lunedì 1 giugno 2015

Il berretto frigio simbolo di libertà. Dal culto di Mitra a Salvador Dalì, passando per Robespierre



Il berretto frigio rappresenta forse il più famoso simbolo di libertà. Raffaele Salinari ne ricostruisce la storia e i significati più autentici,  dal culto di Mitra ai giacobini, passando anche per la pittura di Salvator Dalì.

Raffaele Salinari

Copriti con questo berretto: vale più della corona di un re


Cosa uni­sce Sal­va­dor Dalí ai Puffi? E ancora, il pit­tore cata­lano ed i pic­coli esseri azzurri all’alchimista di Notre Dame ed alla Rivo­lu­zione fran­cese? Un copri­capo che sus­sume in una sola forma molti aspetti della stessa sostanza: il ber­retto fri­gio.

Il cap­pello dei rivo­lu­zio­nari gia­co­bini ha ori­gini che ne spie­gano ampia­mente la capa­cità di espri­mere la mede­sima essenza sim­bo­lica sep­pur in con­te­sti appa­ren­te­mente diversi. Se lo tro­viamo, infatti, posato sul capo di Marianna, l’effige fem­mi­nile rap­pre­sen­tante la Repub­blica fran­cese nel cele­bre qua­dro La Libertà che guida il popolo di Eugène Dela­croix, le sue ascen­denze riman­dano a quelle di anti­chis­sime divi­nità ira­ni­che, arri­vate in Occi­dente sotto varie forme, inclusi i Re Magi come li tro­viamo effi­giati in alcune raf­fi­gu­ra­zioni pro­to­cri­stiane.

E dun­que, da dove viene que­sto copri­capo, e per­ché la sua valenza sim­bo­lica lo ha reso così espres­sivo? Per capirne la genesi dob­biamo risa­lire le tappe sto­ri­che che lo hanno visto pro­ta­go­ni­sta. In pri­mis biso­gna con­si­de­rare la sua forma pecu­liare, che nasce da quella della pelle di un capretto aperta. Ini­zial­mente, infatti, il copri­capo era otte­nuto da una pelle intera: le zampe poste­riori erano legate al mento men­tre quelle ante­riori for­ma­vano la sua carat­te­ri­stica pro­tu­be­ranza ante­riore, che poteva pen­dere sul davanti o sul die­tro o rima­nere in posi­zione ver­ti­cale. Col tempo non è stato più otte­nuto in que­sto modo, ma ha man­te­nuto la carat­te­ri­stica forma che ancora allude all’originaria preparazione.



I MISTERI ELEUSINI

I primi testi che ci par­lano del ber­retto fri­gio — detto così per­ché, come vedremo, diviene famoso come copri­capo degli anti­chi per­siani che ave­vano nel VI secolo a C. con­qui­stato la Fri­gia, l’attuale Ana­to­lia turca — sono quelli ine­renti ai Misteri eleu­sini, riti reli­giosi miste­rici che si cele­bra­vano ogni anno nel san­tua­rio di Deme­tra nell’antica città greca di Eleusi. Al cul­mine del rito, dice Ermia Ales­san­drino, nell’epopteia, la visione: «L’anima recu­pera la tota­lità della sua essenza dalla fram­men­ta­rietà e dalla mol­te­pli­cità del sen­si­bile».

Epop­teúo è il verbo che indica, con­tem­po­ra­nea­mente, la con­tem­pla­zione sovra-razionale, il suo momento, e la cer­tezza di que­sta cono­scenza: una visione cai­ro­lo­gica, nella quale si supera il fram­men­ta­rio ed il com­plesso per cogliere ciò che uni­sce e ci uni­sce a tutte le cose.

Pierre Dujols nel suo Histo­rie des Jaco­bins depuis 1789 jusqu’à ce jour (Parigi 1820), in cui trac­cia la sto­ria rivo­lu­zio­na­ria del cap­pello, scrive che, giunti al grado di Epopte nei Misteri di Eleusi, si chie­deva all’iniziato se si sen­tiva la forza, la volontà e la dedi­zione per dedi­carsi alla Grande Opera.
Allora gli si posava sopra il capo un ber­retto fri­gio di colore rosso, pro­nun­ciando que­ste parole: «Copriti con que­sto ber­retto, vale più della corona di un re».

Il ber­retto repub­bli­cano, che «vale più della corona di un re», nasce allora come copri­capo legato ai culti eso­te­rici di Deme­tra e Per­se­fone, dove le due divi­nità rap­pre­sen­tano il ciclo eterno della Natura Natu­rans in rela­zione alle sue crea­ture, quelle della Natura Natu­rata, nelle quali il prin­ci­pio vitale, l’archetipo delle vita indi­strut­ti­bile, come dice Keré­nyi di Dio­niso, si esprime.

E dun­que qui vediamo già una prima deter­mi­nante sim­bo­lica del rosso copri­capo: esso rap­pre­senta un prin­ci­pio di libe­ra­zione che viene dalla retta visione, quella sulla «trama nasco­sta» come dice Era­clito, che è «più forte di quella mani­fe­sta». L’epopteia nella quale l’anima recu­pera la tota­lità della sua essenza altro non è, allora, che la visione essen­ziale della libertà: quel tro­vare il nostro posto nel mondo affin­ché, al con­tempo, il mondo trovi posto in noi.



MITRA

Ma, prima delle divi­nità gre­che, che d’altra parte vei­co­la­vano il mede­simo signi­fi­cato sim­bo­lico, il ber­retto fu uti­liz­zato dai sacer­doti del Sole, nella regione della Fri­gia, per i riti dedi­cati al dio Mitra.

La figura di Mitra com­pare pri­ma­ria­mente nei Veda, gli anti­chi testi indiani risa­lenti al XX secolo a C., come uno degli Adi­tya, un gruppo di divi­nità solari dell’induismo discen­denti da Aditi e Kashyapa. Aditi è una Dea Madre, una delle innu­me­re­voli ipo­stasi della Grande Dea nei secoli, nel Ṛgveda, (I, 89,10), il testo più antico, si dice: «Aditi è il fir­ma­mento, Aditi è l’atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cin­que razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi è ciò che deve ancora nascere».

Kasyapa è invece una figura paterna, un dio-Padre che, all’epoca della reli­gio­sità pre-vedica, era un dio pri­mor­diale dive­nuto poi, in epoca vedica, lo sposo di Aditi. Joseph Cam­p­bell nel suo Le maschere di dio, sag­gio sulla mito­lo­gia orien­tale, ci ricorda come fosse ori­gi­na­ria­mente raf­fi­gu­rata come una mucca.

Da qui una prima rela­zione col toro mitraico che tro­ve­remo in tutte le raf­fi­gu­ra­zioni poste­riori. Mitra, divi­nità dun­que di ori­gine indo ira­nica, pri­ma­ria­mente parte di una tri­nità for­mata da madre, padre e figlio, sus­sunse poi col tempo le altre due assu­mendo una sem­pre mag­giore impor­tanza nella civiltà per­siana fino a iden­ti­fi­carsi, nella con­ce­zione rigi­da­mente mono­tei­sta dello Zoroa­stri­smo, o Maz­dei­smo appunto, con Ahura Mazda l’unico Dio, crea­tore del mondo sen­si­bile e di quello sovra­sen­si­bile.

Que­sto nome in ave­stico signi­fica «spi­rito che crea con il pen­siero» da: Ahura deri­vato dall’antico ave­stico anshu nel signi­fi­cato di «respiro vitale», col­le­gato ad ansu (spi­rito), e Mazdā deri­vato dalla radice indoeu­ro­pea mendh che indica l’«apprendere»; quindi nel signi­fi­cato di «memo­ria» e «pen­siero».

Qui si mostra una seconda deter­mi­nante sim­bo­lica legata al ber­retto fri­gio: il «retto pen­siero» che, con la retta visione epop­teica si pone come ulte­riore ele­mento della triade sim­bo­lica che verrà poi com­ple­tata dall’agire liber­ta­rio. Il culto di Mitra appare per la prima volta a Roma all’epoca di Nerone, che si fece ini­ziare ai suoi misteri; nel tempo, soste­nuto dai legio­nari romani che lo ave­vano impor­tato dall’Oriente per­ché vede­vano in lui un dio guer­riero per via della sua lotta con­tro il Toro — al tempo stesso sim­bolo astro­lo­gico delle rina­scente pri­ma­vera e emblema della forza crea­trice — si dif­fuse a tal punto che con­venne agli impe­ra­tori, capi supremi dell’esercito, dive­nire miste, cioè ini­ziati e gran sacer­doti del dio.

Con Aure­liano, nel 279 d.C., il culto fu poi fatto coin­ci­dere con quello del dio Sole, il Sol Invic­tus e, da quel momento, la fede in Mitra e la sua ado­ra­zione diven­nero un dovere che l’imperatore esi­geva in modo da legit­ti­mare il suo potere teo­cra­tico. La reli­gio­sità mitraica, miste­rica ed eso­te­rica, com­pren­deva sette gradi: corvo, ninfo, miles, leone, per­siano, helio­dro­mos e Pater, che ripro­po­ne­vano sim­bo­li­ca­mente il viag­gio dell’anima a ritroso, cioè nella sua risa­lita attra­verso le varie sfere, sino ad oltre­pas­sare quella dell’Aquila, ver­tice del mondo delle Potenze, e rag­giun­gere così il Prin­ci­pio, il Mondo dell’Origine, l’iperuranio pla­to­nico in cui vivono le Idee.



Nel mitreo di Santa Pri­sca in Roma, uno dei meglio con­ser­vati della città, vediamo come le pareti late­rali fos­sero rico­perte di pit­ture, oggi visi­bili e leg­gi­bili solo in parte, rea­liz­zate cer­ta­mente prima del 200 d.C.. Già que­sta data, in piena fio­ri­tura cri­stiana, ci dice quanto il culto di Mitra fosse pene­trato pro­fon­da­mente all’interno della cul­tura romana ed anzi, come esso sia stato l’ultimo culto pagano a scom­pa­rire con l’affermarsi del cri­stia­ne­simo. Si dice che anche Costan­tino, nono­stante il suo famoso editto, fosse un adepto del dio. Sulla parete di destra sono raf­fi­gu­rati i sette gradi di ini­zia­zione del culto, ad ognuno dei quali è abbi­nato un per­so­nag­gio ed una frase che ini­zia con la parola per­siana Nama, «onore», quindi il grado di ini­zia­zione seguito dalla for­mula «sotto la pro­te­zione», abbre­viata in vari modi, spesso sin­te­tiz­zata dalla sola parola «tutela», per chiu­dere con il rispet­tivo pia­neta che lo pro­teg­geva.

Ma ciò che mag­gior­mente ci inte­ressa si trova in dire­zione dell’altare, dove sono raf­fi­gu­rati dei per­so­naggi pro­ba­bil­mente real­mente esi­stiti, dato che di ognuno è ripor­tato il nome; essi si diri­gono verso una figura seduta, iden­ti­fi­ca­bile con il Pater, vale a dire il grado più alto rag­giun­gi­bile, al quale por­tano degli oggetti, forse delle offerte: un toro, un gallo, un cra­tere, un mon­tone ed un maiale. L’uomo seduto indossa il ber­retto fri­gio, è vestito di rosso, ed a sini­stra della figura si legge l’iscrizione Nama (Patribus)/ ab oriente / ad occi­dente (m)/ tutela Saturni. Dun­que la figura che poi, nella reli­gio­sità cri­stiana, assu­merà il ruolo di Papa, ed indos­serà anche la carat­te­ri­stica Mitra, evo­lu­zione del ber­retto fri­gio, deriva da que­sto culto.



I RE MAGI

Il ber­retto fri­gio è anche un indu­mento fon­da­men­tale nell’abito tra­di­zio­nale del regno per­siano dal VI secolo a.C. al II secolo a.C. È per que­sta sua pro­gres­siva dif­fu­sione in ambito pro­fano che, nell’arte greca del periodo elle­ni­stico, appare come indu­mento tipico degli orien­tali. E chi più orien­tale dei Magi, cioè maghi, grandi sapienti che, seguendo la stella cometa, arri­vano a Betlemme in occa­sione della nascita del Sal­va­tore?

Le cono­scenze astro­man­ti­che dei Cal­dei, cioè dei Babi­lo­nesi, erano ben note nell’antichità paleo­cri­stiana. Già Dio­doro Siculo, nella sua Biblio­theca Histo­rica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testi­mo­nianza: «I Cal­dei, che tra i Babi­lo­nesi sono i più anti­chi… si appli­cano per tutta la vita agli studi filo­so­fici e trag­gono prin­ci­pal­mente assai glo­ria dall’astrologia. E come molto si occu­pano dell’arte divi­na­to­ria, pre­di­cono le cose future, e cer­cano, o con le espia­zioni, o con i sacri­fici, o con certi incan­te­simi, di allon­ta­nare le cat­tive vicende o di farne seguire le buone. E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed inter­pre­tano i sogni ed i pro­digi, e cer­ta­mente ven­gono repu­tati pro­feti esatti». Ludolfo di Sas­so­nia (m. 1378), nella sua Vita Chri­sti, sostiene che: «I tre re pagani ven­nero chia­mati Magi non per­ché fos­sero ver­sati nelle arti magi­che, ma per la loro grande com­pe­tenza nella disci­plina dell’astrologia. Erano detti magi dai Per­siani coloro che gli Ebrei chia­ma­vano scribi, i Greci filo­sofi e i latini savi».

Una tra le più anti­che raf­fi­gu­ra­zione dei Magi, a nostra cono­scenza, si trova nella cosid­detta cap­pella Greca della cata­comba di Pri­scilla a Roma. La scena è sem­pli­cis­sima: i tre Magi, distinti nei colori dei loro vestiti, si avvi­ci­nano da sini­stra a destra ad uno scranno dove si trova seduta la Madre con il Bam­bino. I tre por­tano doni non distin­gui­bili. Die­tro la sedia si scorge un resi­duo di colore che può essere forse inter­pre­tato come ciò che è rima­sto della Stella. I tre Magi indos­sano un corto chi­tone con pan­ta­loni e por­tano il copri­capo fri­gio, cosi da essere carat­te­riz­zati come per­so­naggi orien­tali.

Stessa raf­fi­gu­ra­zione tro­viamo sia su una lapide di pie­tra oggi custo­dita a Ravenna, presso il Museo Arci­ve­sco­vile pro­ve­niente dalla Cap­pella dei SS. Qui­rino e Giu­litta (V sec.), sia sulla Coper­tura dell’Evangelario custo­dita nel Museo del Duomo di Milano. Le raf­fi­gu­ra­zioni tro­vano riscon­tro nel testo del van­gelo di Mat­teo: «Alcuni Magi giun­sero da oriente (…); la stella… li pre­ce­deva, fin­ché giunse e si fermò sopra il luogo dove si tro­vava il bam­bino (…); videro il bam­bino con Maria sua madre (…); e gli offri­rono in dono oro, incenso e mirra».

Sul coper­chio di un sar­co­fago delle Grotte Vati­cane, rin­ve­nuto sotto la Basi­lica di S. Pie­tro, sono raf­fi­gu­rati i tre Magi, alle cui spalle s’intravedono tre dro­me­dari. Il sar­co­fago è del 345 circa. E di dro­me­dari parla un passo di Isaia (60,6) nell’Antico Testa­mento, inter­pre­tato dun­que come pro­fe­zia dell’adorazione dei Magi: «Ver­ranno a te i beni dei popoli. Uno stuolo di cam­melli ti inva­derà, dro­me­dari di Madian e di Efa, tutti ver­ranno da Saba, por­tando oro e incenso e pro­cla­mando le glo­rie del Signore».

Un altro testo, tratto dal libro dei Salmi, dice: «I re di Tar­sis e delle isole por­te­ranno offerte, i re degli Arabi e di Saba offri­ranno tri­buti» (71,10). A motivo di quest’ultimo ver­setto, a par­tire dall’arte medie­vale, si comin­cia a par­lare dei Magi come di re, e così ven­gono rap­pre­sen­tati con i sim­boli este­riori della loro rega­lità: non il ber­retto fri­gio ma la corona.

Il rilievo sulla porta lignea di S. Sabina, a Roma, ese­guito intorno al 431, mostra ancora Maria e il Bam­bino su di un trono col­lo­cato alla som­mità di sei sca­lini, cioè i sei gradi più uno che por­tano al com­pi­mento dell’iniziazione mitraica. I tre Magi indos­sano i noti vestiti orien­tali, com­preso il ber­retto fri­gio. Tutta la rap­pre­sen­ta­zione della scena allude chia­ra­mente a mes­sag­geri «Parti», cioè Per­siani che por­tano i loro doni.



IL BERRETTO DELL’ADEPTO

«Se, spinti dalla curio­sità, o per dare uno scopo pia­ce­vole alla pas­seg­giata senza meta d’un giorno d’estate, salite la scala a chioc­ciola che porta alle parti alte dell’edificio, per­cor­rete len­ta­mente il pas­sag­gio, sca­vato come un canale per lo smal­ti­mento delle acque, sulla som­mità della seconda gal­le­ria. Giunti vicino all’asse mediano del grande edi­fi­cio, all’altezza dell’angolo rien­trante della torre set­ten­trio­nale, note­rete, in mezzo ad un cor­teo di chi­mere, il sor­pren­dente rilievo d’un grande vec­chio di pie­tra.

È lui, è l’Alchimista di Notre Dame. Con il capo coperto dal cap­pello fri­gio, attri­buto dell’Adepto, posato negli­gen­te­mente sulla lunga capi­glia­tura dai grandi ric­cioli, il sag­gio, avvolto nel leg­gero camice di labo­ra­to­rio, s’appoggia con una mano alla balau­stra, men­tre con l’altra acca­rezza la pro­pria barba abbon­dante e serica. Egli non medita, osserva. L’occhio è fisso; lo sguardo pos­siede una straor­di­na­ria acu­tezza. Tutto, nell’atteggiamento del Filo­sofo, rivela una estrema emo­zione… Che splen­dida figura que­sta del vec­chio mae­stro che scruta, inter­roga, curioso ed attento, l’evoluzione della vita mine­rale e poi, infine, abba­gliato, con­tem­pla il pro­di­gio che solo la pro­pria fede gli faceva intra­ve­dere». Con que­ste parole Ful­ca­nelli, l’enigmatico autore de Il Mistero delle Cat­te­drali, intro­duce la figura dell’Alchimista sulla torre set­ten­trio­nale della grande cat­te­drale gotica, la cui figura è rico­no­sci­bile appunto dal cap­pello fri­gio «attri­buto dell’Adepto».

Anche in un mosaico bizan­tino della basi­lica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Re Magi ado­rano Gesù cal­zati dei loro cap­pelli frigi. Inte­res­sante notare che essi rivol­gono sì lo sguardo al Sal­va­tore, ma sopra di loro brilla una stella d’oro, chiaro rife­ri­mento sia alla stella cometa che li indusse a met­tersi in cam­mino, sia alla stella del Compost-stella, cioè alla Stella di San Gia­como di Com­po­stela che com­pare, insieme alla con­chi­glia, in innu­me­re­voli fac­ciate di chiese, palazzi, monu­menti, sparsi per tutta l’Europa, e che indi­ca­vano al tempo stesso sia un rifu­gio per i pel­le­grini sulla via del cele­bre San­tua­rio sia le fasi della Grande Opera, come chia­ra­mente leg­gi­bile sulle for­melle scol­pite ai lati dell’ingresso prin­ci­pale di Notre Dame, sotto il Por­tale del Giu­di­zio Uni­ver­sale e così ben descritti da Ful­ca­nelli.

Qui, sia a destra che a sini­stra del pila­stro cen­trale, sul quale è effi­giata la Filo­so­fia con in mano un libro chiuso ed un libro aperto, segno delle due cono­scenze eso­te­rica ed esso­te­rica, si svol­gono dei bas­so­ri­lievi che illu­strano sia le fasi dell’Opera sia le virtù morali che l’adepto deve svi­lup­pare per poter ope­rare la mate­ria tra­sfor­mando al con­tempo se stesso. Se osser­viamo bene que­sti bas­so­ri­lievi tro­ve­remo, ad un certo punto, la figura dell’alchimista che difende l’Atanor, la for­nace alche­mica, e che indossa il ber­retto fri­gio, lo stesso che abbiamo visto sul capo della scul­tura sul tor­rione set­ten­trio­nale.

D’altra parte la sovrap­po­si­zione tra il Cri­sto ed il Lapis, cioè la Pie­tra Filo­so­fale, è totale nell’alchimia medioe­vale, sia per evi­tare le ire dell’Inquisizione, sia come lin­guag­gio ini­zia­tico alle ope­ra­zioni di tra­smu­ta­zione della mate­ria. Nel famoso romanzo Notre Dame di Parigi di Vic­tor Hugo, uno dei pro­ta­go­ni­sti, il deli­rante arci­dia­cono della cat­te­drale Mon­si­gnor Claude Frollo, è un alchi­mi­sta che però, acce­cato dal suo amore car­nale per la bella Esme­ralda, ma non certo ricam­biato da lei, non è in grado per que­sto di leg­gere com­piu­ta­mente le for­mule della Grande Opera. Esme­ralda, infatti, rap­pre­senta la Prima Mate­ria, ed è inna­mo­rata di Febo, cioè del Sole, e non del torvo arci­dia­cono che pub­bli­ca­mente la con­danna e pri­va­ta­mente la brama.

Dice Eugène Can­se­liet nella sua pre­fa­zione al Mistero delle cat­te­drali (Medi­ter­ra­nee 1988) che Fila­tete nel suo libro Entrée ouverte au Palais fermé du Roi, si sof­ferma più di altri sulla pra­tica dell’Opera facendo cenno alla stella cometa come ana­lo­gon di quella erme­tica, con que­ste parole: «È il mira­colo del mondo, l’unione delle virtù supe­riori con quelle infe­riori; per que­sta ragione l’Onnipotente l’ha indi­cata come segno straor­di­na­rio. I saggi l’hanno visto in Oriente, ne sono rima­sti sba­lor­diti e subito dopo hanno saputo che un Re puris­simo era venuto al mondo»; infine Fila­tete così con­clude: «E l’Onnipotente imprime il suo regale sigillo a quest’Opera e, così facendo, l’adorna in modo del tutto par­ti­co­lare». Qui, dun­que, ancora una volta la sovrap­po­si­zione tra imma­gini della sacra­lità cri­stiana e fasi dell’Opera è un mezzo per velare ed al con­tempo comu­ni­care all’adepto i segreti della pra­tica. Can­se­liet ci ricorda, infine, che la stella non è un segno esclu­sivo del tra­va­glio della Grande Opera ma che la si può incon­trare anche in nume­rosi altri com­po­sti chimici.



IL PILEUS ROMANO

Que­ste ana­lo­gie tra sacro e pro­fano, tra eso­te­rico ed esso­te­rico, tra libe­ra­zione della mente e libe­ra­zione del corpo, rap­pre­sen­tano la vera forza evo­ca­tiva del ber­retto fri­gio che si porrà defi­ni­ti­va­mente, col suo uso nell’antica Roma repub­bli­cana, come una com­po­nente essen­ziale di ogni abito che voglia mostrare que­sti due aspetti. Qui, infatti, divenne sia il copri­capo che veniva donato dal padrone agli schiavi libe­rati, i liberti, sia come sim­bolo della Repub­blica. Fu quindi in que­sta epoca che il ber­retto fri­gio (chia­mato pileus in latino) assunse il suo valore sim­bo­lico di libertà.

In par­ti­co­lare que­sto signi­fi­cato viene san­cito dalle monete bat­tute dai cesa­ri­cidi all’indomani dell’uccisione di Giu­lio Cesare, che reca­vano su una delle facce un pileus, con­si­de­rato dun­que sim­bolo della libertà repub­bli­cana, inse­rito tra due pugnali, come quelli usati per il regi​ci​dio​.Il sole, al cui culto ori­gi­na­ria­mente vedico si col­le­gava l’utilizzo del cap­pello e quindi il suo signi­fi­cato, sim­bo­leg­gia dun­que già in epoca romana l’avvenire e il pro­gresso nella libertà e quindi la pro­spe­rità data dalla rina­scita deri­vante dal fuoco, ele­mento puri­fi­ca­tore e rin­no­va­tore.

Que­sti signi­fi­cati di rin­no­va­mento e di libertà si adat­ta­vano per­fet­ta­mente agli ideali ed allo spi­rito della rivo­lu­zione fran­cese, per la quale il cap­pello fri­gio divenne così natu­ral­mente uno dei sim­boli della rivo­lu­zione stessa, spesso issato come com­pen­dio dei tre valori di Libertà, Fra­ter­nità ed Egua­glianza sopra l’albero della libertà.

Un ber­retto simile, infatti, era già indos­sato dai galeotti di Mar­si­glia libe­rati nel 1792 nel corso della rivo­lu­zione. Gra­zie a que­sto fatto il sim­bolo venne immor­ta­lato nella figura della Marianne, emblema stesso della Fran­cia gia­co­bina, nel cele­bre qua­dro La Libertà che guida il popolo di Eugène Dela­croix. La sim­bo­lo­gia della donna con il ber­retto fri­gio fu poi uti­liz­zata dal movi­mento socia­li­sta come sim­bolo di rin­no­va­mento, pro­gresso e libe­ra­zione dell’umanità.

E poi­ché molte delle rivo­lu­zioni anti-coloniali del Nord e Sud Ame­rica sono state ispi­rate dalla rivo­lu­zione fran­cese, esso com­pare come sim­bolo di libertà nelle ban­diere dello Stato della West Vir­gi­nia e New Jer­sey, e come sigillo uffi­ciale dell’United Sta­tes Army (sic!) e del Senato degli Stati Uniti. In Ame­rica Latina è rap­pre­sen­tato negli stemmi di Argen­tina, Boli­via, Colom­bia, Cuba, El Sal­va­dor, Nica­ra­gua e Para­guay. Il cap­pello fri­gio è anche nello stemma dei Tie­polo, antica fami­glia vene­ziana che diede alla città impor­tanti dogi. Anche il Corno ducale, ovvero il copri­capo distin­tivo del Doge della Sere­nis­sima Repub­blica di Vene­zia, si ispi­re­rebbe al ber­retto fri­gio già indos­sato dai sol­dati bizantini.



SALVADOR DALÍ E I PUFFI

Il ber­retto fri­gio uni­sce anche arti­sti ed espres­sioni arti­sti­che in appa­renza lon­ta­nis­sime tra loro come Sal­va­dor Dalí ed i Puffi. Per quello che con­cerne il pit­tore cata­lano, ispi­rato dalla sua stessa poe­tica paranoico-critica e dalle mille pro­vo­ca­zioni che creava, il cap­pello è un sim­bolo forte di appar­te­nenza, tanto da ricom­pa­rire tra­sfi­gu­rato nei suoi qua­dri degli anni ’30 e ’40 pro­prio all’interno del metodo paranoico-critico.

Que­sta è la defi­ni­zione che lo stesso Dalí for­ni­sce del suo metodo: «Tutti, soprat­tutto in Ame­rica, vogliono sapere il metodo segreto del mio suc­cesso. Que­sto metodo esi­ste. Si chiama il metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inven­tato e lo applico con suc­cesso, ben­ché non sap­pia ancora in cosa con­si­sta. Grosso modo, si trat­te­rebbe della siste­ma­zione più rigo­rosa dei feno­meni e dei mate­riali più deli­ranti, con l’intenzione di ren­dere tan­gi­bil­mente crea­tive le mie idee più osses­si­va­mente peri­co­lose. Que­sto metodo fun­ziona sol­tanto alla con­di­zione di pos­se­dere un dolce motore d’origine divina, un nucleo vivo, una Gala. E ce n’è sol­tanto una».

Il bino­mio Gala — la com­pa­gna di tutta la vita, la donna che lo prese e mai lo lasciò andare — ed il cap­pello fri­gio, lo vediamo in alcune foto che ritrag­gono la cop­pia sul mare di Cada­qués, il mare nativo di Dalí, nei pressi del quale poi costruirà la casa museo nella quale è con­ser­vato imbal­sa­mato. E allora un arti­sta come Dalí, così visce­ral­mente attac­cato alla sua terra tanto da farne la sca­tu­ri­gine dei suoi qua­dri, non poteva certo tra­la­sciare che il metodo paranoico-critico svi­lup­passe l’idea del cap­pello fri­gio sino a tra­sfor­marlo, con quelle meta­mor­fosi così con­na­tu­rare alla sua opera pit­to­rica, in una sorta di pro­lun­ga­mento cra­nico, come fosse ora­mai fuso con la testa che lo indossa.

Una prima idea di que­sta tra­smu­ta­zione ana­to­mica com­pare in alcuni suoi per­so­naggi come il Guglielmo Tell nella cele­bre tela, L’enigma di Guglielmo Tell del 1933. Il qua­dro, che deter­minò la rot­tura con i Sur­rea­li­sti di Bre­ton a cagione del viso del pro­ta­go­ni­sta, quello di Lenin, è in realtà un segno di rivolta con­tro l’autorità in gene­rale, e verso quella paterna in par­ti­co­lare. Il padre di Dalí rifiu­tava, infatti, la sua rela­zione con Gala, donna divor­ziata, e dun­que la scelta di Sal­va­dor fu quella di «ucci­dere il padre» sbef­feg­gian­dolo, con­ce­pendo que­sta scena alta­mente sim­bo­lica in cui l’eroe sviz­zero sta per schiac­ciare sotto il piede una pic­cola figu­rina che sim­bo­leg­gia appunto Gala.

Nello stesso periodo, ma poste­riore di alcuni mesi al Guglielmo Tell, altri dipinti dichia­ra­ta­mente auto­bio­gra­fici mostrano diret­ta­mente il lungo cra­nio come pro­lun­ga­mento del ber­retto fri­gio, in par­ti­co­lare Io a dieci anni, quando ero il bam­bino caval­letta, com­plesso di castra­zione, sem­pre del 1933, oppure in Arpa invi­si­bile del 1934. Nel bam­bino caval­letta la som­mità del ber­retto fri­gio diviene tutt’uno con la tesa del pic­colo Dalí vestito da mari­na­retto, come si usava nelle scuole ele­men­tari a quell’epoca, men­tre il tavolo si erge come un mem­bro intur­gi­dito che punta verso l’infinito.

La fobia del pic­colo Sal­va­dor per le caval­lette era ben nota; di fronte a que­sti insetti poteva avere anche dei veri e pro­pri attac­chi iste­rici. Le caval­lette tor­nano pre­po­ten­te­mente in tutti i suoi qua­dri più dichia­ra­ta­mente auto­bio­gra­fici, a par­tire dal Grande Mastur­ba­tore del 1929, in cui l’autore esprime tutto il disa­gio ses­suale dei primi incon­tri con Gala. Sarà l’apparizione del ber­retto fri­gio fuso col suo capo a for­mare quello della caval­letta che espri­merà per Dalí il supe­ra­mento del com­plesso di castra­zione paterno ed una sorta di ritro­vato equi­li­brio ses­suale con la com­pa­gna di tutta la vita.



Il ber­retto fri­gio appare anche nelle forme che l’artista pro­pone per i copri­capi dise­gnati per la sti­li­sta Elsa Schiap­pa­relli sul finire degli anni ’30. Ma è nell’ultimo periodo della sua esi­stenza, dopo la morte di Gala, che Dalí torna ad indos­sare peren­ne­mente il copri­capo cata­lano. Nelle foto della vec­chiaia lo vediamo sem­pre cal­zato del suo ber­retto fri­gio bianco, come quello dei Puffi.

Anche i famosi per­so­naggi inven­tati da vignet­ti­sta belga Pierre Cul­li­ford detto Peyo in col­la­bo­ra­zione con Yvan Del­porte nel 1958 indos­sano il ber­retto fri­gio bianco, tranne il Grande Puffo, una sorta di Papa della popo­la­zione dei pic­coli esseri «alti tre mele», che lo porta rosso. Peren­ne­mente minac­ciati dall’infido Gar­ga­mella, e qui il cer­chio alche­mico si chiude, alla ricerca di sei Puffi che, bol­liti nel veleno di ser­pente, costi­tui­scono l’ingrediente fon­da­men­tale nella for­mula della pie­tra filo­so­fale.

Non a caso Gar­ga­mella è il figlio dege­nere di una schiatta di maghi, il cui capo­sti­pite si chiama Bal­das­sarre, come uno dei Magi. Chissà cosa avrebbe pen­sato l’Alchimista di Notre Dame se fosse vis­suto ai nostri giorni, anzi, chissà cosa ne pensa osser­vando il mondo da sotto il suo fri­gio berretto.


Il Manifesto – 30 maggio 2015