o non piaccia (a loro e agli altri) per i non Sunniti il regime resta la difesa contro l’integralismo sunnita, mai estirpato del tutto e la cui presenza va crescendo. È significativo che il ministro della Difesa, generale Daud Rayha, ucciso in un attentato il 18 luglio, fosse un Cristiano ortodosso; significativo in una duplice accezione: che fosse arrivato a quel vertice in uno Stato musulmano, e che egli – cristiano - facesse parte dell’esercito siriano.

Per il labirinto siriano non si deve solo tenere conto della possibilità (tutt’altro che teorica) dell’avvento di un altro regime tirannico, suscettibile di fare rimpiangere il precedente a chi vivrà sotto di esso; si deve altresì dare per scontato che la precedente stabilità della Siria “laica” era una garanzia di stabilità per tutto il Vicino Oriente, e che la sua fine – con una transizione al buio – darà certamente luogo a turbolenze e pericoli per tutti e di creerà nell’area tali scombussolamenti da far piangere (ancora una volta) lacrime amare sulla mancanza di classi politiche europee, nordamericane (e russe) dotate di adeguata conoscenza delle situazioni sul tappeto e di capacità per non giocarvi col fuoco. In fondo il regime degli Assad era di garanzia anche per Israele, atteso che – alla luce della fattualità della politica estera siriana, e non delle tipiche rodomontate propagandistiche arabe – l’espansionismo di Damasco, dopo aver toccato più volte con mano quanto non convenisse cozzare militarmente contro l’entità sionista, si era concentrato sul Libano, Stato artificiale creato dall’imperialismo francese dopo la Grande Guerra, su un territorio che aveva fatto parte della Grande Siria per secoli e secoli.  

Che scenari sono al momento ipotizzabili in Siria?

Attualmente non sono molti. Il primo – Assad lascia la Siria e si instaurano negoziati fra le parti in causa per una transizione pacifica – è tanto auspicabile quanto irrealista nelle condizioni attuali.

Il secondo scenario – suscettibile di verificarsi anche a prescindere da un’eventuale uscita di scena di Bashar al-Assad – consiste nella fine della recente unità territorial/politica della Siria (avvenuta solo dopo la I Guerra Mondiale), paese che ha vissuto la maggior parte degli ultimi 5.000 anni senza essere Stato sovrano. Le minoranze religiose, cioè a dire, potrebbero costituire uno Stato – magari laico - nelle aree non sunnite, come la costa con Latakya, con le montagne adiacenti, e le montagne del sud. Dalla mappa risulta una distribuzione delle componenti etno/religiose abbastanza omogenea per quanto riguarda Alauiti e Sunniti. A essere dispersi, sono invece i Cristiani. Con l’ovvio esodo (non necessariamente forzato) dei Sunniti dalla zona alauita, sarebbe possibile costituire uno Stato siro-alauita oltre tutto geograficamente contiguo all’area libanese di maggior presenza degli Sciiti Duodecimani.   

È di tutta evidenza che questo non vorrebbe dire cessazione della conflittualità armata. Anzi! Ma almeno si tratterebbe di un’entità territoriale più omogenea della Siria odierna, verso cui potrebbero migrare anche altri gruppi minoritari psicologicamente e culturalmente meglio attrezzate a convivere fra loro.  

 Un terzo scenario – tutt’altro che ipotetico – è dato dall’estensione del conflitto ad altri paesi, laddove esistono comunità i cui elementi identitari le leghino a quelle siriane. La perenne polveriera libanese – dove è poderosa la presenza degli Sciiti di Hezbollah – sarebbe la prima a esplodere, e il Libano sprofonderebbe di nuovo nel caos della violenza interreligiosa.

 E Israele? A parte la certezza di una sua azione aerea se ci fossero problemi concreti circa l’arsenale chimico/batteriologico siriano, è chiaro che turbolenze libanesi potrebbero provocarne l’intervento, ma i suoi problemi aumenterebbero in caso di avvento di un governo islamista a Damasco, tanto più che già i recenti avvenimenti in Egitto hanno provocato il rafforzamento militare israeliano al confine egiziano. 

Il quarto e ultimo scenario oggi ipotizzabile è quello della vittoria totale dei ribelli, con inerente bagno di sangue ed esodi di massa, maggiori degli attuali. Questo per la Siria. Va poi messo in conto la diffusione del contagio islamico sunnita nei paesi circonvicini, come Libano e Giordania, ma anche Turchia, pur prescindendo da come lì andrebbe a finire per la particolare posizione dell’esercito (o di buona parte di esso).  

È campato per aria in Siria il pericolo dell’integralismo islamico?

Giorni fa al Cairo un vecchio oppositore del regime siriano (vecchio anche anagraficamente: ha 81 anni!), Haytham al-Malenteh ha annunciato di essere stato incaricato, da una coalizione di quindici personalità indipendenti senza alcuna affiliazione politica, di formare un governo transitorio della Siria. Sulla questione Il fatto quotidiano ha intervistato un altro dissidente siriano, il cristiano Bassam Ishak, attivista dei diritti umani e membro del Consiglio Nazionale Siriano (Cns) di Istanbul, finora ritenuto l’organo ufficiale della dissidenza, di cui fanno parte esponenti di tutte le comunità religiose siriane (secondo le percentuali esistenti), altresì espressione di varie correnti politiche: socialista, comunista, nazionalista, liberale, islamica. L’intervista è stata pubblicata il 7 c.m.

 In essa Ishak denuncia che il gruppo da cui al-Manteh avrebbe ricevuto il predetto incarico è formato da uomini di affari siriani operanti nei Paesi del Golfo, noti per il loro supporto ai settori salafiti; e altresì come nella loro neonata organizzazione politica le minoranze siriane non siano rappresentate, a parte un Druso di facciata. Ma al-Manteh in Siria è popolarissimo, mentre i membri del Cns di Ishak sono per lo più Siriani dell’esilio; e questo incide sulla loro popolarità e incidenza.

 C’era da aspettarsi che gli integralisti si muovessero politicamente, ma questo riguarda – pur senza voler disprezzare nulla – la sfera dei giochi politici preliminari all’ingresso in una “stanza dei bottoni” non ancora espugnata. Il vero problema è chi abbia in mano le armi, perché in Siria comanderà domani il vincitore armato. Non pare però che l’autodenominato Esercito Libero Siriano” a tutt’oggi risponda a una dirigenza politica, o che abbia intenzione di farlo a stretto giro. E chi sono costoro? Restando senza risposta la domanda, al rischio dell’espansione integralista a seguito dell’eventuale sconfitta di Assad, se ne aggiungono altri due: la formazione di una dittatura militare in nuce se l’Esercito Libero Siriano avesse un ferreo centro di comando, o un’instabilità di tipo vuoi libanese vuoi iraqeno in caso contrario.



Gli interessi sauditi e turchi 

Nel fronte degli Stati orientali attivamente impegnati contro Assad sono presenti interessi non omogenei: quelli della Turchia sono essenzialmente tattici, a motivo dell’afflusso destabilizzante di profughi dalla Siria e del pericolo di una saldatura fra Curdi anatolici e Curdi della Siria (autoctoni o profughi); quelli di Arabia Saudita e Qatar sono invece strategici, nel quadro del mai cessato conflitto fra Sunniti e Sciiti in genere e con l’Iran in particolare, e ai fini della proliferazione dell’integralismo sunnita nell’area, la cui disastrosità è di tutta evidenza. Il rapimento dei pellegrini iraniani sulla strada per l’aeroporto di Damasco fa parte di questa lotta ed è un bruttissimo segnale.

Per la Turchia – che ha già dovuto ingoiare (o sta facendo finta di ingoiare) il rospo di un’ampia autonomia curda nel nord dell’Iraq, ed è un’autonomia che rasenta la confederazione di fatto – l’indebolimento del controllo del regime di Assad nella parte settentrionale della Siria costituisce un problema più grave di quello dell’enorme afflusso di profughi in Anatolia.     

Il fatto è che i Curdi attualmente hanno assunto il controllo del nord-est della Siria. Essi sono sunniti, non hanno particolari motivi di affezione verso i governi siriani (senza eccezioni tutti quelli succedutisi dall’indipendenza a oggi) a motivo delle discriminazioni e dei maltrattamenti cui li hanno sottoposti. I Curdi in Siria per lo più non hanno la cittadinanza e non possono lavorare in enti pubblici, non hanno assicurazione sanitaria, non possono fruire di servizi scolastici e non sono tutelati nella lingua e nella cultura. Potendo contare sui Curdi iracheni e su quelli anatolici, non è escluso che diano vita a iniziative dalle ripercussioni pericolose in Turchia. È casuale che ci sia una recrudescenza della guerriglia curda in Turchia? Non c’è bisogno della palla di vetro per ritenere che se i Curdi siriani si muoveranno male sarà realistica l’ipotesi di un intervento militare turco, la cui onda d’urto non si fermerebbe peró alla Siria, ma creerebbe grossi problemi politici e militari in Iraq al governo (filo iraniano) dello sciita Nuri al-Maliki (e l’Iraq è a maggioranza sciita). 
  
Mentre l’indignazione ufficiale monta, le diplomazie…

I soliti “bene informati” sostengono che Assad – alla luce della concretezza degli interessi economico/energetici dei paesi occidentali, e della minore incidenza dell’indignazione delle anime belle di un’effimera opinione pubblica – sia convinto della possibilità di ripetere il bis dell’Algeria durante la terribile guerra civile di fine secolo. All’epoca, l’Algeria sprofondò in un incubo di sangue e massacri dopo che i capi delle Forze Armate vollero l’annullamento di elezioni formalmente democratiche vinte dal partito islamico, e la situazione non era molto dissimile da quella siriana attuale. Atrocità senza nome furono compiute da integralisti islamici, militari e paramilitari, e almeno 200.000 persone di ogni sesso ed età furono uccise. Ma mentre l’indignazione straniera giungeva al calor bianco, il controllo di enormi risorse di petrolio e gas naturale da parte del governo algerino fece sì che venisse lasciato libero di condurre alla sua maniera la guerra civile fino alla sconfitta totale (per il momento) degli islamisti.

La Siria sul piano energetico non è l’Algeria, però può giocare un suo ruolo geostrategico, a cui l’economia occidentale (particolarmente in una fase di acuta e diffusa crisi) non può restare indifferente. Non ci si lasci ingannare dal fatto ormai notorio dell’appoggio militare Usa ai ribelli, perché giocare contemporaneamente su più tavoli, anche senza una logica apparente, è tipico della diplomazia imperialista.    

Orbene, a giugno il giornale britannico Independent ha parlato di trattative segrete in corso fra Stati Uniti, Russia e Unione Europea per concludere un accordo che lascerebbe Assad al potere per almeno altri due anni, a fronte di concessioni siriane ad ampio spettro (includendovi l’Arabia Saudita) e di tutela degli interessi russi. In sostanza, sul tavolo dei negoziati sarebbero stati messe le seguenti ipotesi: l’Arabia Saudita e il suo alleato Qatar otterrebbero maggiori e migliori posizioni per i Sunniti in Libano e Iraq, a fronte però del riconoscimento statunitense e russo dell’influenza dell’Iran sull’Iraq; la Russia avrebbe ampie garanzie sia sul mantenimento della sua base navale siriana di Tartus, sia sui rapporti amichevoli di un eventuale nuovo regime a Damasco, quand’anche influenzato dall’Arabia Saudita, ma dovrebbe fare buon viso al vero obiettivo occidentale, per il quale Usa e Ue sarebbero disposti a lasciare ad Assad il tentativo di risolvere i suoi problemi alla maniera algerina: sono in gioco due oleodotti che li renderebbero meno dipendenti dalla Russia per gli approvvigionamenti energetici. Entrambi passerebbero per la Siria - uno proveniente dal Qatar e dall’Arabia Saudita attraverso la Giordania, e l’altro proveniente dall’Iran attraverso l’Iraq meridionale – ed entrambi destinati a raggiungere il Mediterraneo e l’Europa  

L’accordo potrebbe anche non essere raggiunto, ma un tale esito nulla toglierebbe alla esemplarità di quelle trattative.

E la sinistra araba (superstite)?

Gli avvenimenti siriani hanno causato nelle sinistre arabe, come negli altri settori laici, divisioni attorno a scelte disomogenee. Ma non è il caso di gettare la croce addosso a chi ha optato, come vedremo, per posizioni che il rigore ideologico farebbe definire quanto meno “poco corrette”. Infatti, se la coerenza ideologica è in sé un bene, sovente in rapporto alle situazioni concrete (che si sviluppano ignare delle esigenze teoriche altrui) essa può apparire come un bene astratto, e anche un male. Il fatto è che nel mondo arabo sinistre e laici vivono sulla loro pelle l’immediatezza dell’integralismo islamico, ne hanno giustamente paura e stanno vedendo a cosa porti per una vita personale e sociale libera anche quell’islamismo “moderato” che i media occidentali ancora presentano in termini benigni. La crisi siriana, con quel che sta venendo fuori, ha innescato una situazione tale (come il più delle volte è accaduto nella storia) da mostrare i limiti vuoi pragmatici vuoi teorici di ogni scelta possibile, e come in definitiva non vi sia coincidenza fra “salvezza dell’anima” e difesa del presente e del futuro.

Le posizioni esistenti nelle sinistre arabe sono in concreto tre. In primo luogo ci sono i “puristi” – minoritari - che appoggiano incondizionatamente la rivolta siriana. In genere formano l’estrema sinistra della sinistra e sono di filiazione maoista (come Via Democratica in Marocco) o trotskista (come i Socialisti Rivoluzionari egiziani e il Forum Socialista libanese). Tutti hanno relazioni con l’opposizione di sinistra siriana, ma sono ostili al Cns siriano impiantato in Turchia temendo che il loro collaborazionismo con governi o imperialisti o reazionari sia contrario agli interessi della ribellione contro Assad. Ci sono poi (ma anch’essi minoritari) quanti – fatte le debite pesature – hanno ritenuto necessitato dalla realtà l’appoggio momentaneo al governo siriano nella speranza che la rivolta (per come si è andata connotando) venga sconfitta. Poi si vedrà. Infine ci sono i fautori della cosiddetta terza via: formale opposizione al regime siriano e messa in allarme per il ripetersi di situazioni di tipo libico.

Questo sul piano degli schieramenti più o meno definiti, giacché non mancano affatto – e sono in molti – coloro che non sanno quali  “pesci” prendere. In questo settore di definito ci sono solo le preoccupazioni: per l’integralismo montante, per la militarizzazione della rivolta a scapito della politica, per l’incremento di interventi stranieri, per una situazione geopolitica che fa della Siria una pedina nello scontro fra Usa e monarchie del Golfo, da un lato, e Russia, Iran e forse anche Cina dall’altro. Per cui ne risulta una certa prudenza in relazione alla rivolta siriana che non può non assumere i connotati della presa di distanza e dell’auspicio (al momento ottimista) che dalla crisi si esca riformisticamente, e non con l’abbattimento del regime di al-Assad da parte delle milizie ribelli.  

Un tipico esempio di ciò l’ha dato nello scorso mese di maggio l’Unione Generale Tunisina del Lavoro (Ugtt), sindacato in cui è forte la presenza di elementi di sinistra. Ebbene, l’Ugtt, se ha sottolineato il valore degli interessi democratici del popolo siriano, ha anche denunciato i complotti in atto degli Stati coloniali e delle monarchie reazionarie. Prudenza fatta propria dal Partito Comunista Libanese, che non ha partecipato a nessuna delle manifestazioni svoltesi a Beirut davanti all’ambasciata siriana.        

In definitiva, un elemento accomuna per ora tutti i settori della sinistra araba, eccezion fatta per le ali estreme: la paura in un esito della crisi siriana che veda la vittoria degli interessi statunitensi e sauditi. Di modo che sono in molti a pensare, per quanto non sempre lo dicano, che la vittoria di Assad sarebbe all’atto pratico il male minore, in mancanza di altre possibili scelte.


(Da: www.utopiarossa.blogspot.com)

lunedì 6 agosto 2012

Omaggio a Piero Simondo




Riceviamo e volentieri pubblichiamo. 

Omaggio a Piero Simondo

Nel mese di ottobre 2012 l’Art Gallery La Luna di Borgo San Dalmazzo in collaborazione con la Fondazione Peano di Cuneo propone un evento dedicato a Piero Simondo, artista, che, negli anni 50, ha operato ad Alba creando con altri artisti internazionali una serie di manifestazioni e movimenti di rilevante interesse per la storia dell’arte.

Piero Simondo nasce nel 1928 a Cosio d’Arroscia, piccolo centro ligure dell’entroterra di Imperia. È stato allievo di Felice Casorati e Filippo Scroppo all’Accademia Albertina di Torino e si è laureato in filosofia presso l’ateneo torinese.

Nel 1952 si trasferisce ad Alba dove inizia la sua attività artistica; nel 1954 ha origine la sua produzione di “monotipi” su carta. In una mostra ad Albisola nel 1955 incontra il danese Asger Jorn, proveniente dal Gruppo Cobra, fra i due artisti, nasce, un dialogo che costituisce lo spunto per la creazione del Laboratorio Sperimentale del MIBI (Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista).

Nel 1956 con Asger Jorn, Pinot Gallizio ed Elena Verrone promuove il Primo Congresso Mondiale sulle “arti libere ed attività industriali” al quale partecipano gli artisti Kotik e Rada provenienti dalla Cecoslovacchia, Constant dai Paesi Bassi, Wolman come rappresentante dell’Internationale Lettriste di Parigi, l’editore Fisher, l’architetto Ettore Sottsass Jr., Enrico Baj per il Movimento Nucleare, lo scultore torinese Franco Garelli ed il musicista belga Calonne. In contemporanea si svolgono mostre in Alba seguite da esposizioni e conferenze a Torino e nelle sedi di Londra e Bruxelles.

Nel 1957 in casa di Piero Simondo a Cosio d’Arroscia si scioglie il MIBI e viene fondato l’Internazionale Situazionista, ma già l’anno successivo, per dissensi di carattere ideologico, l’artista insieme alla moglie Elena Verrone e Walter Olmo fuoriesce dal gruppo.

Dopo una pausa di riflessione, nel 1960 realizza le sue strutture dipinte tridimensionali denominate “Topologie” che espone ed associa alle sperimentazioni di musico-pittura condotte con il musicista Walter Olmo.

Nel 1962 si trasferisce a Torino dove fonda il CIRA (Centro per un Istituto Internazionale di Ricerche Artistiche), che si propone come luogo per il lavoro di gruppo autogestito e dura per circa 5 anni.

Dal 1968 si dedica alla produzione di “Pitture Manifesto” che rimandano a temi di critica politico-sociale.

Nel 1972 crea i “Laboratori di Attività Sperimentali” avviando progetti di ricerca con gli studenti nell’ambito della produzione visiva multimediale.

Nel corso degli anni ottanta-novanta realizza opere nelle quali approfondisce alcune forme di sperimentazione pittorica, già anticipate in alcune sue realizzazioni precedenti, nascono le “Ipopitture” le “Nitropitture” i “Nitroraschiati” alla quale si aggiungo i “Polittici”.

Questo evento realizzato in una duplice sede vuole rendere omaggio ad un artista ancora vivente, insieme a Walter Olmo, ultimo testimone di un periodo di fervente attività artistico-filosofica che verrà ampiamente analizzata da critici come Marisa Vescovo, Guido Curto e Sandro Ricaldone.

Inaugurazione mostra sabato 13 ottobre 2012 presso:

Art Gallery La Luna, Via Roma 92, Borgo San Dalmazzo (Cn) alle ore 17,00
Fondazione Peano Corso Francia 47 Cuneo ore 18,30

La mostra durerà fino al 25 novembre 2012


sabato 4 agosto 2012

Libri di Liguria: "La conca del tempo" di Elio Lanteri


Sarà che ci siamo nati o forse il fatto che sia stato il primo paesaggio a riempirci lo sguardo e a darci l'idea di mondo, ma  il ponente ligure rappresenta il nostro luogo dell'anima in cui ogni tanto andiamo a perderci per poterci ritrovare. Leggere Lanteri è per noi come passeggiare sul molo lungo del porto di Oneglia o sotto la loggia delle monache a Porto Maurizio, un viaggio nelle nostre radici. 





"La conca del tempo" di Elio Lanteri

"La conca del tempo", edito con una prefazione di Bruno Quaranta e una postfazione di Marino Magliani, era il romanzo cui Elio Lanteri stava lavorando quando è mancato, nel 2010.


La storia

In una caletta chiusa da tre lati e aperta sul mare, quattro personaggi vivono dei ricordi della loro vita passata nelle viscere della natura aspra: quella Liguria di Ponente già protagonista de La ballata della piccola piazza e che ancora una volta non si limita a fare da sfondo, ma è elemento essenziale del racconto.

Damìn, Viturìn, Bellagioia, Rosy, Badulìn e gli altri personaggi gravitano intorno a un ecosistema apparentemente immobile ma in cui sono proprio i minimi movimenti, i tempi infinitesimi della natura, a dettare il ritmo dell’esistenza.

E proprio gli elementi naturali – una cornacchia, un vecchio ponte – parlano e pensano per ripercorrere in vesti nuove la leggenda di un nuovo Sisifo e del suo destino, non imposto da una divinità ma scelto consapevolmente.

Perché Damìn ogni giorno risale verso la vecchia casa sulla scogliera? Quale scelta lo condanna, quale dolore lo tiene vivo? 

Un racconto che respira tra la danza leggera delle foglie d’autunno e il mare in miniatura che, di notte, culla i sogni fantasiosi di una gioventù lontana.


Le prime pagine


Un mattino di fine settembre nella conca riappaiono i fenicotteri. Con ampi giri, lenti, sfruttano l’aria ascensionale, sempre più in alto, senza muovere le ali, finché, minuscoli, puntano il vasto mare.
«Damìn, i fenicotteri» grida dall’affasciato di limoni Bellagioia.
Damìn apre la persiana della sua stanza, davanti a lui il muro di rocce di Grimaldi, i fenicotteri in alto, pronti a spiccare il salto verso l’Africa.
«Arrivo» risponde Damìn e corre incontro a Bellagioia.
«I nostri antenati tutti gli autunni passano a salutare noi che siamo rimasti qui e abbiamo perso le ali» dice commosso Bellagioia.
Il salto della conca: due promontori rocciosi ai lati, scivolati dal Grammondo come dinosauri pietrificati, lambiscono il vecchio ponte, umile, a una sola arcata, circondato da schegge di roccia, ginestre e arastre.
La conca è chiusa e non la scuote il tempo, solo verso il mare la cala apre una finestra e nelle notti calde penetra una leggera brezza.
La casa-trattoria di Bellagioia: la scritta “Zimmer” sopra la porta d’entrata, tre stanze d’affitto, in estate, e sul retro un bar con una grande vetrata, una scalinata in legno scende tra gli scogli della cala.
Damìn viveva in una di quelle stanze, un letto stretto di ferro contro la parete bianca, due finestre ai lati, una di fronte all’altra, a destra verso la roccia, l’altra a trenta metri dalla cala di Mamante.
«È ancora presto, Bellagioia, aspettano che la conca si riscaldi» dice Damìn a Bellagioia. «Sono arrivati all’improvviso, salendo al casone» dà un grido a Badulìn.
«Ben, ci vediamo stasera.»
Risalire il sentiero, tra le rocce, sempre più lento, da tempo gli premeva forte in petto il cuore, raggiungere il casone, sotto la Balma grande, udire che sussurra con malinconia l’ansimare del mare.
Damìn risaliva lentamente, scartando con cura la rada erba che spuntava tra i massi, dandosi una spinta con le spalle e muovendo la testa in avanti come fanno i gabbiani.
«Sono come Sisifo» sorridendo tra sé ripeteva, «sempre lo stesso percorso, per lui una condanna, per me una libera scelta.»
Alla curva alta del sentiero la stradina si addolcisce e scorre quasi piana, solo pochi passi e si giunge al casone…quando udì un fruscìo leggero nell’erba sotto il carrubo: era la grossa serpe che si allontanava dagli intrusi.
Si sedette stanco sulla pietra piana, calò leggermente la casquette sulla fronte, rimase alcuni istanti immobile, poi raddrizzò la schiena, liberò gli occhi e fissò in basso il mondo della conca.
Tutto era immobile, silenziosa la cala, la barca e la casa di Bellagioia; nell’affasciato di Badulìn bruciavano dei rovi, dalla sterpaglia umida risaliva pigramente una spirale di fumo. Pareva il fumo che mandano i naufraghi esausti, senza più forza, disperato, rimaneva sospeso in aria e non superava le rocce, quasi una bolla bianca, una mongolfiera sgonfia.






Elio Lanteri, classe 1929, era nato a Dolceacqua (Imperia) ed è scomparso nell'amata Liguria (Oneglia) nel 2010. Amico di Biamonti, profondo conoscitore di Seborga, di René Char, di Rulfo, di García Lorca, aveva esordito, dopo un riserbo durato vent'anni, con La ballata della piccola piazza (Transeuropa 2009), con cui nel 2010 aveva vinto il premio Biamonti e ricevuto la menzione speciale al premio Città di Cuneo.

venerdì 3 agosto 2012

Franco Astengo, Bologna 2 agosto 1980




Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Franco Astengo sulla strage della Stazione di Bologna del 2 agosto 1980

Franco Astengo

2 agosto 1980, Bologna: un mozzicone di sigaretta e la memoria di una strage



“Si è trattato di un mozzicone di sigaretta, la bomba non è mai stata trovata”: si è pronunciato in questo modo, qualche giorno fa, l’eterno Licio Gelli, il Maestro Venerabile della Loggia P2, ricordando l’immane strage compiuta alla stazione di Bologna il 2 giugno 1980 per opera, intendo ribadirlo anche in questa sede, dei fascisti e dei servizi segreti, più o meno deviati.

La frase di Gelli è rimasta senza repliche perché in questo momento l’intero circo mediatico – politico è impegnato sulle piste della trattativa “Stato – Mafia” del 1992 e a commentare, al proposito, con la consueta puntuale piaggeria l’enorme “arroganza del potere” che ancora una volta si è espressa in tutta la sua volontà di prevaricazione.

Un silenzio che ha tralasciato, così, un punto fondamentale d’analisi che pure poteva essere colto: quello della continuità non solo tra la strage di Bologna e la trattativa “Stato –Mafia” intesa quale continuità nella storia del “doppio Stato” o della “tela di ragno” (come la definì Flamigni, a proposito del delitto Moro), ma come snodo importante dell’intera storia del nostro Paese.

Uno snodo che, in quel 1980 nel corso del quale come ha ricordato Diego Novelli in un suo libro fu messa alla prova la democrazia e che si concluse con i 35 giorni alla Fiat e la marcia dei cosiddetti “quarantamila”, mise in evidenza, almeno agli occhi degli osservatori più attenti, non tanto il “ritorno” al terrorismo fascista (che pure si era verificato) ma l’esigenza di una “teoria politica del terrorismo” che, almeno da Piazza della Fontana in avanti, aveva rappresentato uno degli elementi costitutivi della gestione del potere nel nostro Paese.

Furono svolti alcuni tentativi di analisi in questa direzione, di collegamento tra il terrorismo stragista di evidente matrice “nera”, i servizi segreti, la massoneria occulta della quale la Loggia P2 appariva come l’espressione più evidente (il 1980 fu anche l’anno in cui Gherardo Colombo scoprì gli elenchi di Castiglion Fibiocchi che comprendevano anche le prove del collegamento tra P2 e Mafia, attraverso logge coperte siciliane provviste anche di diramazioni nel Ponente Ligure: tanto per ricordare che, quanto alla mafia al nord, nessuno ha scoperto nulla di nuovo…).

Altri denunciarono il fatto che, in quella direzione, non si fosse mai svolta una valutazione di fondo: il Centro di Riforma dello Stato, diretto da Pietro Ingrao, convocò un convegno su questo tema, proprio ad Arezzo; alcuni coraggiosi tentarono analisi anche in sede locale.

Intanto che le indagini sulla strage marcavano il passo qualcuno, che magari oggi si batte per la “coesione nazionale”, rispose che sarebbe stata sufficiente la riforma dei servizi segreti e che una collocazione diversa della sinistra nel quadro politico (c’erano già stati il “governo delle astensioni” e la “solidarietà nazionale”) avrebbe rappresentato un’ulteriore garanzia per il successo dell’operazione di riforma che tendeva a cambiare il modo di agire d’interi pezzi dello stato e che, comunque, il terrorismo nero, cui si era accompagnato quel tipo di attività dei servizi di sicurezza fosse ormai in declino, se non addirittura in via di estinzione.

Di fronte a questa sconcertante analisi che pure, a sinistra, ebbe piena cittadinanza si replicò – pur nel rischio di rimanere profeti inascoltati – al riguardo della necessità di vedere lo stragismo attraverso una nuova lente, da parte di una sinistra istituzionalmente matura e capace di vedere lo spessore del meccanismo statuale, che riproduceva abilmente se stesso attraverso l’espansione dei corpi separati, aggiungendo come, almeno da Piazza della Fontana in avanti, analizzando i passaggi procedurali si poteva ben vedere come vi fosse stata una gestione politica dei procedimenti.

La sinistra, all’epoca, sulla base di queste analisi avrebbe dovuto elaborare un’idea di riforma dello Stato non attraverso una serie di “elemosine riformistiche”, ma realizzando, non tanto e non solo una magari ottima serie di proposte di legge, ma lavorando a realizzare una trasformazione radicale del quadro politico.

Al centro, insomma, doveva ritornare, secondo questa ipotesi, il tema della “volontà politica”. Ciò non avvenne, per molteplici ragioni che non ho qui lo spazio per analizzare e che comunque riguardano l’intero corso della storia d’Italia, e abbiamo così assistito – da quel fatidico 2 agosto 1980 – al realizzarsi progressivo di quel meccanismo di autoritarismo, negazione della democrazia, affermazione di poteri occulti contenuti proprio nel documento sulla “Rinascita Nazionale” elaborato nel 1975, proprio dalla Loggia P2 di Licio Gelli, che oggi torna a sostenere che la strage non c’è mai stata.

Vale la pena, invece, come fa puntualmente una compagna recarsi, ogni volta che si scende alla stazione di Bologna, a leggere i nomi scolpiti nella lapide che ricorda quel tragico giorno: un utile esercizio della memoria di un momento fondamentale nella storia d’Italia, non soltanto di tragedia per le famiglie delle vittime ma di dramma per la qualità della nostra democrazia.

Sono debitore, infine, delle analisi relative alla mancata risposta della sinistra in quel momento e nella prospettiva storica più ampia, a un testo, redatto nel Settembre 1980 (pochi giorni dopo la strage) introdotto da Aldo Garzia, con interventi di Stefano Rodotà (all’epoca deputato della Sinistra Indipendente) e di Massimo Cacciari (all’epoca deputato del PCI) e apparso sulle colonne del mensile “Pace e Guerra”, l’organo del “Centro per l’Unità della Sinistra” promosso da esponenti del PdUP, della Sinistra Indipendente e del PCI (Il “Centro Magri-Napoleoni” tanto per intenderci).

Non ho timore di essere tacciato di passatismo: però altra capacità d’analisi e altra volontà di iniziativa politica.