martedì 31 dicembre 2013

Temporale notturno (Le illusioni d'Itaca, 8)



Dove il nostro marinaio comprende che vivere significa prima di tutto accettare se stessi, le proprie contraddizioni e debolezze. (Ottavo capitolo de Le illusioni d'Itaca)

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

8. Temporale notturno



Si svegliò a metà della notte. Era madido di sudore. Fuori il tempo era cambiato. Subito dopo la mezzanotte si era levato un gran vento. Vento di Ponente dalla Linguadoca lontana, aria di tempesta che portava con se la pioggia. Così almeno dicevano i vecchi.

Aveva sete. Si alzò a bere. Poi tornò a letto, si accese una sigaretta e si mise a fumare nel buio della stanza.
  • Cos'era che gli rendeva così difficile accettare il mondo? - si chiedeva aspettando quella pioggia che non arrivava.
Per anni il mare e il bere erano state il suo rifugio. Poi aveva trovato riparo nella scrittura. Lo scrivere lo aveva salvato dall' ansia che si portava dentro. Sulla pagina bianca si erano materializzati i fantasmi che abitavano la sua mente, che rendevano frenetiche le sue notti. Lo scrivere era servito a esorcizzarli, ma non per sempre. In quella notte, mentre fuori il vento si era ancora alzato e faceva sbattere gli scuri, li sentiva tutti presenti nel buio attorno a sé. Presenze fastidiose che venivano da lontano.

Sentì d'improvviso crescere dentro di sé il desiderio di alzarsi e fuggire.
  • Subito. Adesso. - si disse - Andarsene via da lì, fuggire da quella casa. Tornare da dove era venuto.
Non ci sarebbe voluto molto a fare la valigia e ad andare via. Da sempre si era abituato a muoversi con appena lo stretto necessario. Gli venne di pensare che era sempre stato pronto alla fuga. Che tutta la sua vita era stato solo un continuo fuggire da sé stesso. Un eludere i problemi. La ricerca incessante di un altrove. Il sogno continuo di un domani che allontanasse il dolore dell’oggi.

Il pensiero improvviso di Giulia lo trattenne. Il pensiero di Giulia e la consapevolezza che al termine di quella ennesima fuga non ci sarebbe stata ad attenderlo (lo aveva ormai ben chiaro nella mente) quella liberazione da sempre tanto agognata, ma una nuova più feroce servitù, un'insoddisfazione ancora più grande. E poi, liberazione da chi ? Da cosa ?

Una inquietudine antica lo aveva ripreso e lo divorava. Smaniava contro le catene che negli anni si era forgiato con le sue stesse mani. Una cosa di certo sapeva: questa sua vita erratica e caotica, che pure in qualche modo aveva fino ad allora amato, non assomigliava in nulla a quella libertà tanto sognata negli anni brucianti della gioventù. Così disperatamente cercata anche dopo aver superato quella sottile linea d’ombra che ad un tratto segna l’ingresso nell’età matura. Quando giunge il momento delle scelte definitive.

Fu d'improvviso consapevole che quei pensieri disordinati rappresentavano una muta richiesta di aiuto, la cosa che più si avvicinava ad una preghiera. Da tempo non credeva più, ma forse non era mai stato davvero religioso, neppure da bambino. Il suo, semmai era stato un cattolicesimo imposto, una religiosità cupa, fatto di rituali incomprensibili, intessuta di paura. Paura del peccato, paura della perdizione, paura della morte. Ripensò ai preti della sua infanzia. Uomini grigi, schiacciati dalla solitudine, sconfitti dalla vita. Nessuno di loro gli aveva mai spiegato cosa fosse veramente la fede, ma il senso del peccato, quello si che glielo avevano istillato fino a schiacciarlo. Non c'era nel loro mondo perdono, né possibilità di salvezza.
  • Siamo testardi nel peccare, vili nel pentimento. - pensò - Il vecchio Baudelaire aveva capito tutto.
Era come se l'incontro con Giulia lo avesse svuotato di ogni energia. Fino ad allora aveva avuto la forza di vivere da solo. Di bastare a se stesso. Di andare avanti, nonostante tutto e tutti se necessario. Adesso non se ne sentiva più capace e questa sensazione nuova lo faceva sentire debole, vile. O, meglio, simile nella sua miseria a tutti gli altri esseri umani. Per anni aveva creduto di aver raggiunto un punto di equilibrio che ora gli si rivelava niente altro che una pietosa illusione.



Si ritrovò a pensare che in fondo l'aveva sempre saputo, anche se prima di quel momento non aveva mai voluto ammetterlo neppure a se stesso. Tutto il suo scrivere, i libri pubblicati, la fama, che pure era venuta, non gli avevano insegnato nulla di più di quello che già dall'inizio sapeva, che ogni uomo sapeva. Doveva imparare a convivere con se stesso. Era questo che Giulia aveva cercato di dirgli prima di lasciarlo.

  • É più la gente che odia che quella che ama. - si disse - Questo è il problema. Non siamo più capaci di vivere con gli altri perché non riusciamo più ad accettare noi stessi. Se lo fossimo, la vita non sarebbe poi una cosa così terribile.
Si alzò di nuovo a bere, ma niente poteva placare la sua sete. Dal bosco dietro la casa giungevano i rumori della notte. E ancora pensava ai luoghi che aveva visto, alla gente che aveva incontrato. Povera gente stanca, segnata dalla vita.

Aucels portats dal vent… peisses dins la corrent… indians per la colino

Dicevano così i versi di una canzone di Sergio Berardo, l'ultimo dei grandi cantaires occitani. Si mise sottovoce a ripeterne una strofa, quella che ricordava meglio. Nelle orecchie il suono della fisarmonica e della ghironda.

Mas venarè la reina di
autopistas
e nos fasarè montar encar
un bot
si vituras coloràas
via d’i prats e la melia
la promessa d’aquel temp
sem aucels portats dal
vent
sem de peisses dins
la corrent

(Verrà ancora la regina delle/ autopiste/ e ci farà salire ancora/ una volta/ sulle macchine colorate/ via dai prati e dalla meliga/ la promessa di quel tempo/ siamo uccelli portati dal vento/ siamo pesci nella corrente)
  • La vita è fatta di opposti – si disse - Amore e odio. Desiderio e indifferenza. Ricordo e oblio. Piacere e sofferenza. Nulla è veramente come appare.
Tante domande gli si affollavano nella mente. Era questa solitudine la felicità che cercava? Questo errare inquieto era la vita che voleva? Tante domande e nessuna risposta. Ma poi, c’era qualcuno davvero in grado di spiegare il mistero antico dell’esistere? Sottile come una lama, il dolore cresceva dentro di lui.

Aprì la finestra: nell'oscurità l'aria era satura di umidità.
  • Sta per piovere. - Disse tra sé.
Il vento agitava le foglie degli alberi dietro la casa. Poi iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia e tutto il bosco d'improvviso prese a risuonare di quel ticchettio. In breve fu tempesta. I lampi illuminavano la vallata mentre l'acqua veniva giù a scrosci. Il temporale si faceva sempre più violento. Ora pioveva a dirotto. Grosse gocce battevano contro la finestra, tambureggiavano sulle lose consunte del tetto, scivolano sul terreno arso dall'estate che le assorbiva avido. Più che la violenza della pioggia o il rombare cupo dei tuoni lo turbava il rumore dell'acqua che correva giù lungo il sentiero. Aveva la sensazione di non controllare più il suo corpo, di essere in balia di quegli elementi scatenati, simile alle foglie che la corrente trascinava a valle lungo il viottolo divenuto torrente.

Poi, improvvisa come era sorta, la tempesta cessò. In piedi sull'uscio osservava lampi lontani rischiarare il cielo oltre la linea dell'orizzonte.

Si addormentò all'alba che il giorno già si levava.


(continua)