giovedì 25 giugno 2015

Walter Benjamin, Proust e Baudelaire. Due figure della modernità




Associazione Amici di Francesco Biamonti

Itinerari di Letteratura III

San Biagio della Cima, Centro Polivalente "Le Rose"

Sabato 27 giugno
ore 17.30

Presentazione di:

Walter Benjamin
Proust e Baudelaire. Due figure della modernità
a cura di Francesco Cappa e Martino Negri
Raffaello Cortina, 2014.


sabato 20 giugno 2015

La nave di Mussolini perduta fra le montagne



Giorgio Amico

La nave di Mussolini perduta fra le montagne

Alle spalle di Cuneo, in Valle Stura, si racconta una strana storia. Nel 1940 poco prima dell'inizio della guerra, Benito Mussolini sarebbe dovuto venire in Valle per controllare di persona lo stato di avanzamento dei progetti di fortificazione delle montagne e di sbarramento delle vie di accesso alla Francia.

Per questa occasione, di grande risonanza propagandistica, era stato ricercato con cura un luogo adatto.

Un vero e proprio set cinematografico naturale di facile accesso da utilizzare come sfondo per un evento che si voleva grandioso. Una valle alpina non troppo grande, isolata in modo da far risaltare la grandiosità dello sbarramento naturale rappresentato dalle montagne, ma allo stesso tempo facilmente raggiungibile.

Una valle nascosta, quasi segreta, che da una parte rivelasse il potenziale militare dell'Italia fascista ma che al contempo lo avvolgesse in un velo di mistero in modo da accentuarne così la minacciosa potenza distruttiva.



Individuata la località, il Genio militare procedette con alacrità alla costruzione di strade, postazioni di artiglieria, casermette e grandi rifugi in caverna. Poi, terminata la fase di armamento del confine, si passò alla fase due del progetto: l'allestimento dello spazio in cui il Duce avrebbe parlato alle truppe.

Qualcuno pensò ad un'idea strepitosa: costruire al culmine della valle, sotto il passo che porta in Francia la prua di una nave da guerra, simbolo di un'Italia audacemente protesa alla conquista di un futuro di gloria,

Il progetto, poi sfumò, come spesso accade in Italia. Mussolini non tenne mai quel discorso e la guerra, che invece, purtroppo, ci fu veramente, ebbe l'esito tragico che tutti sappiamo. Ma da allora in quella piccola valle nascosta del Cuneese la prua in cemento di una nave fantasma sfida tempeste, neve e gelo e attende ancora chi vada ad inaugurarla.

Siamo andati a cercarla, guidati da un amico che conosce bene la montagna.



Percorsa la strada di fondo valle, subito dopo Vinadio abbiamo svoltato per le Terme, abbiamo attraversato il piccolo incantato borgo occitano di Strepeis e siamo saliti fino a San Bernolfo, un gruppo di antiche baite in legno a 1663 metri.

Abbiamo poi proseguito a piedi lungo la strada militare, ancora molto ben conservata, che sale al Vallone di Collalunga. Siamo arrivati al Rifugio De Alexandris Foches e poi al Laus.



Il lago è magnifico, da poco sopra, sullo spiazzo di un'antica postazione militare, la vista è incantevole. Di fronte a noi, in alto, appena sotto il costone che chiude la vallata si nasconde la nave fantasma.



Aggirato il lago, si risale il vallone costeggiando il torrente.



Al lago intermedio troviamo la prima neve.



Siamo alla metà di giugno, ma la neve quest'anno è davvero ancora tanta.



Sopra di noi spuntano le postazioni che sbarrano il vallone.



Al nostro passaggio sentiamo fischiare le marmotte, ma non le vediamo. Vediamo invece tracce dei rotoli di filo spinato che difendevano le postazioni. Sono ancora lì dopo settant'anni a testimoniare della vanità delle cose umane.



E all'improvviso, dopo una svolta del sentiero, ci appare la nave che siamo venuti a cercare. Siamo a 2500 metri.



Davanti ai resti di caserme semidistrutte che recano ancora i vecchi stemmi della Taurinense.



Fra cumuli di neve e macerie.



A forma di freccia, la prua in cemento si protende verso la valle, ricordo di un sogno imperiale diventato tragedia.



Da qui il duce avrebbe arringato le truppe. Questo è quello che avrebbe visto.



Risaliamo ancora il sentiero che porta alle postazioni avanzate. Sotto di noi i laghi superiori semisommersi dalla neve, davvero tanta.



Troppa, decidiamo di fermarci e di non salire al Passo (2700 metri).



Scendiamo a valle, verso il Laus. Ci lasciamo alle spalle ricordi di guerra.



Ma le genziane in piena fioritura sono un segno di pace.



martedì 9 giugno 2015

Francesco Biamonti e "i suoi autori"


13 giugno 2015
ore 17.30
San Biagio della Cima (IM)

Primo appuntamento dell'undicesima edizione degli itinerari, quest'anno dedicata a Francesco Biamonti e "i suoi autori"

Presentazione di "Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure", a cura di Davide Colussi e Paolo Zublena, Macerata, Quodlibet, 2014. 

Presenti i curatori. Ampie letture di testi di Caproni a cura di Maura Amalberti.

venerdì 5 giugno 2015

Salvador Allende massone



Salvador Allende, il presidente di Unidad Popular fatto assassinare da Pinochet, fu esponente di primo piano della massoneria. Un libro di un giornalista cileno ne rilegge il percorso politico a partire da questa appartenenza.

Giorgio Amico

Salvador Allende massone

Si è scritto molto sull'esperienza tragica di Unidad Popular e poi sul tormentato e lungo percorso del Cile dalla dittatura sanguinaria di Pinochet al ristabilimento della democrazia, ma poco spazio è stato dedicato alla figura di Salvador Allende, alle sue idee e al suo percorso politico.

Un libro, di cui appare oggi la versione italiana, permette di colmare questa lacuna e nel contempo di approfondire il tema dei rapporti fra Massoneria e movimento socialista e democratico. Un tema valido non solo per l' America Latina dove riguarda figure importanti del passato o della contemporaneità ( tra i tanti: Martì, Haya de la Torre, Sandino, Fidel Castro, Chavez), ma anche per l'Italia. Basti pensare al ruolo nella nascita del movimento operaio e socialista di massoni dichiarati come Bakunin e Andrea Costa.

Perchè Allende fu esponente di primo piano della massoneria cilena e l'intera suo percorso politico nel Partito socialista fino all'esperienza di Unidad Popular ha una esplicita (e dichiarata) connotazione massonica. 

Nato nel 1908, Salvador Allende si forma all'interno di una famiglia fortemente connotata in senso massonico. Massone il padre, ma soprattutto il nonno, Ramon Allende Padin, medico progressista, soprannominato “ il rosso” per la sua azione in favore del popolo, eletto Gran Maestro della Gran Loggia del Cile nel 1884.

Per Allende impegno politico e militanza massonica procedono insieme fin dagli inizi. Iniziato il 16 novembre 1935 nella Loggia “Progreso” n. 4 di Valparaiso, fondata dal nonno, si trasferisce nel 1940 per seguire i suoi impegni politici a Santiago del Cile dove entra nella Loggia Hiram n. 65, alla quale appartiene fino alla tragica morte nel 1973.



Come emerge dalla ricca documentazione del volume, Allende riconoscerà sempre l'influenza profonda sul suo pensiero e sulla sua azione politica degli ideali massonici di libertà, fratellanza e uguaglianza. E questo nonostante le contraddizioni che egli fin da subito nota nell'Istituzione.

“Dal punto di vista squisitamente teorico, la massoneria è una istituzione perfetta. Ma questo mondo ideale puo’ aiutare l’uomo reale, l’uomo comune che affronta gli imperativi della vita quotidiana? I massoni proclamano uguaglianza, libertà e fraternità come somma sintesi della convinzione collettiva. Possiamo, con onestà intellettuale, immaginare che la composizione delle nostre logge rifletta la società cilena dei nostri giorni?  La mia risposta è negativa. Nella massoneria si combinano solo elementi della borghesia o di chi aspira ad essere borghese. E’ una constatazione”.

Constatazione (del 1965) che non interrompe la sua militanza massonica, che anzi ne riceve nuovo slancio. Per Salvador Allende lottare per una Massoneria democratica e progressista in un Cile più libero e giusto fa parte della stessa battaglia culturale, civile e politica.

Significativo è il suo discorso su massoneria e socialismo” durante la tornata della Gran Loggia di Colombia a Bogotà il 28 agosto 1971, quando già era presidente del Cile.

“Avevo piena coscienza che l’Ordine non è né una setta, né un partito, e che sgrossando la pietra grezza ci si prepara per agire nel mondo profano…quando per la prima volta, ascoltando il Rituale, udii che «gli uomini senza principi e senza idee ferme, sono come le imbarcazioni che, una volta rotto il timone, si sfasciano contro gli scogli». Appresi anche che nel nostro Ordine non ci sono gerarchie di natura sociale né economica. Fin dal primo momento divenne dunque più forte in me la convinzione che i principi dell’Ordine, proiettati nel mondo profano, potevano e dovevano essere un contributo al gran processo rinnovatore che tutti i popoli del mondo cercano di effettuare, specialmente i popoli di questo Continente, la cui dipendenza politica ed economica accentua la tragedia dolorosa dei paesi in via di sviluppo”.



Marxista rigoroso, Allende fu dunque sempre ben consapevole della difficoltà del compito e dei limiti e delle ambiguità della massoneria riflesso delle contraddizioni della società cilena. Lo stesso Pinochet d'altronde aveva avuto frequentazioni massoniche e forse questo spiega perché fino all'ultimo Allende se ne fidò. Leggendo il libro colpisce la lucidità con cui Allende valutò sempre il rischio di isolamento e incomprensione sia in Loggia che nel Partito. Il discorso di Bogotà lo testimonia chiaramente:

“Nelle Tavole presentate alle diverse Logge della mia patria ho sempre insistito sulla sicurezza, per me certa, che potevo coesistere nei Templi con i miei Fratelli, anche se per molti era difficile immaginare che questo fosse possibile per un uomo che nella vita profana dice pubblicamente di essere marxista… Sostenni il mio diritto a essere massone e socialista allo stesso tempo. Nei Congressi dissi pubblicamente che qualora si fosse accettata questa incompatibilità, avrei abbandonato il partito come militante, anche se non avrei mai smesso di essere socialista in quanto a idee e principi.

Allo stesso tempo sostenni che il giorno che nell’Ordine si fosse accettata l’incompatibilità tra le mie idee e la mia dottrina marxista, e l’essere massone, avrei abbandonato le Officine, convinto che ivi la tolleranza non era una virtù praticata. Ho potuto vivere questa realtà (essere marxista e massone) e credo di poter offrire ai Fratelli della Gran Loggia di Colombia solamente una vita leale ai principi dell’Ordine, dentro l’Ordine e nel mondo profano”.

Una alterità quella fra impegno politico e massonico che il presidente di Unidad Popular rifiutò sempre di prendere in considerazione, considerando il suo essere socialista e massone come elementi coerenti di una vita intera dedicata alla lotta per un Cile migliore. Un impegno coerente e rigoroso che Salvador Allende onorò fino al suo assassinio, l'11 settembre 1973, e che il libro di Juan Gonzalo Rocha ricostruisce a fondo.



Rocha J. Gonzalo
Allende massone. Il punto di vista di un profano
Mimesis, 2015
22 euro


mercoledì 3 giugno 2015

Lo Lugarn. Rivista del Partito della Nazione Occitana



E' disponibile on line il numero 114 di Lo Lugarn, rivista del Partito della Nazione Occitana. Contiene tra l'altro un'interessante riflessione sul mito dell'occitanismo politico.

La rivista può essere scaricata al seguente indirizzo:


http://lo.lugarn-pno.over-blog.org/2015/06/le-n-114-de-la-revue-lo-lugarn-est-en-ligne.html


martedì 2 giugno 2015

Fiera degli Acciugai della Valle Maira



6 - 7 giugno Sapori e profumi delle Valli D’Oc
Fiera degli Acciugai della Valle Maira

Due giorni dedicati alla rievocazione dell’antico mestiere dell’acciugaio, tra iniziative culturali e appuntamenti gastronomici

La storica fiera dronerese ritorna puntuale il primo weekend di giugno, sviluppando numerosi appuntamenti intorno al commercio e alla lavorazione dell’acciuga, tema centrale della rievocazione.

Durante le giornate di sabato e domenica sarà allestita l’area espositiva dei prodotti tipici delle Valli d’Òc dislocata in Via Roma, Piazza Martiri della Libertà, Via Saluzzo, Piazza Manuel di San Giovanni e Via Garibaldi. Durante il weekend saranno organizzate visite guidate gratuite al Centro Storico e si potrà assistere alla macinatura tradizionale del Pignolet della Valle Maira presso il Mulino della Riviera con assaggi di prodotti realizzati con le farine di mais antico, focacce e pizze fresche da speciali forni. La fiera ospiterà inoltre un’esposizione di casette in legno per la nidificazione e mangiatoie per uccelli e un’esposizione dal vivo di bachicoltura sotto l’ala del Cinema Teatro Iris.



La manifestazione si aprirà il venerdì sera con la Gara Belote 4° Trofeo degli Acciugai. Il sabato pomeriggio sarà dedicato all’esibizione degli alunni del Corso ad indirizzo musicale della Scuola Media di Dronero (presso Piazza Manuel - piazzetta del Cavallo Bianco), alle 18.00, presentazione "VIAGGIO IN VALLE MAIRA" - AMBIENTE, STORIA, CULTURA E TRADIZIONI DI UNA VALLE ALPINA, a cura di Enrico Bertone, edizioni Fusta Editore (presso la Sala Giolitti nei locali della BANCA DI SAVIGLIANO Filiale di Dronero); seguirà, alle ore 18,30 in Piazza Martiri, l’inaugurazione della Fiera con taglio del nastro e a seguire presentazione dell’evento “Dronero un Borgo Ritrovato”; il pomeriggio si conclude con un momento musicale a cura della Banda Musicale S.Luigi di Dronero e la Banda di Caraglio. La sera, TreLILU in concerto, ore 22.00 in p.za Martiri della Libertà, ingresso gratuito.

La domenica, vede dalle ore 10,30 visite guidate al centro storico del paese, partenze presso il Punto info in P.za Martiri. Alle Ore 14,30: Presentazione del libro "Lou Dalfin Vita e miracoli dei contrabbandieri di musica occitana" di Paolo Ferrari - Fusta editore (presso Piazza San Sebastiano); a seguire, nel pomeriggio, La Grande Orchestra Occitana rallegrerà l’area mercatale facendo ballare con le danze occitane. Concluderà l’evento un momento conviviale, ore 17.30 sulla Terrazza del Teatro Iris, concerto aperitivo con insegnanti e alunni del Civico Istituto Musicale di Dronero; per i più piccoli, la domenica, sono previsti in via Garibaldi “I GIOCHI del TEMPO CHE FU”.


Il programma dettagliato è visionabile sul sito dell’evento www.fieradegliacciugai.it  

lunedì 1 giugno 2015

Il berretto frigio simbolo di libertà. Dal culto di Mitra a Salvador Dalì, passando per Robespierre



Il berretto frigio rappresenta forse il più famoso simbolo di libertà. Raffaele Salinari ne ricostruisce la storia e i significati più autentici,  dal culto di Mitra ai giacobini, passando anche per la pittura di Salvator Dalì.

Raffaele Salinari

Copriti con questo berretto: vale più della corona di un re


Cosa uni­sce Sal­va­dor Dalí ai Puffi? E ancora, il pit­tore cata­lano ed i pic­coli esseri azzurri all’alchimista di Notre Dame ed alla Rivo­lu­zione fran­cese? Un copri­capo che sus­sume in una sola forma molti aspetti della stessa sostanza: il ber­retto fri­gio.

Il cap­pello dei rivo­lu­zio­nari gia­co­bini ha ori­gini che ne spie­gano ampia­mente la capa­cità di espri­mere la mede­sima essenza sim­bo­lica sep­pur in con­te­sti appa­ren­te­mente diversi. Se lo tro­viamo, infatti, posato sul capo di Marianna, l’effige fem­mi­nile rap­pre­sen­tante la Repub­blica fran­cese nel cele­bre qua­dro La Libertà che guida il popolo di Eugène Dela­croix, le sue ascen­denze riman­dano a quelle di anti­chis­sime divi­nità ira­ni­che, arri­vate in Occi­dente sotto varie forme, inclusi i Re Magi come li tro­viamo effi­giati in alcune raf­fi­gu­ra­zioni pro­to­cri­stiane.

E dun­que, da dove viene que­sto copri­capo, e per­ché la sua valenza sim­bo­lica lo ha reso così espres­sivo? Per capirne la genesi dob­biamo risa­lire le tappe sto­ri­che che lo hanno visto pro­ta­go­ni­sta. In pri­mis biso­gna con­si­de­rare la sua forma pecu­liare, che nasce da quella della pelle di un capretto aperta. Ini­zial­mente, infatti, il copri­capo era otte­nuto da una pelle intera: le zampe poste­riori erano legate al mento men­tre quelle ante­riori for­ma­vano la sua carat­te­ri­stica pro­tu­be­ranza ante­riore, che poteva pen­dere sul davanti o sul die­tro o rima­nere in posi­zione ver­ti­cale. Col tempo non è stato più otte­nuto in que­sto modo, ma ha man­te­nuto la carat­te­ri­stica forma che ancora allude all’originaria preparazione.



I MISTERI ELEUSINI

I primi testi che ci par­lano del ber­retto fri­gio — detto così per­ché, come vedremo, diviene famoso come copri­capo degli anti­chi per­siani che ave­vano nel VI secolo a C. con­qui­stato la Fri­gia, l’attuale Ana­to­lia turca — sono quelli ine­renti ai Misteri eleu­sini, riti reli­giosi miste­rici che si cele­bra­vano ogni anno nel san­tua­rio di Deme­tra nell’antica città greca di Eleusi. Al cul­mine del rito, dice Ermia Ales­san­drino, nell’epopteia, la visione: «L’anima recu­pera la tota­lità della sua essenza dalla fram­men­ta­rietà e dalla mol­te­pli­cità del sen­si­bile».

Epop­teúo è il verbo che indica, con­tem­po­ra­nea­mente, la con­tem­pla­zione sovra-razionale, il suo momento, e la cer­tezza di que­sta cono­scenza: una visione cai­ro­lo­gica, nella quale si supera il fram­men­ta­rio ed il com­plesso per cogliere ciò che uni­sce e ci uni­sce a tutte le cose.

Pierre Dujols nel suo Histo­rie des Jaco­bins depuis 1789 jusqu’à ce jour (Parigi 1820), in cui trac­cia la sto­ria rivo­lu­zio­na­ria del cap­pello, scrive che, giunti al grado di Epopte nei Misteri di Eleusi, si chie­deva all’iniziato se si sen­tiva la forza, la volontà e la dedi­zione per dedi­carsi alla Grande Opera.
Allora gli si posava sopra il capo un ber­retto fri­gio di colore rosso, pro­nun­ciando que­ste parole: «Copriti con que­sto ber­retto, vale più della corona di un re».

Il ber­retto repub­bli­cano, che «vale più della corona di un re», nasce allora come copri­capo legato ai culti eso­te­rici di Deme­tra e Per­se­fone, dove le due divi­nità rap­pre­sen­tano il ciclo eterno della Natura Natu­rans in rela­zione alle sue crea­ture, quelle della Natura Natu­rata, nelle quali il prin­ci­pio vitale, l’archetipo delle vita indi­strut­ti­bile, come dice Keré­nyi di Dio­niso, si esprime.

E dun­que qui vediamo già una prima deter­mi­nante sim­bo­lica del rosso copri­capo: esso rap­pre­senta un prin­ci­pio di libe­ra­zione che viene dalla retta visione, quella sulla «trama nasco­sta» come dice Era­clito, che è «più forte di quella mani­fe­sta». L’epopteia nella quale l’anima recu­pera la tota­lità della sua essenza altro non è, allora, che la visione essen­ziale della libertà: quel tro­vare il nostro posto nel mondo affin­ché, al con­tempo, il mondo trovi posto in noi.



MITRA

Ma, prima delle divi­nità gre­che, che d’altra parte vei­co­la­vano il mede­simo signi­fi­cato sim­bo­lico, il ber­retto fu uti­liz­zato dai sacer­doti del Sole, nella regione della Fri­gia, per i riti dedi­cati al dio Mitra.

La figura di Mitra com­pare pri­ma­ria­mente nei Veda, gli anti­chi testi indiani risa­lenti al XX secolo a C., come uno degli Adi­tya, un gruppo di divi­nità solari dell’induismo discen­denti da Aditi e Kashyapa. Aditi è una Dea Madre, una delle innu­me­re­voli ipo­stasi della Grande Dea nei secoli, nel Ṛgveda, (I, 89,10), il testo più antico, si dice: «Aditi è il fir­ma­mento, Aditi è l’atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cin­que razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi è ciò che deve ancora nascere».

Kasyapa è invece una figura paterna, un dio-Padre che, all’epoca della reli­gio­sità pre-vedica, era un dio pri­mor­diale dive­nuto poi, in epoca vedica, lo sposo di Aditi. Joseph Cam­p­bell nel suo Le maschere di dio, sag­gio sulla mito­lo­gia orien­tale, ci ricorda come fosse ori­gi­na­ria­mente raf­fi­gu­rata come una mucca.

Da qui una prima rela­zione col toro mitraico che tro­ve­remo in tutte le raf­fi­gu­ra­zioni poste­riori. Mitra, divi­nità dun­que di ori­gine indo ira­nica, pri­ma­ria­mente parte di una tri­nità for­mata da madre, padre e figlio, sus­sunse poi col tempo le altre due assu­mendo una sem­pre mag­giore impor­tanza nella civiltà per­siana fino a iden­ti­fi­carsi, nella con­ce­zione rigi­da­mente mono­tei­sta dello Zoroa­stri­smo, o Maz­dei­smo appunto, con Ahura Mazda l’unico Dio, crea­tore del mondo sen­si­bile e di quello sovra­sen­si­bile.

Que­sto nome in ave­stico signi­fica «spi­rito che crea con il pen­siero» da: Ahura deri­vato dall’antico ave­stico anshu nel signi­fi­cato di «respiro vitale», col­le­gato ad ansu (spi­rito), e Mazdā deri­vato dalla radice indoeu­ro­pea mendh che indica l’«apprendere»; quindi nel signi­fi­cato di «memo­ria» e «pen­siero».

Qui si mostra una seconda deter­mi­nante sim­bo­lica legata al ber­retto fri­gio: il «retto pen­siero» che, con la retta visione epop­teica si pone come ulte­riore ele­mento della triade sim­bo­lica che verrà poi com­ple­tata dall’agire liber­ta­rio. Il culto di Mitra appare per la prima volta a Roma all’epoca di Nerone, che si fece ini­ziare ai suoi misteri; nel tempo, soste­nuto dai legio­nari romani che lo ave­vano impor­tato dall’Oriente per­ché vede­vano in lui un dio guer­riero per via della sua lotta con­tro il Toro — al tempo stesso sim­bolo astro­lo­gico delle rina­scente pri­ma­vera e emblema della forza crea­trice — si dif­fuse a tal punto che con­venne agli impe­ra­tori, capi supremi dell’esercito, dive­nire miste, cioè ini­ziati e gran sacer­doti del dio.

Con Aure­liano, nel 279 d.C., il culto fu poi fatto coin­ci­dere con quello del dio Sole, il Sol Invic­tus e, da quel momento, la fede in Mitra e la sua ado­ra­zione diven­nero un dovere che l’imperatore esi­geva in modo da legit­ti­mare il suo potere teo­cra­tico. La reli­gio­sità mitraica, miste­rica ed eso­te­rica, com­pren­deva sette gradi: corvo, ninfo, miles, leone, per­siano, helio­dro­mos e Pater, che ripro­po­ne­vano sim­bo­li­ca­mente il viag­gio dell’anima a ritroso, cioè nella sua risa­lita attra­verso le varie sfere, sino ad oltre­pas­sare quella dell’Aquila, ver­tice del mondo delle Potenze, e rag­giun­gere così il Prin­ci­pio, il Mondo dell’Origine, l’iperuranio pla­to­nico in cui vivono le Idee.



Nel mitreo di Santa Pri­sca in Roma, uno dei meglio con­ser­vati della città, vediamo come le pareti late­rali fos­sero rico­perte di pit­ture, oggi visi­bili e leg­gi­bili solo in parte, rea­liz­zate cer­ta­mente prima del 200 d.C.. Già que­sta data, in piena fio­ri­tura cri­stiana, ci dice quanto il culto di Mitra fosse pene­trato pro­fon­da­mente all’interno della cul­tura romana ed anzi, come esso sia stato l’ultimo culto pagano a scom­pa­rire con l’affermarsi del cri­stia­ne­simo. Si dice che anche Costan­tino, nono­stante il suo famoso editto, fosse un adepto del dio. Sulla parete di destra sono raf­fi­gu­rati i sette gradi di ini­zia­zione del culto, ad ognuno dei quali è abbi­nato un per­so­nag­gio ed una frase che ini­zia con la parola per­siana Nama, «onore», quindi il grado di ini­zia­zione seguito dalla for­mula «sotto la pro­te­zione», abbre­viata in vari modi, spesso sin­te­tiz­zata dalla sola parola «tutela», per chiu­dere con il rispet­tivo pia­neta che lo pro­teg­geva.

Ma ciò che mag­gior­mente ci inte­ressa si trova in dire­zione dell’altare, dove sono raf­fi­gu­rati dei per­so­naggi pro­ba­bil­mente real­mente esi­stiti, dato che di ognuno è ripor­tato il nome; essi si diri­gono verso una figura seduta, iden­ti­fi­ca­bile con il Pater, vale a dire il grado più alto rag­giun­gi­bile, al quale por­tano degli oggetti, forse delle offerte: un toro, un gallo, un cra­tere, un mon­tone ed un maiale. L’uomo seduto indossa il ber­retto fri­gio, è vestito di rosso, ed a sini­stra della figura si legge l’iscrizione Nama (Patribus)/ ab oriente / ad occi­dente (m)/ tutela Saturni. Dun­que la figura che poi, nella reli­gio­sità cri­stiana, assu­merà il ruolo di Papa, ed indos­serà anche la carat­te­ri­stica Mitra, evo­lu­zione del ber­retto fri­gio, deriva da que­sto culto.



I RE MAGI

Il ber­retto fri­gio è anche un indu­mento fon­da­men­tale nell’abito tra­di­zio­nale del regno per­siano dal VI secolo a.C. al II secolo a.C. È per que­sta sua pro­gres­siva dif­fu­sione in ambito pro­fano che, nell’arte greca del periodo elle­ni­stico, appare come indu­mento tipico degli orien­tali. E chi più orien­tale dei Magi, cioè maghi, grandi sapienti che, seguendo la stella cometa, arri­vano a Betlemme in occa­sione della nascita del Sal­va­tore?

Le cono­scenze astro­man­ti­che dei Cal­dei, cioè dei Babi­lo­nesi, erano ben note nell’antichità paleo­cri­stiana. Già Dio­doro Siculo, nella sua Biblio­theca Histo­rica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testi­mo­nianza: «I Cal­dei, che tra i Babi­lo­nesi sono i più anti­chi… si appli­cano per tutta la vita agli studi filo­so­fici e trag­gono prin­ci­pal­mente assai glo­ria dall’astrologia. E come molto si occu­pano dell’arte divi­na­to­ria, pre­di­cono le cose future, e cer­cano, o con le espia­zioni, o con i sacri­fici, o con certi incan­te­simi, di allon­ta­nare le cat­tive vicende o di farne seguire le buone. E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed inter­pre­tano i sogni ed i pro­digi, e cer­ta­mente ven­gono repu­tati pro­feti esatti». Ludolfo di Sas­so­nia (m. 1378), nella sua Vita Chri­sti, sostiene che: «I tre re pagani ven­nero chia­mati Magi non per­ché fos­sero ver­sati nelle arti magi­che, ma per la loro grande com­pe­tenza nella disci­plina dell’astrologia. Erano detti magi dai Per­siani coloro che gli Ebrei chia­ma­vano scribi, i Greci filo­sofi e i latini savi».

Una tra le più anti­che raf­fi­gu­ra­zione dei Magi, a nostra cono­scenza, si trova nella cosid­detta cap­pella Greca della cata­comba di Pri­scilla a Roma. La scena è sem­pli­cis­sima: i tre Magi, distinti nei colori dei loro vestiti, si avvi­ci­nano da sini­stra a destra ad uno scranno dove si trova seduta la Madre con il Bam­bino. I tre por­tano doni non distin­gui­bili. Die­tro la sedia si scorge un resi­duo di colore che può essere forse inter­pre­tato come ciò che è rima­sto della Stella. I tre Magi indos­sano un corto chi­tone con pan­ta­loni e por­tano il copri­capo fri­gio, cosi da essere carat­te­riz­zati come per­so­naggi orien­tali.

Stessa raf­fi­gu­ra­zione tro­viamo sia su una lapide di pie­tra oggi custo­dita a Ravenna, presso il Museo Arci­ve­sco­vile pro­ve­niente dalla Cap­pella dei SS. Qui­rino e Giu­litta (V sec.), sia sulla Coper­tura dell’Evangelario custo­dita nel Museo del Duomo di Milano. Le raf­fi­gu­ra­zioni tro­vano riscon­tro nel testo del van­gelo di Mat­teo: «Alcuni Magi giun­sero da oriente (…); la stella… li pre­ce­deva, fin­ché giunse e si fermò sopra il luogo dove si tro­vava il bam­bino (…); videro il bam­bino con Maria sua madre (…); e gli offri­rono in dono oro, incenso e mirra».

Sul coper­chio di un sar­co­fago delle Grotte Vati­cane, rin­ve­nuto sotto la Basi­lica di S. Pie­tro, sono raf­fi­gu­rati i tre Magi, alle cui spalle s’intravedono tre dro­me­dari. Il sar­co­fago è del 345 circa. E di dro­me­dari parla un passo di Isaia (60,6) nell’Antico Testa­mento, inter­pre­tato dun­que come pro­fe­zia dell’adorazione dei Magi: «Ver­ranno a te i beni dei popoli. Uno stuolo di cam­melli ti inva­derà, dro­me­dari di Madian e di Efa, tutti ver­ranno da Saba, por­tando oro e incenso e pro­cla­mando le glo­rie del Signore».

Un altro testo, tratto dal libro dei Salmi, dice: «I re di Tar­sis e delle isole por­te­ranno offerte, i re degli Arabi e di Saba offri­ranno tri­buti» (71,10). A motivo di quest’ultimo ver­setto, a par­tire dall’arte medie­vale, si comin­cia a par­lare dei Magi come di re, e così ven­gono rap­pre­sen­tati con i sim­boli este­riori della loro rega­lità: non il ber­retto fri­gio ma la corona.

Il rilievo sulla porta lignea di S. Sabina, a Roma, ese­guito intorno al 431, mostra ancora Maria e il Bam­bino su di un trono col­lo­cato alla som­mità di sei sca­lini, cioè i sei gradi più uno che por­tano al com­pi­mento dell’iniziazione mitraica. I tre Magi indos­sano i noti vestiti orien­tali, com­preso il ber­retto fri­gio. Tutta la rap­pre­sen­ta­zione della scena allude chia­ra­mente a mes­sag­geri «Parti», cioè Per­siani che por­tano i loro doni.



IL BERRETTO DELL’ADEPTO

«Se, spinti dalla curio­sità, o per dare uno scopo pia­ce­vole alla pas­seg­giata senza meta d’un giorno d’estate, salite la scala a chioc­ciola che porta alle parti alte dell’edificio, per­cor­rete len­ta­mente il pas­sag­gio, sca­vato come un canale per lo smal­ti­mento delle acque, sulla som­mità della seconda gal­le­ria. Giunti vicino all’asse mediano del grande edi­fi­cio, all’altezza dell’angolo rien­trante della torre set­ten­trio­nale, note­rete, in mezzo ad un cor­teo di chi­mere, il sor­pren­dente rilievo d’un grande vec­chio di pie­tra.

È lui, è l’Alchimista di Notre Dame. Con il capo coperto dal cap­pello fri­gio, attri­buto dell’Adepto, posato negli­gen­te­mente sulla lunga capi­glia­tura dai grandi ric­cioli, il sag­gio, avvolto nel leg­gero camice di labo­ra­to­rio, s’appoggia con una mano alla balau­stra, men­tre con l’altra acca­rezza la pro­pria barba abbon­dante e serica. Egli non medita, osserva. L’occhio è fisso; lo sguardo pos­siede una straor­di­na­ria acu­tezza. Tutto, nell’atteggiamento del Filo­sofo, rivela una estrema emo­zione… Che splen­dida figura que­sta del vec­chio mae­stro che scruta, inter­roga, curioso ed attento, l’evoluzione della vita mine­rale e poi, infine, abba­gliato, con­tem­pla il pro­di­gio che solo la pro­pria fede gli faceva intra­ve­dere». Con que­ste parole Ful­ca­nelli, l’enigmatico autore de Il Mistero delle Cat­te­drali, intro­duce la figura dell’Alchimista sulla torre set­ten­trio­nale della grande cat­te­drale gotica, la cui figura è rico­no­sci­bile appunto dal cap­pello fri­gio «attri­buto dell’Adepto».

Anche in un mosaico bizan­tino della basi­lica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Re Magi ado­rano Gesù cal­zati dei loro cap­pelli frigi. Inte­res­sante notare che essi rivol­gono sì lo sguardo al Sal­va­tore, ma sopra di loro brilla una stella d’oro, chiaro rife­ri­mento sia alla stella cometa che li indusse a met­tersi in cam­mino, sia alla stella del Compost-stella, cioè alla Stella di San Gia­como di Com­po­stela che com­pare, insieme alla con­chi­glia, in innu­me­re­voli fac­ciate di chiese, palazzi, monu­menti, sparsi per tutta l’Europa, e che indi­ca­vano al tempo stesso sia un rifu­gio per i pel­le­grini sulla via del cele­bre San­tua­rio sia le fasi della Grande Opera, come chia­ra­mente leg­gi­bile sulle for­melle scol­pite ai lati dell’ingresso prin­ci­pale di Notre Dame, sotto il Por­tale del Giu­di­zio Uni­ver­sale e così ben descritti da Ful­ca­nelli.

Qui, sia a destra che a sini­stra del pila­stro cen­trale, sul quale è effi­giata la Filo­so­fia con in mano un libro chiuso ed un libro aperto, segno delle due cono­scenze eso­te­rica ed esso­te­rica, si svol­gono dei bas­so­ri­lievi che illu­strano sia le fasi dell’Opera sia le virtù morali che l’adepto deve svi­lup­pare per poter ope­rare la mate­ria tra­sfor­mando al con­tempo se stesso. Se osser­viamo bene que­sti bas­so­ri­lievi tro­ve­remo, ad un certo punto, la figura dell’alchimista che difende l’Atanor, la for­nace alche­mica, e che indossa il ber­retto fri­gio, lo stesso che abbiamo visto sul capo della scul­tura sul tor­rione set­ten­trio­nale.

D’altra parte la sovrap­po­si­zione tra il Cri­sto ed il Lapis, cioè la Pie­tra Filo­so­fale, è totale nell’alchimia medioe­vale, sia per evi­tare le ire dell’Inquisizione, sia come lin­guag­gio ini­zia­tico alle ope­ra­zioni di tra­smu­ta­zione della mate­ria. Nel famoso romanzo Notre Dame di Parigi di Vic­tor Hugo, uno dei pro­ta­go­ni­sti, il deli­rante arci­dia­cono della cat­te­drale Mon­si­gnor Claude Frollo, è un alchi­mi­sta che però, acce­cato dal suo amore car­nale per la bella Esme­ralda, ma non certo ricam­biato da lei, non è in grado per que­sto di leg­gere com­piu­ta­mente le for­mule della Grande Opera. Esme­ralda, infatti, rap­pre­senta la Prima Mate­ria, ed è inna­mo­rata di Febo, cioè del Sole, e non del torvo arci­dia­cono che pub­bli­ca­mente la con­danna e pri­va­ta­mente la brama.

Dice Eugène Can­se­liet nella sua pre­fa­zione al Mistero delle cat­te­drali (Medi­ter­ra­nee 1988) che Fila­tete nel suo libro Entrée ouverte au Palais fermé du Roi, si sof­ferma più di altri sulla pra­tica dell’Opera facendo cenno alla stella cometa come ana­lo­gon di quella erme­tica, con que­ste parole: «È il mira­colo del mondo, l’unione delle virtù supe­riori con quelle infe­riori; per que­sta ragione l’Onnipotente l’ha indi­cata come segno straor­di­na­rio. I saggi l’hanno visto in Oriente, ne sono rima­sti sba­lor­diti e subito dopo hanno saputo che un Re puris­simo era venuto al mondo»; infine Fila­tete così con­clude: «E l’Onnipotente imprime il suo regale sigillo a quest’Opera e, così facendo, l’adorna in modo del tutto par­ti­co­lare». Qui, dun­que, ancora una volta la sovrap­po­si­zione tra imma­gini della sacra­lità cri­stiana e fasi dell’Opera è un mezzo per velare ed al con­tempo comu­ni­care all’adepto i segreti della pra­tica. Can­se­liet ci ricorda, infine, che la stella non è un segno esclu­sivo del tra­va­glio della Grande Opera ma che la si può incon­trare anche in nume­rosi altri com­po­sti chimici.



IL PILEUS ROMANO

Que­ste ana­lo­gie tra sacro e pro­fano, tra eso­te­rico ed esso­te­rico, tra libe­ra­zione della mente e libe­ra­zione del corpo, rap­pre­sen­tano la vera forza evo­ca­tiva del ber­retto fri­gio che si porrà defi­ni­ti­va­mente, col suo uso nell’antica Roma repub­bli­cana, come una com­po­nente essen­ziale di ogni abito che voglia mostrare que­sti due aspetti. Qui, infatti, divenne sia il copri­capo che veniva donato dal padrone agli schiavi libe­rati, i liberti, sia come sim­bolo della Repub­blica. Fu quindi in que­sta epoca che il ber­retto fri­gio (chia­mato pileus in latino) assunse il suo valore sim­bo­lico di libertà.

In par­ti­co­lare que­sto signi­fi­cato viene san­cito dalle monete bat­tute dai cesa­ri­cidi all’indomani dell’uccisione di Giu­lio Cesare, che reca­vano su una delle facce un pileus, con­si­de­rato dun­que sim­bolo della libertà repub­bli­cana, inse­rito tra due pugnali, come quelli usati per il regi​ci​dio​.Il sole, al cui culto ori­gi­na­ria­mente vedico si col­le­gava l’utilizzo del cap­pello e quindi il suo signi­fi­cato, sim­bo­leg­gia dun­que già in epoca romana l’avvenire e il pro­gresso nella libertà e quindi la pro­spe­rità data dalla rina­scita deri­vante dal fuoco, ele­mento puri­fi­ca­tore e rin­no­va­tore.

Que­sti signi­fi­cati di rin­no­va­mento e di libertà si adat­ta­vano per­fet­ta­mente agli ideali ed allo spi­rito della rivo­lu­zione fran­cese, per la quale il cap­pello fri­gio divenne così natu­ral­mente uno dei sim­boli della rivo­lu­zione stessa, spesso issato come com­pen­dio dei tre valori di Libertà, Fra­ter­nità ed Egua­glianza sopra l’albero della libertà.

Un ber­retto simile, infatti, era già indos­sato dai galeotti di Mar­si­glia libe­rati nel 1792 nel corso della rivo­lu­zione. Gra­zie a que­sto fatto il sim­bolo venne immor­ta­lato nella figura della Marianne, emblema stesso della Fran­cia gia­co­bina, nel cele­bre qua­dro La Libertà che guida il popolo di Eugène Dela­croix. La sim­bo­lo­gia della donna con il ber­retto fri­gio fu poi uti­liz­zata dal movi­mento socia­li­sta come sim­bolo di rin­no­va­mento, pro­gresso e libe­ra­zione dell’umanità.

E poi­ché molte delle rivo­lu­zioni anti-coloniali del Nord e Sud Ame­rica sono state ispi­rate dalla rivo­lu­zione fran­cese, esso com­pare come sim­bolo di libertà nelle ban­diere dello Stato della West Vir­gi­nia e New Jer­sey, e come sigillo uffi­ciale dell’United Sta­tes Army (sic!) e del Senato degli Stati Uniti. In Ame­rica Latina è rap­pre­sen­tato negli stemmi di Argen­tina, Boli­via, Colom­bia, Cuba, El Sal­va­dor, Nica­ra­gua e Para­guay. Il cap­pello fri­gio è anche nello stemma dei Tie­polo, antica fami­glia vene­ziana che diede alla città impor­tanti dogi. Anche il Corno ducale, ovvero il copri­capo distin­tivo del Doge della Sere­nis­sima Repub­blica di Vene­zia, si ispi­re­rebbe al ber­retto fri­gio già indos­sato dai sol­dati bizantini.



SALVADOR DALÍ E I PUFFI

Il ber­retto fri­gio uni­sce anche arti­sti ed espres­sioni arti­sti­che in appa­renza lon­ta­nis­sime tra loro come Sal­va­dor Dalí ed i Puffi. Per quello che con­cerne il pit­tore cata­lano, ispi­rato dalla sua stessa poe­tica paranoico-critica e dalle mille pro­vo­ca­zioni che creava, il cap­pello è un sim­bolo forte di appar­te­nenza, tanto da ricom­pa­rire tra­sfi­gu­rato nei suoi qua­dri degli anni ’30 e ’40 pro­prio all’interno del metodo paranoico-critico.

Que­sta è la defi­ni­zione che lo stesso Dalí for­ni­sce del suo metodo: «Tutti, soprat­tutto in Ame­rica, vogliono sapere il metodo segreto del mio suc­cesso. Que­sto metodo esi­ste. Si chiama il metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inven­tato e lo applico con suc­cesso, ben­ché non sap­pia ancora in cosa con­si­sta. Grosso modo, si trat­te­rebbe della siste­ma­zione più rigo­rosa dei feno­meni e dei mate­riali più deli­ranti, con l’intenzione di ren­dere tan­gi­bil­mente crea­tive le mie idee più osses­si­va­mente peri­co­lose. Que­sto metodo fun­ziona sol­tanto alla con­di­zione di pos­se­dere un dolce motore d’origine divina, un nucleo vivo, una Gala. E ce n’è sol­tanto una».

Il bino­mio Gala — la com­pa­gna di tutta la vita, la donna che lo prese e mai lo lasciò andare — ed il cap­pello fri­gio, lo vediamo in alcune foto che ritrag­gono la cop­pia sul mare di Cada­qués, il mare nativo di Dalí, nei pressi del quale poi costruirà la casa museo nella quale è con­ser­vato imbal­sa­mato. E allora un arti­sta come Dalí, così visce­ral­mente attac­cato alla sua terra tanto da farne la sca­tu­ri­gine dei suoi qua­dri, non poteva certo tra­la­sciare che il metodo paranoico-critico svi­lup­passe l’idea del cap­pello fri­gio sino a tra­sfor­marlo, con quelle meta­mor­fosi così con­na­tu­rare alla sua opera pit­to­rica, in una sorta di pro­lun­ga­mento cra­nico, come fosse ora­mai fuso con la testa che lo indossa.

Una prima idea di que­sta tra­smu­ta­zione ana­to­mica com­pare in alcuni suoi per­so­naggi come il Guglielmo Tell nella cele­bre tela, L’enigma di Guglielmo Tell del 1933. Il qua­dro, che deter­minò la rot­tura con i Sur­rea­li­sti di Bre­ton a cagione del viso del pro­ta­go­ni­sta, quello di Lenin, è in realtà un segno di rivolta con­tro l’autorità in gene­rale, e verso quella paterna in par­ti­co­lare. Il padre di Dalí rifiu­tava, infatti, la sua rela­zione con Gala, donna divor­ziata, e dun­que la scelta di Sal­va­dor fu quella di «ucci­dere il padre» sbef­feg­gian­dolo, con­ce­pendo que­sta scena alta­mente sim­bo­lica in cui l’eroe sviz­zero sta per schiac­ciare sotto il piede una pic­cola figu­rina che sim­bo­leg­gia appunto Gala.

Nello stesso periodo, ma poste­riore di alcuni mesi al Guglielmo Tell, altri dipinti dichia­ra­ta­mente auto­bio­gra­fici mostrano diret­ta­mente il lungo cra­nio come pro­lun­ga­mento del ber­retto fri­gio, in par­ti­co­lare Io a dieci anni, quando ero il bam­bino caval­letta, com­plesso di castra­zione, sem­pre del 1933, oppure in Arpa invi­si­bile del 1934. Nel bam­bino caval­letta la som­mità del ber­retto fri­gio diviene tutt’uno con la tesa del pic­colo Dalí vestito da mari­na­retto, come si usava nelle scuole ele­men­tari a quell’epoca, men­tre il tavolo si erge come un mem­bro intur­gi­dito che punta verso l’infinito.

La fobia del pic­colo Sal­va­dor per le caval­lette era ben nota; di fronte a que­sti insetti poteva avere anche dei veri e pro­pri attac­chi iste­rici. Le caval­lette tor­nano pre­po­ten­te­mente in tutti i suoi qua­dri più dichia­ra­ta­mente auto­bio­gra­fici, a par­tire dal Grande Mastur­ba­tore del 1929, in cui l’autore esprime tutto il disa­gio ses­suale dei primi incon­tri con Gala. Sarà l’apparizione del ber­retto fri­gio fuso col suo capo a for­mare quello della caval­letta che espri­merà per Dalí il supe­ra­mento del com­plesso di castra­zione paterno ed una sorta di ritro­vato equi­li­brio ses­suale con la com­pa­gna di tutta la vita.



Il ber­retto fri­gio appare anche nelle forme che l’artista pro­pone per i copri­capi dise­gnati per la sti­li­sta Elsa Schiap­pa­relli sul finire degli anni ’30. Ma è nell’ultimo periodo della sua esi­stenza, dopo la morte di Gala, che Dalí torna ad indos­sare peren­ne­mente il copri­capo cata­lano. Nelle foto della vec­chiaia lo vediamo sem­pre cal­zato del suo ber­retto fri­gio bianco, come quello dei Puffi.

Anche i famosi per­so­naggi inven­tati da vignet­ti­sta belga Pierre Cul­li­ford detto Peyo in col­la­bo­ra­zione con Yvan Del­porte nel 1958 indos­sano il ber­retto fri­gio bianco, tranne il Grande Puffo, una sorta di Papa della popo­la­zione dei pic­coli esseri «alti tre mele», che lo porta rosso. Peren­ne­mente minac­ciati dall’infido Gar­ga­mella, e qui il cer­chio alche­mico si chiude, alla ricerca di sei Puffi che, bol­liti nel veleno di ser­pente, costi­tui­scono l’ingrediente fon­da­men­tale nella for­mula della pie­tra filo­so­fale.

Non a caso Gar­ga­mella è il figlio dege­nere di una schiatta di maghi, il cui capo­sti­pite si chiama Bal­das­sarre, come uno dei Magi. Chissà cosa avrebbe pen­sato l’Alchimista di Notre Dame se fosse vis­suto ai nostri giorni, anzi, chissà cosa ne pensa osser­vando il mondo da sotto il suo fri­gio berretto.


Il Manifesto – 30 maggio 2015