martedì 26 febbraio 2013

Ma chi vota Berlusconi? Votare PDL e vergognarsi di ammetterlo




Giorgio Amico

Votare Berlusconi e vergognarsi di ammetterlo

L'Italia reale non è quella dei sondaggi. Questo ci dice l'esito delle elezioni. Visto le intenzioni espresse prima del voto, non si capisce chi abbia votato Berlusconi. Non è la prima volta che accade. Succedeva anche con la DC.

Nel maggio 1968, nel pieno della contestazione, si tennero le elezioni politiche. Migliaia di lavoratori emigrati in Francia e Germania tornarono in Italia per votare. Furono organizzati treni speciali per riportarli a casa. Nelle stazioni, giovani comunisti della FGCI, li aspettavamo con cartelli e bandiere. Vennero diffuse migliaia di copie de “l'Unità” “Forza compagni, che questa volta vinciamo!”, dicevano gli operai di ritorno a casa per votare. “Questa volta manderemo a casa la DC che con la sua politica ci ha costretto ad emigrare”.

I treni ripartivano carichi di bandiere rosse e noi tornavamo a casa pieni di entusiasmo e speranze. La Dc vinse con il 39% dei voti, facendo il pieno di consensi proprio nei paesi del sud dove erano tornati quegli emigranti pieni di voglia di cambiare.

In quei paesi quegli uomini tenevano casa e famiglia. Avevano figli da sistemare, favori da chiedere, potenti da rispettare. Nelle fabbriche tedesche e francesi erano degli sfruttati, ma nelle loro case e piccoli poderi (in rovina) del meridione si sentivano proprietari e parte dell'ordine costituito.

Capimmo allora che l'idea di una società civile pulita rispetto ad una politica sporca (come si diceva anche allora con riguardo alla DC e al centrosinistra) era un'illusione intellettuale e che aveva ragione Machiavelli a scrivere che gli uomini perdonano più facilmente l'uccisione del padre che la perdita della roba. E lui gli italiani li conosceva bene. Come Berlusconi... appunto.



giovedì 21 febbraio 2013

La lingua è più del sangue. Parole e violenza politica




A Padova la destra di "Fratelli d'Italia" realizza uno spot elettorale pesantemente omofobo, ad Ascoli un manifesto della stessa forza politica presenta un teschio e ossa incrociate (simbolo delle Waffen SS) sui volti di Bersani e Vendola. Solo parole?

Giorgio Amico

P come parole

L'obiezione che da destra si muove a chi denuncia la violenza del linguaggio della Lega Nord o dei gruppi neofascisti (da La Destra a Casa Pound) è che in fondo si tratta solo di parole. E le parole, questo è il senso sottinteso, se restano parole, non fanno danni. L'esperienza tragica del Novecento ci racconta un'altra storia: il linguaggio politico non solo non è neutro, ma ha profonde ricadute sui comportamenti sociali. La lingua è performativa: crea comportamenti e stati d'animo, individuali e collettivi. Perchè, come scrisse Franz Rosenzweig, “la lingua è più del sangue”.

Ce lo ricorda Victor Klemperer, nel suo La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, un libro straordinario che è ad un tempo testimonianza umana e indagine scientifica sulla funzione centrale del linguaggio nella costruzione dei sistemi politici totalitari.

Figlio di un rabbino, ma convertito al protestantesimo, dal 1915 docente di letteratura francese all’università di Dresda, Klemperer (1881-1960) formatosi nell'illusione comune a gran parte della borghesia ebraica di potersi integrare nella società tedesca, vede la sua vita distrutta dall'avvento del nazismo.

Privato della cattedra nel 1935 in seguito alle leggi razziali, internato a Dresda e costretto al lavoro forzato, nel 1945 riesce a fuggire e, abbandonata la città, conduce una vita da profugo fino alla fine della guerra.

Fin dal 1932, Klemperer tiene un diario in cui annota minuziosamente ciò che accade attorno a lui. In particolare lo colpisce l’uso che i nazisti fanno della lingua mediante la trasformazione del senso delle parole e la creazione di un nuovo linguaggio che egli chiamerà LTI, Lingua Tertii Imperii.

Le parole diventano una zattera a cui aggrapparsi per non affondare: “Il diario –scrive - è stato continuamente per me il bilanciere per reggermi in equilibrio, senza il quale sarei precipitato mille volte. Nelle ore del disgusto e della disperazione, nella desolazione infinita del monotono lavoro in fabbrica, al letto degli ammalati e dei moribondi, presso le tombe, nelle angustie personali, nei momenti dell'estrema ignominia, quando il cuore si rifiutava di funzionare –sempre mi ha aiutato questo incitamento a me stesso: osserva, studia, imprimi nella memoria quel che accade, domani le cose appariranno diverse, domani sentirai diversamente: registra il modo in cui le cose si manifestano e operano”.

Fondamentale fu l'incontro, immediatamente dopo la fine della guerra, in un campo profughi in Baviera con una operaia berlinese già deportata per propaganda antinazista. Richiesta del perchè fosse stata incarcerata, la risposta della donna fu semplice: "Beh, per delle parole...".

"Fu per me un’illuminazione" - scrive Klemperer - "grazie a quella frase vidi chiaro. ‘Per delle parole...’, per questo e su questo avrei ripreso il mio lavoro sui diari. Così è nato questo libro, non tanto per vanità, spero, quanto ‘per delle parole’".

Nasce così nel 1947 La lingua del Terzo Reich, una lucida riflessione su come il male si annidi nella «normalità» di ogni giorno, negli slogan ripetuti in modo ossessivo, nelle bugie che l'uso quotidiano rende verità, nel ripetere senza più vergogna quello che fino al giorno prima era considerato impensabile.

La lingua del Terzo Reich è una lingua povera, monotona, fissata, ripetitiva e proprio per questo straordinariamente pervasiva. La LTI cambia il segno delle parole. Termini come “cultura” o “filosofia”,presentati come gli strumenti di cui gli ebrei (e i comunisti) si servono per corrompere l'animo del popolo tedesco, assumono una valenza negativa. Parole come “fanatismo” o “violenza” diventano positive acquistando valore salvifico. Il nemico è “l’ebreo”,diventato una categoria astratta su cui riversare le paure e le insicurezze profonde della società .

Concetti che ripetuti continuamente avvelenano gli animi. “Le parole – annota Klemperer - possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”

Parole che esprimono il disprezzo per il diverso e la volontà di annientare colla forza ogni opposizione, che feriscono come pietre. Gli oppositori vengono insultati e derisi, le loro affermazioni sono messe in dubbio attraverso il sarcasmo, con l’uso delle “virgolette ironiche”(come le chiama Klemperer).

Hitler parla in modo semplice, da uomo del popolo, usando toni che vanno dal volgare al predicatorio. Si rivolge al popolo, non al singolo e così col tempo il singolo finisce col percepire se stesso solo come elemento del gruppo eletto. Egli urla, minaccia, serra i pugni: l'odio sostituisce il pensiero.

Il Lagerjargon (il linguaggio del Lager) è l'ultima, estrema manifestazione di questo processo.

“Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi, che il tedesco del lager era una lingua a sé stante (…) legata al luogo ed al tempo. Era una variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzato Lingua Tertii Imperii (…).È ovvia l’osservazione che, là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio.”

Chi parla è Primo Levi che ci presenta un linguaggio connotato dalla violenza, dal disprezzo, dalla volontà di disumanizzare i prigionieri.

“Ci siamo accorti subito, fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del messaggio.Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio: l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come con le vacche o i muli, non c’era una differenza sostanziale tra l’urlo e il pugno. Perché un cavallo corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, non occorre venire a patti con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un dizionario costituito da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, non importa se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture degli speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un’azione sciocca, come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che cosa capirebbe?”.

Ma se con le parole dei nazisti si era consumata la repressione e l’annichilimento, le parole dei deportati e degli oppressi diventano strumento di speranza e percorso di salvezza.

Lo dimostra la storia di Wilhelmina “Mina” Pächter, morta a Theresienstadt nel 1944. Di lei ci resta un ricettario, scritto nel lager insieme ad altre donne, la cui vicenda è raccontata in Sognavamo di cucinare, un piccolo libro appena tradotto in italiano.

Donne che resistono alla violenza subita, che tentano di mantenere un legame con le proprie radici, con i sapori e i colori e i ricordi dell’infanzia, della famiglia, delle feste, delle usanze. Che cucinano “a parole”seguendo la memoria e non soccombono al tentativo di disumanizzarle. Invincibili perchè non perdono l’umanità e la speranza.

(Da: I Resistenti, febbraio 2013)










martedì 12 febbraio 2013

Occitania: Lo Lugarn

























E' disponibile online l'ultimo numero de Lo Lugarn, rivista del Partito della Nazione Occitana contenente fra l'altro un documento, il Manifesto occitanista, che ridefinisce ambiti e prospettive della questione nazionale occitana, un intervento del Professor Christian Lagarde sul colonialismo linguistico dello Stato francese verso le minoranze interne e una presa di posizione sul ruolo del Movimento nazionale Touareg e la questione del Mali.
  

Per accedere alla rivista cliccare qui : lo lugarn N°107







domenica 10 febbraio 2013

Tra giornalismo e letteratura. Autori liguri fra Ottocento e Novecento




Tra giornalismo e letteratura
14 febbraio – 14 marzo 2013
Foyer Teatro della Corte - Genova


In collaborazione con il Teatro Stabile e l’Università di Genova, la Fondazione Mario Novaro, organizza la sesta edizione di incontri culturali nell’ambito della rassegna “Hellzapoppin”. Dal 14 febbraio al 14 marzo 2013, ogni giovedì alle ore 17, nel foyer del Teatro della Corte si svolgeranno cinque conferenze sul tema “Tra giornalismo e letteratura”. L’ingresso è libero.

L’argomento, già trattato nel 2012 con un primo ciclo in cui venivano tracciati i ritratti di Autori liguri per nascita o attività, prosegue quest’anno nell’intento di mettere in luce altre personalità complesse, ricche e vivaci, poco note oppure dimenticate, che hanno dato un impulso importante alla vita culturale locale e anche nazionale.

Gli autori presi in esame sono Marise Ferro (1907-1991), Umberto Fracchia (1889-1930), Umberto V. Cavassa (1890-1972), Gandolin (Luigi Arnaldo Vassallo, 1852-1906), Irene Brin (Maria Vittoria Rossi, 1911-1969).

Questo il calendario degli appuntamenti:

14 febbraio - Alessandro Ferraro
Il segno indelebile e il sesso debole. Marise Ferro narratrice e giornalista

21 febbraio - Andrea Aveto
Umberto Fracchia. Vita di un “homme de lettres” tra narrativa, giornalismo, editoria

28 febbraio - Ombretta Freschi
Umberto V. Cavassa: il giornalismo per le vie della narrativa e della storia politica

7 marzo - Anita Ginella
Gandolin, un grande direttore per il giovane D’Annunzio

14 marzo - Franco Contorbia
Irene Brin tra giornalismo e letteratura

Ogni conferenza offre un’analisi documentata e approfondita sul carattere, la forza e l’originalità di Autori che con la loro attività intellettuale hanno arricchito la vita culturale di Genova e della Liguria, inserendosi in un contesto nazionale. Gli incontri, arricchiti da proiezioni, sono accompagnati da letture a cura di Maria Comerci.




Marise Ferro, il cui vero nome era Maria Luisa Ferro, nacque a Ventimiglia nel 1907. Fu scrittrice, giornalista, saggista e traduttrice. Sposò in prime nozze Guido Piovene e poi Carlo Bo. Il suo ultimo romanzo, La sconosciuta, vinse nel 1978 il Premio Stresa per la Narrativa.

Umberto Fracchia, nato a Lucca nel 1889, fu autore di romanzi (il più famoso è Angela) e racconti. Nel 1928 si trasferì nel Tigullio, a Bargone, collaborando con diversi giornali nazionali.

Umberto V. Cavassa, nato a Massa nel 1890, iniziò la sua carriera come redattore de “Il Lavoro”, di cui nel ’43 divenne direttore. Tre anni dopo fu nominato direttore del “Secolo XIX”, carica che ricoprì fino al 1968. Pubblicò diversi romanzi, fra cui I giorni di Casimiro e Gente diversa.

Luigi Arnaldo Vassallo, nato a Sanremo nel 1852, aveva scelto lo pseudonimo di Gandolin. Collaboratore di diverse testate genovesi, trasferitosi a Roma, divenne corrispondente del “Caffaro” e fondò i giornali “Capitan Fracassa” e “Don Chisciotte”. Rientrato a Genova dal 1896 fu direttore del “Secolo XIX”.

Irene Brin, pseudonimo di Maria Vittoria Rossi, nacque a Roma nel 1911. Donna di grandissima cultura (parlava correttamente cinque lingue), fu giornalista e scrittrice, ma anche gallerista d’arte, in sodalizio con il marito Gaspero del Corso, e grande viaggiatrice in contatto con esponenti di una cultura cosmopolita.


venerdì 1 febbraio 2013

Mario Ninno, Io vado a pascolare le capre


Cosa vuol dire passare la vita inseguendo le sofferenze e la disperazione degli ultimi della terra, dei dimenticati, di coloro di cui nell'Occidente ricco e annoiato nulla importa, ce lo racconta questo piccolo, ma importante libro, di un amico di Vento largo, che ha scelto di vivere la sua professione di infermiere negli angoli più sperduti del mondo, dal Sudan al Tibet.

186 storie di gente comune, senza volto e senza futuro, raccolte in tanti anni passati a cercare di portare un segno di speranza a chi è privo di tutto.

Il volume può essere richiesto a:
http://ilmiolibro.kataweb.it/
o tramite le Librerie Feltinelli.