domenica 23 marzo 2014

Stragi naziste. La mappa mancante



A settant'anni dalle eccidio delle Fosse Ardeatine pubblichiamo larghi stralci di un articolo sulle stragi “dimenticate” apparso sulll'ultimo numero del giornale dell'ANPI, I resistenti.

Giorgio Amico

Stragi naziste: la mappa mancante

“Sembra incredibile, ma a settant’anni dai fatti, nonostante le centinaia di pubblicazioni, le mostre, le ricerche locali condotte dagli Istituti per il movimento di Liberazione, le commissioni d’inchiesta parlamentari, le commissioni internazionali, i processi, le inchieste giornalistiche... ebbene, nonostante tutto questo, non esiste ancora una mappa precisa delle stragi compiute dai nazisti contro i civili italiani tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Gli episodi maggiori sono arcinoti, dalla rappresaglia delle Fosse Ardeatine del marzo 1944 agli eccidi di Monte Sole e Marzabotto, tra il 29 settembre e il 4 ottobre 1944, che con oltre 1.800 vittime, tra cui centinaia di bambini e donne, rimane l’episodio più cruento di questo tipo in tutta la guerra europea. Ma dalle maglie tessute dagli storici mancano tanti fatti minori, avvenuti per esempio al Sud.”

Scrive così Paolo Pezzino, professore di storia contemporanea presso l'Università di Pisa, nel volume Le stragi nazifasciste del 1943-1945 tra memoria, responsabilità e riparazione, curato dall'ANPI nazionale e che prende spunto dal Convegno che l’Associazione ha tenuto, in una sala del Senato, il 29 gennaio 2013.

Un convegno pensato proprio per far conoscere una realtà finora trascurata e presentare un ambizioso progetto di ricerca, da svolgersi in due anni a cura dell'ANPI e dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Insmli), finalizzato alla realizzazione di un ''atlante delle stragi nazifasciste'' compiute in Italia tra il 1943 e il 1945.



Gli “armadi della vergogna” e l'insabbiamento delle responsabilità giudiziarie (e politiche)

Emblematica di questa situazione di mancato impegno è la questione dei cosiddetti “armadi della vergogna”. Il primo ritrovato casualmente nel corso di altre indagini nel 1994 nei locali del Tribunale Militare di Roma e contenente 695 fascicoli e un Registro generale riportante 2274 notizie di reato, relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazifascista.

Il secondo scoperto nel 2004 a Bologna nei sotterranei del Comando regionale dei carabinieri dell’Emilia-Romagna e riguardante 163 episodi avvenuti in regione che, solo nella provincia di Bologna, causarono 422 vittime.

Nei fascicoli vengono descritti luoghi, date, nomi dei morti e dei presunti colpevoli. Materiali occultati ai giudici con il risultato di rendere impossibile l'accertamento delle responsabilità.

Lo scandalo derivato dai fatti del 1994 portò prima allo svolgimento di un'indagine conoscitiva da parte della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati (2001) e poi all'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta (2003-2006).

Un'indagine di ampio respiro che permise la raccolta di circa 80 mila documenti, ma a cui non seguì alcun intervento concreto. La commissione produsse due documenti conclusivi che non furono mai discussi a causa soprattutto di un centrodestra tutto teso a minimizzare quanto accaduto e a negare l'esistenza di precise responsabilità da parte dei massimi vertici politici e militari dell'epoca a partire da Giulio Andreotti, per molti anni ministro della difesa e dunque personaggio centrale nella vicenda.

Un nulla di fatto sconcertante se solo si considera come dai materiali raccolti fossero emerse indicazioni precise che permettevano di fare luce sui retroscena di questa gigantesca operazione di insabbiamento e sulle responsabilità politiche che l'avevano resa possibile. Indicazioni raccolte e sistematizzate nella relazione di minoranza che permettono di delineare una pista “atlantica” e una dei “Servizi”.

Come nelle inchieste sulle stragi nere degli anni '70 l'indagine parlamentare rivelava l'esistenza di complicità e connivenze con ambienti che ritroveremo coinvolti, tanto per citare il caso più eclatante, nella rete NATO Stay Behind (Gladio) e ai quali occorreva garantire protezioni e coperture in cambio della loro partecipazione a progetti eversivi di contenimento (in particolare in Italia, ma anche nel resto d'Europa) della crescita delle sinistre e del movimento operaio.

Il tutto ambientato nel contesto internazionale della guerra fredda che dettava la “ragion di Stato” per cui a partire dalla fine degli anni Quaranta le indagini e i processi contro i responsabili delle stragi andavano fermate per mantenere buoni rapporti con una Germania che stava assumendo un ruolo centrale nei piani politico-militari NATO di contenimento dell'URSS. Un elemento considerato centrale già nel 2001 dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati:

“Dalla breve indagine – si legge nella relazione finale – che la Commissione Giustizia ha svolto è emersa con tutta evidenza che l'inerzia in ordine all'accertamento dei crimini nazifascisti sia stata determinata dalla 'ragion di Stato', le cui radici in massima parte devono essere rintracciate nelle linee di politiche internazionali che hanno guidato i Paesi del blocco occidentale durante la guerra fredda”.

Una volontà di omissione e di copertura di stragi e responsabili che vanno ben oltre quanto accaduto in Italia e comprendono anche le stragi di militari italiani nel settembre 1943 conseguenti all'armistizio e alla fine delle ostilità contro gli alleati.



La strage di Leopoli e la ricerca di Nuto Revelli

Nell'ambito della sistemazione dell'archivio di Nuto Revelli nel decennale della morte sono emersi numerosi materiali inediti (in larga parte appunti e lettere) relativi al massacro di almeno duemila soldati italiani da parte dei tedeschi a Leopoli, in Ucraina, dopo l'8 settembre '43. Dell'eccidio avevano parlato agenzie e giornali dell'Urss, ripresi nel 1960 dalla stampa italiana.

Anche in questo caso agli articoli non era seguito nulla e solo nel 1987 l'allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini aveva istituito una commissione con il compito di fare luce sull'accaduto. Nuto Revelli, chiamato a far parte della commissione, aveva con Lucio Ceva e a Mario Rigoni Stern scritto il testo della relazione di minoranza, in assoluto dissenso con le conclusioni della maggioranza che nel 1988 aveva concluso i lavori ignorando totalmente le testimonianze e negando addirittura che a Leopoli, fosse avvenuta una strage. Anche qui troviamo ragioni di Stato, pressioni internazionali e "armadi della vergogna".

Le vicende della commissione amareggiarono profondamente Nuto Revelli. Tanto che un anno dopo, partecipando a un programma culturale della Rai, confidava a Mario Isnenghi: «Tu sai quanto quell'esperienza mi bruci ancora. Mi è stato rinfacciato non una ma cinquanta volte che mi manca il distacco storico, e che sarei quindi uno storico un po' così, sui generis. Io invece sostengo che proprio coloro che mi incolpavano di non avere distacco storico, erano troppo distaccati: erano lontani dagli avvenimenti di guerra addirittura da angosciarmi, da spaventarmi ».

Accusato di essere prevenuto, di essere, come si direbbe oggi, “ideologico”, Nuto rispondeva nei suoi appunti rilevando come da parte della commissione si fosse sopravvaluta la documentazione ufficiale, le relazioni omissive dei comandi militari. “Io ho un'altra visione della storia (anche se non sono uno storico): la storia vissuta dal basso, una storia della quale sappiano poco o nulla. Manca una tradizione culturale in questo senso”.

La concezione di Nuto della storia dal basso partiva da un'amara riflessione: «Le dichiarazioni dei soldati non contano nulla, per cui magari vengono mandate al macero». Concludeva i suoi appunti così: «Sia ben chiaro! Una cosa è il disastro dell'Armir, ed un'altra è il dopo disastro, con delle frange dimenticate o disperse. E un'altra cosa ancora è l'8 settembre ed il dopo 8 settembre 40 anni dopo».



La “pista jugoslava” e i crimini taciuti dei comandi italiani

Nella relazione di minoranza della commissione parlamentare sugli “armadi della vergogna” veniva anche considerata tra le motivazioni dell'atteggiamento omertoso tenuto dalle autorità politico-militari la cosiddetta “pista jugoslava”, secondo cui si sarebbe rinunciato a perseguire i criminali di guerra tedeschi per salvare i criminali di guerra italiani autori di stragi non meno efferate in Albania, Jugoslavia, Grecia. Oltre alle pressioni internazionali, che pure ci furono e forti, giocò dunque nell'occultamento sistematico della verità la volontà di chiudere definitivamente una pagina di storia che coinvolgeva direttamente nei crimini del fascismo le nostre Forze Armate. Meglio tacere sulle colpe altrui e favorire la diffusione del falso mito degli “italiani, brava gente”, piuttosto che esigere (e fare) chiarezza, rischiando che l'Italia potesse a sua volta essere chiamata in giudizio per i crimini commessi nei Balcani negli anni 1940-43.

Una ipotesi che ha avuto di recente nuove conferme. Di recente è stata resa pubblica la relazione finora riservata di una Commissione istituita il 6 maggio del 1946 dal ministero della Guerra per «accertare le responsabilità nelle quali potessero essere incorsi i comandanti o i gregari italiani nei territori d’oltre confine occupati dalle forze armate italiane nell’ultima guerra».

Nella relazione, datata 30 giugno 1951, pur con molti distinguo si ammetteva l'esistenza di responsabilità degli alti comandi italiani nella repressione feroce del movimento partigiano nei Balcani.

«L’annientamento di interi villaggi, le rappresaglie più spietate, furono opera di gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro (…) Tuttavia non può disconoscersi che gli ordini e le disposizioni dati da alcuni comandanti militari e da qualche autorità civile e i giudizi sommari di qualche tribunale straordinario apparissero improntati ad un rigore eccessivo».


Non ne seguì nulla. Della questione non si parlò più. Gli atti dell'inchiesta finirono sepolti nell'ennesimo armadio della vergogna per riapparire solo oggi, a distanza di 62 anni. A confermare che l'impegno costante per la difesa della memoria rappresenta un fronte centrale della difesa della democrazia nell'Italia di oggi.