domenica 29 novembre 2015

Sandro Saggioro, Contro venti e maree



In ricordo di Sandro Saggioro pubblichiamo una sua relazione svolta il 24 aprile 2002 al C.S.O.A. Cox 18 - Archivio Primo Moroni - Libreria Calusca City Lights di Milano. Un testo di grande interesse che testimonia del suo rigore di storico e della sua passione di militante.


Sandro Saggioro

Contro venti e maree
La Seconda Guerra mondiale e gli internazionalisti del "Terzo Fronte"


Gli argomenti di cui si parlerà in questo incontro - la Seconda Guerra mondiale, la Resistenza, l'attività e il profilo dei piccoli gruppi di sinistra che si opposero alla guerra in Italia e, più in generale, a livello europeo - sono stati uno degli oggetti centrali della ricerca storica di Arturo Peregalli. Ciò che vi dirò, fondamentalmente, si basa sugli studi e gli appunti di lavoro di questo amico e compagno, scomparso il 13 giugno 2001, a soli 53 anni.

Domani sarà il 25 aprile, l'anniversario della Liberazione, che, come sempre, verrà celebrato dall'intero arco politico-istituzionale, con il "popolo della sinistra", ancora una volta, a dire che la Resistenza è stata tradita o che non ne sono state adempiute le legittime aspettative. L'incontro di questa sera, anche simbolicamente, per la data in cui cade, vuole esprimere un diverso posizionamento.

Comincio dal punto centrale: la Seconda Guerra mondiale.

Sappiamo tutti che le scelte strategiche delle grandi potenze s'ammantano d'ideologia ogniqualvolta occorra coinvolgere le masse nel dramma della guerra. Ž quello il momento in cui le classi dirigenti agitano le bandiere della nazione, della democrazia, delle religioni o di qualsiasi altra ideologia che serva alla bisogna. Basti vedere quanto sta accadendo da almeno dieci anni a questa parte con il "nuovo ordine mondiale", le "guerre umanitarie", l'"unità di tutto il popolo contro il terrorismo", la "giustizia infinita" eccetera.

Durante la Prima Guerra mondiale la borghesia coinvolse il proletariato sulla base dell'ideologia patriottarda; nella Seconda Guerra mondiale la borghesia si aggiornò e il conflitto bellico divenne una "crociata della democrazia contro il nazifascismo". (Vedremo poi come il ruolo della Russia nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale fu molto diverso.)



Iniziamo con lo sfatare il mito che la Seconda Guerra mondiale sia stata uno scontro fra democrazia e totalitarismo (quest'ultimo rappresentato dal Terzo Reich e dall'Italia fascista): fra gli Alleati c'era l'Unione Sovietica, un Paese non certo democratico, bensì totalitario.

Non è nemmeno corretto qualificare come antifascista la Seconda Guerra mondiale, dal momento che essa fu combattuta essenzialmente contro la Germania e l'Italia, indubbiamente fasciste, ma non contro il fascismo in quanto tale: Paesi come Spagna e Portogallo, anch'essi fascisti, non vennero toccati, né durante né dopo la guerra (per esempio, la Spagna aveva inviato in Russia una sua legione a combattere a fianco dei nazisti, ma il regime di Franco non ne ebbe a patire alcuna conseguenza).

Secondo un'altra interpretazione la Seconda Guerra mondiale fu combattuta contro il razzismo: ciò è ancora più ridicolo, in quanto nell'esercito americano esisteva allora la segregazione razziale (i negri non potevano prestare servizio né in aviazione né in marina; e un ferito bianco non poteva essere trasfuso col sangue di un negro). Razzista non era il solo Hitler: Roosevelt era presidente di uno Stato in cui i bianchi erano giuridicamente superiori ai negri, per non parlare poi del Sudafrica, vera e propria perla d'antirazzismo nel campo alleato.

A partire dalla fine dell'Ottocento, dopo la Comune di Parigi del 1871, le guerre che si combattono in Europa non sono altro che scontri armati per la difesa degli interessi del capitale dei rispettivi gruppi concorrenti (questa è la posizione difesa dal marxismo rivoluzionario). La Germania degli anni Trenta, facilitata in ciò dall'iniezione di capitali americani, aveva conosciuto un massiccio incremento del proprio processo produttivo. La dinamica capitalista le imponeva la conquista di nuovi mercati e una politica espansionista, ma ciò andava a cozzare con gli interessi delle altre potenze, le quali non potevano permettere che la Germania acquisisse il predominio a livello europeo. Per questo motivo la Seconda Guerra mondiale si caratterizza come una guerra imperialista, che al suo termine vede il trionfo della potenza economicamente più forte, gli Stati Uniti d'America, trionfo che dura a tutt'oggi. (Nel 1944, quasi alla fine del conflitto, con gli accordi di Bretton Woods la supremazia degli USA emerge in piena evidenza nella ridefinizione del sistema monetario, da lì in poi basato sul dollaro.)

Esistono tuttavia alcune importanti differenze tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale.

Di fronte alla Prima Guerra mondiale il Partito Socialista Italiano riesce a restare neutrale (anche se bisognerebbe vedere più da vicino il significato di questa neutralità); abbiamo la posizione di Lenin e della sinistra di Zimmerwald (trasformare la guerra imperialista in guerra civile per l'abbattimento del capitale) e lo scoppio della Rivoluzione russa.

Un'altra differenza tra le due guerre mondiali sta nel crescente coinvolgimento delle popolazioni civili: durante la Prima esse patiscono fame e privazioni, ma non bombardamenti massivi, feroci distruzioni e stragi come durante la Seconda (in entrambi i campi).

La Russia che combatté nella Seconda Guerra mondiale era uno Stato che ormai aveva vissuto una degenerazione della rivoluzione e il ristabilimento, sotto il falso nome di comunismo, di una società capitalista (ciò che, per inciso, la Russia era sempre stata). Quindi il ruolo di Mosca fu quello di asservire il proletariato agli imperativi del capitale e dello Stato russi, nonché e soprattutto di distruggere sul piano teorico le posizioni rivoluzionarie.

    Arturo Peregalli

Oggi pomeriggio, a casa di Arturo, prima di venire qui, mi è capitato di dare un'occhiata a Ex, un libro di Felice Chilanti, uno scrittore che aveva militato nel gruppo Bandiera Rossa. Ne ho tratto un brano in cui l'Autore descrive un suo colloquio con Tigrino Sabatini, operaio: "Tigrino s'incurva a parlarmi, il suo fiato in viso: Lenin cambiò in rivoluzione la guerra, Stalin Togliatti Alicata mandano rivoluzionari a fare la guerra".

Importante è il ruolo che il Partito Comunista Italiano svolse durante il conflitto, e anche prima. Il PCI fu uno strumento di Mosca che egemonizzò il movimento operaio, non solo organizzativamente, ma anche e soprattutto teoricamente. Va tenuto presente, peraltro, che la linea politica del PCI sulla Seconda Guerra mondiale non fu sempre la stessa: nel periodo in cui restò in vigore il patto Ribbentrop-Molotov, la guerra veniva qualificata come imperialista (sebbene questo giudizio non muovesse da presupposti internazionalisti bensì dal rispetto dei mutevoli dettami imposti dalle giravolte della politica estera sovietica); poi col giugno 1941, dopo l'attacco tedesco alla Russia, la posizione del partito cambiò improvvisamente e la guerra diventò uno scontro tra totalitarismo fascista e antifascismo.

Da questa impostazione derivava la necessità di unire le forze progressiste per resistere alla barbarie, rappresentata dalla Germania nazista e dal regime di Mussolini. Se però la guerra mondiale diventava uno scontro in difesa della democrazia, tutto doveva essere finalizzato alla sconfitta del nazismo, in una lotta da combattersi a fianco degli Alleati. E infine, con l'occupazione del territorio nazionale da parte del nemico nel settembre '43, la guerra diventò anche guerra di liberazione nazionale, cioè guerra patriottica. Ovviamente, in quest'ottica, si perse completamente di vista la natura imperialista della guerra, che nello scontro militare vedeva contrapporsi le varie frazioni del capitale mondiale.

La classe operaia era stata sconfitta già prima dello scoppio del conflitto bellico; la fraternizzazione dei lavoratori al di sopra delle frontiere contro il comune nemico di classe era al di là d'ogni reale possibilità in quegli anni. Ciononostante alcuni episodi concretarono brevemente, quali scintille nel buio, le prospettive di fraternizzazione fra i proletari. Per esempio, nella Francia del '43, sorse, all'interno della Wehrmacht e in collegamento con alcuni operai locali, un raggruppamento che pubblicava un giornale, "Arbeiter und Soldat", in cui venivano ribadite le posizioni d'unità tra i proletari dei due campi in guerra, contro le rispettive borghesie e il massacro imperialista. Questi elementi rivoluzionari furono rapidamente scoperti ed eliminati dalla Gestapo.

Occorre comunque precisare che ogni tentativo di rottura della guerra da un punto di vista rivoluzionario e comunista non avrebbe avuto alcuna speranza di successo. La Comune di Varsavia lo testimonia: quando i proletari della capitale polacca si sollevano, l'Armata Rossa, che è alle porte della città e sta per conquistarla, si ferma e aspetta che gl'insorti vengano massacrati, lasciando insomma ai nazisti il lavoro sporco, prima di fare il suo ingresso. E il martirio greco nella Seconda Guerra mondiale e nella guerra civile è un'ulteriore dimostrazione della saldezza del dominio imperialista in quegli anni.

Qualificata la natura della guerra, passiamo a descrivere brevemente alcuni dei movimenti politici dissidenti che agirono in Italia nella fase finale del conflitto. Li definiamo dissidenti perché non accettarono l'impostazione prevalente della Resistenza come lotta solo contro il fascismo e per il ripristino della democrazia.

Conosciamo la lettura che della Resistenza dà lo storico che più l'ha studiata a fondo, Claudio Pavone. A suo avviso, tre sono le possibili interpretazioni della Resistenza. La prima è quella di guerra nazionale e patriottica: lo straniero è stato combattuto, vinto e scacciato, insieme con i suoi manutengoli della Repubblica Sociale Italiana; e questa è l'interpretazione ufficiale. La seconda è quella della Resistenza come guerra di classe e come momento di riscatto delle masse popolari oppresse, che riacquistano un'azione indipendente: questa è la visione che, mantenutasi viva in una parte del PCI negli anni del dopoguerra, sarà riproposta dai movimenti di sinistra sorti dopo il '68 e da chi parlerà di Resistenza tradita e si farà portavoce di una Nuova Resistenza. La terza interpretazione è quella sostenuta dai fascisti e dalla destra: la Resistenza come guerra civile. Per Pavone tutte e tre queste interpretazioni - diciamo così, queste tre anime - sono presenti all'interno della Resistenza.

Nessuna di queste interpretazioni, però, tiene conto di un dato fondamentale, e cioè che la Resistenza era inserita in una guerra mondiale, quella stessa guerra che abbiamo caratterizzato prima come imperialista.

Sul piano militare la Resistenza fu un'attività di guerriglia dietro le linee nemiche, svolta in appoggio alle armate angloamericane e con margini di autonomia sostanzialmente inesistenti. Le formazioni partigiane erano completamente integrate all'interno del quadro bellico, sia prima sia dopo il loro riconoscimento ufficiale, e nella propria azione non fuoruscirono mai dal controllo degli Alleati.

Ritornando ai gruppi dissidenti, vi fu senz'altro chi pensava di condurre una lotta per una società diversa, socialista, e chi mirava a riproporre in Italia l'esperienza russa. Ma va precisato che il referente di questa riproposizione non era la Russia dell'Ottobre: era la Russia staliniana. Il socialismo propugnato da queste formazioni dissidenti ricalcava il modello sovietico di quegli anni, in cui se i padroni erano stati eliminati tuttavia erano ben presenti e vigevano i rapporti di produzione capitalistici. La Russia durante la Seconda Guerra mondiale rappresentò un polo d'attrazione micidiale per la classe operaia, anche per quegli elementi radicali che pure esistevano nelle file della Resistenza. E ciò si riallaccia a quanto detto prima circa il ruolo dello stalinismo quale agente di distruzione della teoria del proletariato, delle posizioni per le quali la classe operaia si era battuta nella Rivoluzione russa e negli anni Venti.

Per caratterizzare il dissidentismo resistenziale, insomma, si può dire che in buona misura esso non faceva che estremizzare la linea del PCI. Non potendo fornire qui un quadro esaustivo delle varie formazioni, mi limiterò a ricordarne alcune.

A Torino esisteva il Partito Comunista Integrale, meglio noto come Stella Rossa, dal nome del suo organo di stampa. Si trattava di un movimento accesamente stalinista, i cui aderenti pensavano che Stalin avrebbe appoggiato la classe operaia italiana sulla via della rivoluzione. Alla fine della guerra, Stella Rossa, dopo l'uccisione del suo capo, Temistocle Vaccarella, confluì nel PCI. Quest'omicidio - avvenuto al parco Sempione di Milano per mano di elementi picisti - può essere legato al fatto che Vaccarella in quel periodo stava cercando di allacciare rapporti con gl'internazionalisti di "Prometeo". Il partito di Togliatti paventava una possibile unificazione tra le forze della dissidenza, e quindi, a scanso di pericoli, era meglio eliminare chi si faceva portatore di una simile istanza. L'omicidio politico era una prassi abbastanza consueta in quegli anni (vedremo poi che anche militanti del Partito Comunista Internazionalista furono uccisi dagli stalinisti).



Nel Lazio e a Roma agiva il Movimento Comunista d'Italia (organo: "Bandiera Rossa"), un gruppo molto forte e formato anch'esso in buona parte da elementi d'orientamento staliniano. (Sarebbe interessante capire come e perché Bandiera Rossa incappò pesantemente nelle retate tedesche dopo l'attentato di via Rasella. Benché le interpretazioni al riguardo debbano essere valutate con cautela, provenendo da gente di destra, sembra che ci sia stata un'azione del PCI affinché venissero catturati molti militanti e quadri di Bandiera Rossa. Comunque sia, questa organizzazione fu decapitata alle Fosse Ardeatine.)

Nel Sud Italia erano attive altre formazioni, tra cui la Frazione di Sinistra dei Socialisti e Comunisti Italiani, che si basava sull'azione condotta dalla CGL di Napoli, su posizioni classiste. Questo movimento, sul finire della guerra, si fuse con il Partito Comunista Internazionalista.

Passiamo ora a quest'ultimo. Differenziandosi in ciò nettamente dalle altre organizzazioni del dissidentismo, il Partito Comunista Internazionalista si richiamava al Partito Comunista d'Italia del '21 e alla Frazione Italiana della Sinistra Comunista, attiva nell'emigrazione all'estero sotto il fascismo. Il suo organo clandestino era "Prometeo" (1943-45). In alto a sinistra, sopra la testata del giornale era scritto: "Anno XXI, serie III", per segnare la continuità con il "Prometeo" che la Sinistra Italiana aveva pubblicato a Napoli nel '24 e con quello che la Frazione aveva fatto comparire in Francia dal '28 al '38. Inoltre, sotto la testata del primo numero del giornale, ben in grosso e sottolineato, si leggeva: "Sulla via della sinistra". Ž con il numero due, dicembre 1943, che appare la dicitura "Organo del Partito Comunista Internazionalista".

L'articolo di fondo che apre il primo numero di "Prometeo" ne esplicita fin dal titolo le posizioni: Alla guerra imperialista il proletariato oppone la ferma volontà di raggiungere i suoi obbiettivi storici. Il Partito Comunista Internazionalista nasce nel '43 - ma già alla fine del '42 alcuni militanti si erano organizzati - con l'idea che si sarebbe potuto ripetere quant'era avvenuto nel primo dopoguerra. Era ritenuta prossima una nuova ondata rivoluzionaria, simile a quella che aveva investito la Russia nel '17 e l'Europa alla fine della Grande Guerra. Agli occhi dei comunisti internazionalisti la lotta per la liberazione nazionale non aveva alcun senso da un punto di vista rivoluzionario: partecipare alla difesa della propria patria significava infatti inserirsi in uno dei fronti militari del capitalismo.

"Prometeo" interpretò la caduta del fascismo, nel luglio '43, come l'abbandono dei fascisti al loro destino da parte della classe dominante. Un volantino dell'agosto successivo affermava: "La borghesia, la monarchia, la Chiesa - creatori e sostenitori del fascismo - che buttano oggi Mussolini in pasto al popolo per evitare di essere travolti con lui, e che assumono vesti democratiche e popolaresche per poter continuare lo sfruttamento e l'oppressione delle classi lavoratrici non hanno nessun diritto di dire una parola nella crisi attuale: questo diritto spetta esclusivamente alla classe operaia, ai contadini e ai soldati, eterne vittime della piovra imperialistica".

Durante il periodo badogliano, cioè tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943, il Partito Comunista Internazionalista si batté soprattutto per la fine immediata della guerra. Con questa parola d'ordine s'inserì negli scioperi dell'estate '43 e poi in quelli del dicembre successivo. (Non è qui possibile prendere in esame una serie di altri avvenimenti importanti, come per esempio gli scioperi del marzo-aprile '43, che furono lotte economiche del proletariato, contro la mancanza di generi alimentari, i licenziamenti, le riduzioni di paga. Ž questo il terreno su cui, a Milano e a Torino, i proletari si compattarono e si mossero, non contro il fascismo, come poi è stato raccontato dalla storiografia resistenziale, bensì contro il potere del governo - fascista o democratico che fosse - che rendeva insopportabili le loro condizioni di vita.)



Il Partito Comunista Internazionalista, nel dicembre '43, lanciò un appello per la creazione di un fronte unico proletario. Vi leggo un volantino che venne diffuso in questa occasione:

"OPERAI MILANESI!
Voi avete incrociato le braccia. Soddisfatte o no le vostre richieste di oggi, voi vi muovete fatalmente in un vicolo cieco e sarete, in breve, costretti ad incrociare ancora le braccia.
Perché?
Perché i capitalisti e il governo nazi-fascista, responsabili della guerra, sono incapaci non solo di risolvere la tremenda crisi che ha polverizzato l'economia nazionale, ma persino di sfamare voi e le vostre famiglie, costringendovi ancora a fabbricare cannoni per la guerra.
OPERAI!
Un solo mezzo avete per uscire dalla crisi: fare della vostra forza di classe una cosciente forza rivoluzionaria. Solo unendovi compatti contro la guerra, contro il capitalismo, contro gli sfruttatori di ogni colore che si servono delle vostre braccia e della vostra vita per la loro lotta criminale di dominio, solo spostando la vostra azione dal terreno economico a quello politico, riuscirete a spezzare le catene che ancora vi imprigionano.
OPERAI!
Al capitalismo, colpito a morte dalla sua stessa guerra, contrapponete ora la vostra capacità e la vostra forza di nuova classe dirigente.
Contro il fascismo, che vuole la continuazione della guerra tedesca, e contro il Fronte Nazionale dei sei partiti, che vuole la continuazione della guerra democratica, voi organizzatevi sul posto di lavoro, cementate in un FRONTE UNICO PROLETARIO i vostri comuni interessi, il vostro stesso destino di classe che vi indica come già iniziata la lotta decisiva per la conquista del potere.
Il Partito Comunista Internazionalista è al vostro fianco.
Abbasso la guerra fascista!
Abbasso la guerra democratica!
Viva la rivoluzione proletaria!
[Firmato:] Il Partito Comunista Internazionalista".

Ovviamente, le posizioni del partito Comunista Internazionalista gli attirarono una condanna durissima da parte del PCI. Questa condanna non fu soltanto verbale - "agenti del fascismo e della Gestapo", così venivano definiti gl'internazionalisti sulla stampa picista - ma arrivò fino all'eliminazione fisica di suoi militanti, come Mario Acquaviva e Fausto Atti.



Visto che domani è il 25 aprile, vorrei leggervi un altro volantino del Partito Comunista Internazionalista, diffuso nelle settimane successive alla Liberazione col titolo: Proletari! Disertate i C.[omitati] di Liberazione Nazionale. Eccone il testo:

"I dirigenti cosiddetti comunisti (che noi chiamiamo giustamente voltagabbana, per il semplice fatto che hanno tradito l'idea base del partito sorto a Livorno nel 1921) si atteggiano a difensori dei partiti componenti il C.[omitato] di L.[iberazione] N.[azionale] (vedi Unità di domenica 17 giugno) i quali, essendo rappresentanti della classe borghese, sono di conseguenza i creatori del metodo fascista, il quale fu creato dalla borghesia per impedire la marcia trionfale del proletariato verso la presa del potere politico. Dire come è stato detto da un massimo esponente del centrismo [NdC: i comunisti internazionalisti in quegli anni definivano centrismo lo stalinismo]: che il fascismo è stato un errore commesso dalla borghesia, è una menzogna a duplice portata, poiché da una parte si vorrebbe ridurre ad un semplice sbaglio (e perciò riparabile in sede giuridica) le grandi sofferenze ed il sangue versato dal proletariato in un quarto di secolo, e dall'altra negare la realtà di un periodo di dominazione capitalista sulla base dei propri interessi classisti di accumulazione di ricchezze e di mantenimento dell'autorità borghese nei confronti di un proletariato combattivo, ed infine negare il ruolo di avanguardia nella provocazione alla guerra, di quella guerra voluta del capitalismo poiché tutta la società capitalista mondiale era contaminata alle sue stesse basi. Il fascismo non è uno sbaglio ma bensì l'arma controrivoluzionaria che la borghesia sa servirsi in date situazioni, in dati settori del mondo capitalista.

PROLETARI!

Oggi sul settore italiano il metodo fascista ha finito il suo ruolo di conservatore degli interessi di classe del vostro nemico, al suo posto subentra un altro metodo che ha come base la demagogia, l'imbroglio e la deformazione delle idee proletarie, anche questa volta la borghesia non commette uno sbaglio, anzi per essa è una vera cuccagna di poter servirsi di organismi ad etichetta proletaria per convogliare il proletariato al carro della ricostruzione, vale a dire al carro dello sfruttamento, di poter avere dei ministri di governo comunisti. Quello che conta per il capitalismo è una sola cosa: impedire al proletariato di trovare il filo di congiunzione con le vecchie battaglie e continuare così il grande cammino della lotta di classe verso la sua totale emancipazione economica e politica.

LAVORATORI!

Ieri con il fascismo, oggi con il C. di L.N., la borghesia continua a dominare e ad illudervi. Il centrismo dirigente ci chiama traditori? Noi rispondiamo che se si tratta di traditori della patria possono risparmiare il loro fiato, noi come tutti i proletari non abbiamo patria, abbiamo una classe che si chiama proletariato, se per traditori si vuole alludere alla nostra posizione contro la guerra e alla nostra parola d'ordine: proletari disertate e sabotate la guerra, ebbene per noi è un onore immenso di avere denunciato il massacro tra i proletari dei diversi paesi. Se infine noi siamo dei traditori perché non apparteniamo al C. di L.N. dichiariamo subito che questi insulti non ci toccano poiché si deve provare che il Partito Internazionalista ha tradito la causa della classe proletaria e la sua rivoluzione, anzi denunciando al proletariato il C. di L.N. noi non facciamo altro che continuare a smascherare il mostro capitalista disposto a trasformarsi esteriormente in ogni situazione pur di mantenere intatto il suo metodo di prelevamento del sangue e dei sudori sul lavoro degli operai e lavoratori tutti. Noi non crediamo sia un insulto quello di dire che nel C. di L.N. si rintana il capitalismo nelle sue diverse spoglie, fascismo compreso, noi non crediamo sia un insulto dichiarare che il centrismo collabora con i peggiori nemici del proletariato, che ha rinunciato ad ogni principio classista accentuando i principi antiquati della borghesia patriottarda. Il vero insulto verso il proletariato è proprio quello di chiamarsi Comunista da parte di un partito il cui contenuto politico rappresenta tutto, salvo l'idea rivoluzionaria classista.

Abbasso i disfattisti della rivoluzione proletaria!
Abbasso i collaboratori e conservatori del dominio borghese!
W la rivoluzione proletaria italiana e mondiale!
[Firmato:] Il Comitato federale di Torino e provincia del Partito Comunista Internazionalista".


È una citazione lunga, ma non ho voluto rinunciarvi perché mi pare che questo volantino sintetizzi efficacemente il contenuto di questa parte della mia relazione.



Arturo Peregalli aveva svolto un approfondito studio sulla Resistenza e sui gruppi che si erano allora posti alla sinistra del PCI (i frutti di questo lavoro sono raccolti nel volume L'altra Resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra 1943-1945, Graphos, Genova, 1991). Sua intenzione era di estendere la ricerca a livello europeo. Purtroppo la malattia e poi la morte gli hanno impedito di portare a termine l'impresa. L'unica parte finora apparsa è quella contenuta nel libro Contro venti e maree. La Seconda Guerra mondiale e gli internazionalisti del "Terzo Fronte". Capitolo quinto. Grecia: Aghis Stinas e l'Unione Comunista Internazionalista (Colibri, Paderno Dugnano, MI, 2002).

Nel progetto originario del libro, Arturo e io volevamo prendere in considerazione, per quanto riguarda la Francia, la Frazione Italiana della Sinistra Comunista (la cui azione di quegli anni non è ancora stata studiata), i Revolutionere Kommunisten Deutschlands (RKD), l'Organisation Communiste Révolutionnaire (fuoruscita dal trotskismo) e, infine, l'Union des Communistes Internationalistes (una formazione, nata nel '42-43, alla quale partecipò anche Maximilien Rubel).



Sono, tutti questi, gruppi estremamente minoritari, i cui aderenti si contano nell'ordine delle decine. Gli altri capitoli avrebbero dovuto trattare di Grandizio Munis (che a quel tempo viveva in Messico), dei comunisti dei consigli olandesi (che s'opposero anch'essi alla guerra) e del gruppo animato da Henk Snevlieet (il Marx-Lenin-Luxemburg Front). Il libro avrebbe cercato, insomma, di fornire un quadro a livello europeo di quelle che erano state le posizioni internazionaliste e di riportare alla luce l'attività degli uomini che vi si erano ispirati.

È questo, a mio avviso, un compito importante, non solo da un punto di vista storico ma anche per l'oggi, vista la situazione nella quale ci troviamo a vivere: una situazione che se non è ancora di guerra ne è la preparazione, una situazione in cui si cerca di compattare proletariato e popolo tutto a sostegno delle esigenze del capitale, nella lotta comune a un nemico fantomatico, il quale trova una definizione assai generica qual è quella di terrorismo. La settimana scorsa un piccolo aereo è andato a sbattere contro il grattacielo Pirelli a Milano. Immediatamente, il presidente del senato ha dichiarato trattarsi di atto terroristico, salvo poi dover ammettere, a malincuore, ch'era stato un incidente. Non essendo crollata alcuna Torre Gemella, non è stato stavolta possibile unire l'Italia, lavoratrice e non, contro l'immane pericolo, il nuovo demone terrorista.


Oggi, quando sotto la copertura di interventi "umanitari" e di operazioni di "giustizia infinita" le diverse frazioni del capitale mondiale cercano di assicurarsi la conquista di posizioni strategiche in vista d'un futuro conflitto, è tanto più utile ribadire qual è la posizione del comunismo rivoluzionario di fronte alla guerra e alle Sacre Unioni cui sempre i proletari vengono richiamati.


Tragica alba a Dongo. La Resistenza negata del nostro dopoguerra



Riproposto il film del 1950 che racconta la morte di Mussolini. Andreotti ne impedì l’uscita: “Danneggia l’immagine dell’Italia”

Giovanni De Luna

Tragica alba a Dongo
La Resistenza negata del nostro dopoguerra


C’è un film sugli ultimi giorni di Mussolini  - Tragica alba a Dongo - che gli italiani non hanno mai visto. Fu girato nel 1950, negli stessi luoghi e con gli stessi protagonisti delle convulse vicende che portarono alla cattura e alla fucilazione del Duce. Ci sono le immagini della disadorna camera da letto in cui Mussolini e Claretta Petacci trascorsero la loro ultima notte, nella casa dei coniugi De Maria; compaiono in persona gli stessi De Maria, con lo sguardo smarrito di fronte all’ampiezza degli eventi; ci sono i partigiani, quelli veri, che arrestarono il convoglio della Wermacht e scovarono Mussolini in fondo a un camion, intabarrato in un cappottone tedesco. E soprattutto ci sono i luoghi (Dongo, Germasino, Musso, Giulino di Mezzegra) di un’Italia povera e contadina, villaggi aggrappati ai costoni del lago di Como, lividi di pioggia, a sottolineare un epilogo inimmaginabile per chi era abituato ai bagni di folla di Piazza Venezia e ai fasti imperiali delle adunate oceaniche.

Quel film non ottenne il visto della censura, «in quanto», era scritto in una nota, del 24 gennaio 1951, di Giulio Andreotti, sottosegretario di Stato, «si ritiene che possa ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». Questa mancata autorizzazione ci restituisce con grande efficacia il clima politico e culturale dell’Italia di allora. A partire dal 1948 (e almeno fino al 1960) contro la Resistenza si avviarono infatti pesanti iniziative giudiziarie e furono mosse accuse di ogni tipo. Nelle istituzioni, e in particolare nella magistratura, si affermò un orientamento pregiudizialmente ostile che indicava nei partigiani i responsabili morali di una lotta fratricida, protagonisti di una pagina della nostra storia da rimuovere e dimenticare.



Su giornali conservatori come Il Giornale d’Italia o Il Tempo, i giudizi oscillavano tra l’ironico ridimensionamento delle figure degli antifascisti («rubagalline» e pronti solo ad andare in soccorso al vincitore) e le esplicite denigrazioni personali, con frammisti apprezzamenti sulla viltà («nascosti nei conventi vaticani») e ingiurie sulla loro mancanza «di onore». Era uno zoccolo duro di opinione su cui si plasmava fedelmente l’operato dell’intero apparato dello Stato, dei magistrati come dei prefetti, dei questori, di una intera burocrazia ministeriale, come quella dipendente dal ministero della Pubblica Istruzione che, per il decennale della Resistenza, il 25 aprile 1955, inviò una circolare solenne ai presidi di tutte le scuole italiane per invitarli a festeggiare, quel giorno, l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi.

Altro che Repubblica «fondata sulla Resistenza»! Per sopravvivere, l’antifascismo si costruì una sorta di nicchia difensiva, con una battaglia politico-culturale condotta all’insegna del «dovere di non dimenticare» che indusse molti ex-partigiani a farsi storici della propria memoria, a diventare «archivisti», gelosi custodi dei «documenti» che testimoniavano di una pagina di storia che troppo presto gli altri volevano cancellare.



Tragica alba a Dongo si inseriva in questo contesto. Il film era stato prodotto da una cooperativa di giornalisti, e la richiesta di autorizzazione per la proiezione aveva un tono dimesso («Narra obiettivamente e porta per la prima volta sullo schermo, nella nuda cronaca cinematografica dei fatti, cose, ambienti e uomini, così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate di aprile. Il tempo, i luoghi, i costumi e financo i gesti e le parole, caratterizzano il valore essenzialmente documentaristico di questa ricostruzione»), insistendo sulla sua oggettiva neutralità.

Una successiva lettera ad Andreotti, il 2 marzo 1951, era quasi una supplica: «I giornalisti in questione non hanno esitato a sacrificare in questa impresa tutte le loro economie personali, sì che un rifiuto ripetuto significherebbe, per essi, e per le loro stesse famiglie, la certa rovina, essendosi essi stessi, tra l’altro, anche indebitati pur di realizzare questo film. Vostra eccellenza, che proviene dal giornalismo, non mancherà di valutare a pieno e con competenza la portata di questo rifiuto…».



Niente da fare; Andreotti fu irremovibile. Contro la programmazione intervennero anche la famiglia Mussolini (con una diffida a «non alterare arbitrariamente nel detto film la realtà storica») e, successivamente il comune di Dongo («questa popolazione è sempre stata, per sé stessa, elemento di ordine sotto l’Alta guida di ben quattro Deputati, tre Senatori, più volte di un Ministro»).

E il film fu cancellato. Andò meglio ad Achtung! Banditi!, di Carlo Lizzani, che raccontava la lotta partigiana alle spalle di Genova, pure finanziato da una cooperativa di operai; giudicato in prima istanza «dannoso sia per i riflessi interni nel momento attuale, sia per i riflessi esterni in quanto ripropone, in tutta la sua asprezza, l’odio contro i tedeschi», in quello stesso 1951, pur tagliato e sforbiciato, il film arrivò comunque nelle sale. Pochi spettatori si accorsero che i partigiani combattevano con fucili di legno, abilmente riprodotti da artigiani locali; il ministero della Difesa aveva proibito che nelle riprese si usassero fucili veri, anche se disattivati.


La Stampa – 22 novembre 2015


sabato 28 novembre 2015

In ricordo di Sandro Saggioro



Appendiamo solo ora della scomparsa di Sandro Saggioro, medico, militante comunista e storico del movimento operaio.


Continuerà a vivere nel ricordo di chi l'ha conosciuto e nei suoi libri.

  

Inchiostro d'autore



Sabato 28 (ore 14.30 - 19.30)
e domenica 29 novembre (ore 10.00 – 19,30)

A Savona
al Palazzo del Commissario
sul Priamar

Nell'ambito di Inchiostro d'autore

Esposizione d'opere e incontri con gli artisti partecipanti, fra cui Alex Raso, vecchio amico di Vento largo.



Partigiani metropolitani


5 dicembre 2015
ore 17.30
SMS di Celle L. (Savona)

Presentazione del libro
Partigiani metropolitani


Italo Calvino, un partigiano del Ponente ligure



Mercoledì 2 dicembre 2015
alle ore 18.00

presso la SMS Libertà e Lavoro
Lavagnola (Savona)


Italo Calvino, un partigiano del Ponente ligure

Conversazione a cura di Giorgio Amico


venerdì 27 novembre 2015

mercoledì 25 novembre 2015

Tradimenti di Harold Pinter



VENERDI’ 27
SABATO 28 NOVEMBRE ORE 21.00

LIBERA COMPAGNIA TEATRO SACCO

Tradimenti
di Harold Pinter

Regia: Mariella Speranza
Assistente regia: Lara Paganin
Luci e audio: Andrea Salviati
Fotografia: Paola Gamba  
Con Sandro Battaglino, Alessio Dalmazzone, Manuela Salviati

La scrittura è sottile, penetrante, i dialoghi rapidi e asciutti, le battute pungenti: tutto è giocato sul filo dell’umorismo tipico british ben inserito nel congegno di una macchina drammaturgica perfetta.
Ci sono lei, lui, l’altro, e fin qui niente di strano.
Ma il testo di Harold Pinter, Tradimenti, va ben al di là del classico ménage fra marito, moglie e amante.
Il tradimento qui è una condizione onnipresente, esistenziale, quasi necessaria: tutti ingannano tutti e, alla fine, non è detto che sia proprio la scappatella il peccato più grave.
Si comincia dalla fine: Jerry ed Emma, a lungo amanti, si rivedono a due anni dalla fine della loro storia.
Comincia così un viaggio a ritroso nel tempo, durante il quale lo spettatore, scopre passo passo nuovi dettagli.
Un pezzo alla volta, si compone così il puzzle di quei rapporti falliti. Moglie e marito, amante o amico, non ci si può fidare di nessuno.
Nella messa in scena la scenografia è essenziale: un tavolo e qualche sedia che danno corpo ad un pub, ad una stanza d’albergo, all’appartamento preso in affitto da Jerry ed Emma, il luogo fisico del tradimento e insieme emblema di tutti i tradimenti, e dove torto e ragione sfumano fino a diventare indistinguibili.
Nel tradimento praticato da tutti e nelle bugie che pervadono la quotidianità dei protagonisti c’è più di una semplice storia di un amore tradito, c’è la ricerca di un’identità.

Una produzione della Libera Compagnia Teatro Sacco

INFO: info@teatrosacco.com


Roberto Sebastian Matta. Sculture



MOSTRA DEDICATA AL GRANDE MAESTRO CILENO
ROBERTO SEBASTIAN ANTONIO MATTA

In occasione del 104° anniversario della nascita

Sculture in ceramica e bronzi, periodo Etrusco Ludens - 1982/1988 

Auditorium San Pancrazio - Via delle Torri, 15 Tarquinia.
Inaugurazione 28 novembre ore 18:00 


In quella Tarquinia dove nel 1990 Matta installò uno studio, una scuola di ceramica e una sala di esposizioni, una mostra presenta più di duecento opere dell'artista cileno. Sculture che ricordano divinità antiche, animali, figure mitologiche, madri primordiali. Un impasto di culture e di echi mediterranei e latinoamericani nella lingua universale degli archetipi.


El Greco. L'eterno straniero in viaggio tra le culture



Alla Casa dei Carraresi di Treviso una mostra racconta la formazione dell'artista spagnolo. La modernità inquietante dei suoi corpi ha profondamente influenzato l'arte moderna.

Melania Mazzucco

El Greco. L'eterno straniero in viaggio tra le culture

Il segreto della pittura del Greco è scritto nel nome con cui è passato alla storia. Lui si firmò, sino alla fine, in caratteri greci, Dominikos Theotokopoulos. In Italia, lo chiamavano Il Greco. In Spagna, dove arrivò a trentasette anni e rimase per sempre, non lo chiamarono mai, né lui mai volle chiamarsi El Griego. Rimase sempre El Greco, in italiano. Il nome due volte straniero riassumeva l'orgoglio di una doppia appartenenza e di una doppia formazione culturale (nell'arte bizantina e poi italiana), ma anche il duplice sradicamento, l'identità plurima: era il più appropriato a un artista "stravagante".

La geografia della sua vita è una lezione di storia economica e politica, il suo successo la prova che in tempi di conflitti e sconvolgimenti la salvezza risiede nella mobilità. Il suo viaggio procede, inesorabilmente, da est verso ovest, dalla periferia verso il centro: è una migrazione senza ritorno. Da Creta, colonia veneziana minacciata dal pericolo islamico (in cui la sua famiglia era al servizio degli occupanti: il padre esattore delle imposte, il fratello maggiore daziere), il giovane maestro si trasferisce prima nella capitale dell'Impero, Venezia, e poi nella capitale della Cristianità, Roma. Ma il baricentro della storia europea si è spostato in Spagna, dove affluiscono le enormi ricchezze del Nuovo Mondo.



Così intorno al 1577 il Greco sceglie Madrid: là Filippo II sta costruendo il monastero-palazzo dell'Escurial e attira artisti da tutto il continente. Il progetto fallisce, ma El Greco approda a Toledo, capitale a sua volta: della Controriforma spagnola. Qui apre subito bottega, riceve commissioni di prestigio, mette su casa e famiglia (con la virtuosa compagna Jeronima, che non sposa, ma che gli dà il figlio ed erede, Jorge Manuel), accumula e sperpera ricchezze enormi. Resta, però, sempre uno straniero. Non apprende mai correttamente il castigliano. Nella sua biblioteca, colleziona 27 libri in greco, 67 in italiano e solo 17 in spagnolo.

La sua posizione sghemba rispetto alla società che pure lo accoglie, lo protegge e alla fine gli concede l'inaudito privilegio di non pagare le tasse per meriti artistici – riconoscendo così la pittura, fino a quel momento disprezzata come mestiere meccanico, quale arte liberale – gli consente di poter sperimentare e innovare. La furiosa libertà del suo pennello, la verticalità slungata delle figure, la potenza visionaria, il tono livido del colore non impediscono alla sua pittura di essere apprezzata dall'élite di Toledo: religiosi, mercanti, avvocati, professori, frati e poeti diventano suoi amici, suoi committenti, suoi modelli. Memorabili i ritratti che farà loro: quello del sinistro Inquisitore Guevara con gli occhiali neri è uno dei più impressionanti della storia dell'arte europea.



Siamo abituati a immaginarlo col volto malinconico e spirituale del Ritratto del Met di New York, ma in realtà non sappiamo se quello sia davvero un autoritratto. Non sappiamo nemmeno se fosse ortodosso, cattolico devoto, credente o addirittura ateo. E la modernità irresistibile di certi suoi quadri di soggetto profano (la Donna in pelliccia , il Ragazzo con la fiamma ) fa rimpiangere che gliene commissionassero così pochi. Conosciamo meglio il suo carattere.

Era litigioso, indocile. Si considerava un intellettuale e un filosofo. Le sue opinioni erano perentorie. Il più bel quadro del mondo? La Crocifissione di Tintoretto a san Rocco. Vitruvio? Sopravvalutato. Omero? Inimitabile. Ma la sua più celebre boutade l'ha pronunciata nella sua vecchiaia. Michelangelo, disse El Greco, era «un brav'uomo, ma non sapeva dipingere». Di lui dissero invece che le sue pitture erano ridicole, il colore sgradevole, il disegno sconnesso. Paradossi da cui si desume che la stroncatura è privilegio del genio.


La repubblica – 24 ottobre 2015

martedì 24 novembre 2015

In ricordo di Guido Barroero. Umberto Marzocchi, Arrigo Cervetto e l'anarchismo italiano degli anni '40



E' morto Guido Barroero, militante anarchico genovese e storico del movimento operaio. Lo ricordiamo riprendendo questo suo vecchio articolo del 2005.

Guido Barroero

Tre libri e una questione ancora aperta 


Alcune considerazioni sugli ultimi decenni di storia del movimento anarchico ad opera di un sostenitore dell’“anarchismo di classe”.

Può sembrare singolare la scelta di accomunare questi tre libri – recentemente usciti – in un discorso comune, ma a ben vedere tanto strana non è. In primo luogo, ad un livello molto generale, trattano tutti e tre (in varia misura e in modo diverso) della storia del movimento anarchico e, con qualche sovrapposizione, ma anche con precise demarcazioni temporali, di questa storia nel secondo dopoguerra, fino agli anni ’80. Periodo su cui per adesso si è scritto, ricercato e ricostruito davvero poco. Attraverso le figure di Umberto Marzocchi e Arrigo Cervetto, le vicende dei GAAP e della Federazione Anarchica Italiana e il loro dibattito esterno e interno si delinea un quadro che, a pelle di leopardo, copre oltre quarant’anni di storia dell’anarchismo italiano. Ma questo ancora non basterebbe a trarre un filo comune da una collettanea di scritti di argomento analogo, se non si aggirasse sullo sfondo di queste ricerche la questione dell’anarchismo di classe. 

Esplicitamente nel libro su Cervetto, come contesto di alcune vicende nel libro su Marzocchi, come uno spettro da esorcizzare nel libro sulla FAI. 

È questa la grande questione che attraversa la storia del movimento e della FAI nel dopoguerra: la natura storica e sociale dell’anarchismo e la contrapposizione su questo tema tra chi riteneva (e ritiene) che l’anarchismo fosse nato “... non dalle astratte riflessioni di uno studioso o di un filosofo, ma dalla lotta diretta dei lavoratori contro il capitale, dai bisogni e le necessità dei lavoratori, dalla loro aspirazione alla libertà e all’eguaglianza” (1), e chi, più ecumenicamente, lo riteneva (ritiene) la massima espressione di un eterno spirito di rivolta e di ricerca di libertà che attraversa tutte le epoche e tutti gli sfruttati, enucleato in principi dai suoi grandi teorici. 

Questa contrapposizione, in realtà, viene da lontano, almeno da quando il movimento anarchico, raggiunte dimensioni di massa, ha iniziato a riflettere sulle proprie origini, ed è patrimonio dell’anarchismo di tutti i paesi. Spesso, inoltre, questa querelle è stata mascherata, sottesa o inglobata in altre: quella tra individualisti e organizzati, tra organizzatori e antiorganizzatori, tra piattaformisti e tradizionalisti, tra anarcosindacalisti e anarchici “puri” e così via. 

Tuttavia, in Italia, nel dopoguerra, a partire dal congresso di Carrara del settembre 1945 che sancisce una transitoria e fittizia unità tra le varie anime dell’anarchismo italiano, questa contrapposizione si esprime in massima parte nel duro confronto (che si sviluppa in maniera esplicita in diverse fasi, fino all’inizio degli anni ’80) tra piattaformisti (2) (o arscinovisti che dir si voglia) e il resto del movimento. 

È vero che questa riduzione può sembrare eccessivamente semplificativa nel non tenere conto, ad esempio, del dibattito sulla questione sindacale di fine anni ’40 (3) o della scissione dei Gruppi di Iniziativa Anarchica dalla FAI del 1965, ma è anche vero che i contenuti del primo (trasversale, ieri come oggi, rispetto alle diverse concezioni dell’anarchismo) riguardavano la specificità della condizione dei lavoratori e la seconda, entro certi limiti, può essere considerata il regolamento di conti definitivo all’interno della Federazione rispetto alla vicenda gaappista.



L’esperienza dei GAAP

Proprio le figure di Marzocchi e Cervetto sono in qualche modo esemplari all’interno di questo dibattito. Il primo, figura ormai carismatica dell’anarchismo italiano, rappresenta il nucleo duro e lo spirito della Federazione, attento alle istanze di rinnovamento che provengono dagli strati giovanili della FAI, legato da un forte rapporto al giovane Cervetto, è tuttavia anche preoccupato da possibili derive filo-marxiste e si pone, se mi è concesso il termine, come fautore di un rinnovamento nella continuità delle migliori tradizioni del movimento anarchico organizzato in Italia, del suo patrimonio ideale, ma anche del suo radicamento nel mondo dei lavoratori e dell’attività sindacale. 

Il secondo, anche lui savonese, è il simbolo di una profonda spinta al rinnovamento che viene dai giovani, prevalentemente di estrazione operaia, affluiti al movimento durante la lotta partigiana, e sarà insieme ad altri giovani (come Masini, Parodi, Vinazza, ecc.) elemento propulsore nella costituzione, nel 1951, dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP). 

Tuttavia nelle vicende (4) di fine anni ’40, inizio anni ’50 – ben sintetizzate nel libro di Amico e Colombo – che porteranno all’estromissione di fatto dalla Federazione dei giovani piattaformisti (Congresso FAI di Ancona dell’8-10 dicembre 1950) e alla fondazione dei GAAP (Convegno di Pontedecimo, 24-25 febbraio 1951) sancendo una dolorosa spaccatura nel movimento anarchico, prevale lo scontro sulle forme e le dinamiche organizzative rispetto a quello, ben più rilevante, sui contenuti politici dello scontro in atto. 

Questa accentuazione (ed in particolare il forte accento sulla responsabilità collettiva) e talune pratiche poco limpide (5), dettero l’impressione di un lavoro clandestino di frazione orientato a una manovra scissionista. 

Così, almeno all’inizio, sicuramente non era, il progetto dei giovani piattaformisti era quello, esplicitamente dichiarato, di trasformare la FAI in un’organizzazione di tendenza, coesa dal punto di vista programmatico e ideologico, fortemente strutturata dal punto di vista organizzativo e decisamente classista. Gli avversari da sconfiggere che venivano accusati di “resistenzialismo” e di “nullismo” ovvero di essere portatori di una visione difensiva, testimoniale, puramente propagandista e sostanzialmente aclassista dell’anarchismo, erano le aree vicine alla rivista «Volontà» e al periodico «L’Adunata dei Refrattari». 

Il progetto dei futuri gaappisti – nella sostanza e non nelle accentuazioni organizzativiste – trovò, almeno inizialmente, un certo sostegno e simpatia da parte di molti “vecchi” militanti (Mantovani, ma anche Failla e molti altri). Lo stesso Marzocchi, legato da forti rapporti di stima a Cervetto e agli altri giovani “orientatori” (6) liguri, ebbe – come ben testimoniano Sacchetti e Amico-Colombo – forte interesse nell’iniziativa, almeno fino a che il livello della polemica non travalicò certi limiti. Preoccupato delle lacerazioni che si stavano profilando nella Federazione, infatti Marzocchi si chiamò fuori dalle esasperazioni polemiche del dibattito e non partecipò al già citato Congresso di Ancona che sancì l’estromissione dei gruppi “orientatori” e per questo fu nel seguito aspramente criticato dai “resistenzialisti”. 

Si chiude dunque nel 1951 la prima esperienza piattaformista all’interno della FAI, i GAAP seguiranno una propria strada accentuando sempre più l’aspetto dirigista sul piano organizzativo mentre, dal punto di vista teorico, gli elementi iniziali di analisi marxista scivoleranno (per una parte della leadership: Cervetto e Parodi in primis) nella rilettura e nell’accettazione e nella riformulazione di tesi leniniste. Qui, almeno nell’ambito di questo articolo, il discorso si chiude se non per un piccolo bilancio dell’esperienza e due rilievi sul libro di Amico e Colombo. 

Un bilancio minimo, a mio avviso, non può essere che questo: l’esperienza “orientatrice” non fallì per un’interna incoerenza, né per l’accentuazione dell’importanza di categorie d’analisi marxiste (7), ma piuttosto per una certa arroganza intellettuale dei giovani piattaformisti e per il loro uso spregiudicato di dinamiche organizzative non sempre trasparenti. 

Il primo rilievo riguarda invece l’assoluta condivisibilità della tesi delle convinzioni anarchiche di Cervetto e Parodi, almeno per la prima fase dell’esperienza gaappista. Articoli e scritti dei due su varie pubblicazioni e periodici anarchici (8) smentiscono nettamente la tesi di un loro leninismo originario. 

Il secondo, che può sembrare una pignoleria filologica (ma non è tale) e che è forse l’unico piccolo neo della monografia su Cervetto, è l’attribuzione a questi delle “Tesi sull’abrogazione dello Stato come apparato di classe”. Documenti, relazioni, testimonianze dirette e indirette di partecipanti al Convegno di Pontedecimo avvalorano la tesi che queste furono discusse, prodotte e redatte da una commissione ristretta a cui parteciparono, tra gli altri, Cervetto e Masini, che poi le illustrarono in sede di Convegno. Una attribuzione ad personam non pare dunque possibile (9).



Quegli anni tumultuosi

Abbandoniamo il libro su Cervetto e facciamo un salto di circa vent’anni. Inizio anni ’70: il movimento anarchico, dopo la crisi dei primi anni ’60, culminata nella scissione del 1965 dei Gruppi di Iniziativa Anarchica, è in notevole crescita. 

Ha perduto la sua unità organizzativa (alla FAI e ai GIA si affiancano, come organizzazione a carattere nazionale, i Gruppi Anarchici Federati), ma grazie all’afflusso di giovani militanti (di estrazione studentesca, ma anche operaia) maturati nelle lotte del 1968/69, si sono moltiplicati sedi, circoli, gruppi, federazioni a carattere cittadino e regionale, dentro e fuori le organizzazioni a carattere nazionale. 

A questa crescita quantitativa corrisponde una forte richiesta, da parte dei nuovi gruppi e compagni, di approfondimento dell’apparato teorico e analitico specifico del movimento anarchico e di una maggiore incidenza di questi nelle lotte sociali e operaie del periodo. 

È quasi naturale dunque che nella situazione convulsa di quegli anni (la campagna sulla strage di Stato e l’assassinio di Pinelli, la campagna per la liberazione di Valpreda e Marini), insieme al dibattito sulle forme di lotta (la candidatura elettorale di Valpreda, ma anche la violenza rivoluzionaria) si riapra con forza la discussione sulla centralità della questione operaia nel movimento. 

Ed è quasi altrettanto inevitabile che le risposte del movimento siano differenti: mentre i GIA arroccati ad una visione testimoniale dell’anarchismo, rimangono sostanzialmente impermeabili alle nuove spinte, e i GAF si avviano verso una revisione colta dell’anarchismo (10) che però problematicizza lo stesso concetto di lotta di classe, nella FAI (e nella vasta area di gruppi non federati) si apre un profondo dibattito sulla natura dell’anarchismo, le sue forme organizzative, la questione sindacale e le lotte operaie. 

Inizia un decennio (quello ’70-’80), che è anche l’argomento del libro di Cardella e Fenech, che per la FAI (e il resto del movimento) è ricco di eventi, discussioni e polemiche, in una parola tumultuoso. 

In estrema sintesi alcuni degli episodi salienti di quegli anni. Nel biennio ’72-’73 una serie di gruppi e di organizzazioni regionali (interne ed esterne alla FAI) intraprende un percorso di dibattito e di confronto che, partendo dalla necessità di recuperare le istanze classiste e la natura operaia dell’anarchismo, finisce per sfociare nella rilettura dell’arscinovismo e dell’esperienza gaappista e nell’adesione al piattaformismo.

La contrapposizione all’interno del movimento è subito aspra, alcune prese di posizione dei GAF sulla figura di Bertoli (11) la acuiscono e diventano, per certi aspetti, un casus belli. 

La costituzione di una vasta area piattaformista – fuori e dentro la FAI – genera non poche preoccupazioni all’interno di una parte del movimento anarchico (GIA, GAF e alcuni settori della FAI stessa), che la vede come un tentativo di egemonizzare il movimento stesso. I timori non sono del tutto ingiustificati in quanto l’obbiettivo esplicito dell’area piattaformista è – agendo in maniera concertata fuori e dentro la Federazione – di riportare il movimento alle sue radici operaie emarginandone le componenti giudicate aclassiste. Si tratta di un progetto politico radicale che implica un confronto (anzi uno scontro) estremamente duro, ma legittimo. 

Quello che lo guasterà e contribuirà a determinarne l’insuccesso saranno l’immaturità politica e comportamentale di alcuni gruppi di quest’area, l’uso spregiudicato di dinamiche organizzative e assembleari e, come nel caso dei GAAP, un certo settarismo intollerante che porta alla sottovalutazione degli “avversari”. 

Così dopo l’indiscutibile successo del Convegno nazionale lavoratori anarchici promosso dall’area piattaformista (Bologna, 11-15 agosto 1973) che sembra il preludio di un processo inarrestabile di recupero delle radici classiste del movimento, una serie di durissime contrapposizioni a livello locale (Milano, ma anche Genova), ai limiti dello scontro materiale, sviano e snaturano i contenuti politici del dibattito. 

È proprio da una di queste situazioni molto tese e da uno spiacevole episodio che vi si verifica (il danneggiamento dei locali del circolo di via Scaldasole ad opera di piattaformisti milanesi – settembre 1973) che trae alimento, da un lato, una maggior coesione dell’area anti-piattaformista e, dall’altro, una campagna strumentale che porterà, dapprima all’estromissione dell’area piattaformista da importanti scadenze di movimento (come il Convegno pro-Marini di Carrara – 7 ottobre 1973) e, in seguito all’uscita dei gruppi FAI del “nucleo operativo” dalla Federazione stessa (12). 

Anche qui un piccolo bilancio si impone. Questa seconda esperienza piattaformista – più partecipata numericamente della prima – rimane però largamente confinata allo stato di progetto, non produce cioè esiti organizzativi duraturi (13). 

La relativa immaturità dei suoi protagonisti produce spesso atteggiamenti arroganti e settari (contrappuntati, bisogna dire, da altrettanta arroganza e settarismo di vasti settori del movimento anarchico organizzato) che offuscano i termini reali del conflitto politico in atto. Il merito indiscutibile dell’esperienza è comunque, al di là di tutto, quello di riproporre con forza e chiarezza la questione della natura classista dell’anarchismo e di rinsaldare la sua presenza nel movimento operaio. A questo stimolo non resteranno indifferenti diversi vecchi militanti della FAI, come Umberto Marzocchi, e i frutti si vedranno qualche anno dopo.



Vecchie discussioni

Proprio la figura di Marzocchi ci consente un balzo in avanti di alcuni anni, per arrivare alla fine del decennio ’70. 

La FAI, di cui Umberto Marzocchi è uno degli esponenti più prestigiosi, ha riguadagnato le sue posizioni di preminenza nel movimento (i GIA sono sull’orlo dell’estinzione per la scomparsa dei loro vecchi militanti, i GAF si stanno trasformando esplicitamente in progetto culturale che non richiede forme specifiche organizzative), gruppi e federazioni locali, molto consistenti, sono impegnati nell’intervento politico e in un’accesa discussione interna che spazia dalla forma organizzativa specifica, alla presenza nel movimento operaio, all’intervento nel sociale, alla violenza rivoluzionaria. 

Sulle prime due di queste questioni si innesta un doppio percorso che, da un lato, prelude ad una nuova spaccatura della Federazione e, dall’altro, porta a riconsiderare le scelte sindacali fatte nell’immediato dopoguerra e mai rimesse, nella sostanza, in discussione (14). 

Due percorsi che si intrecciano perché i protagonisti sono gli stessi e perché dinamiche e tematiche organizzative specifiche – purtroppo e come spesso accade – oscurano i contenuti di un importante dibattito, che neanche può essere ridotto ad una mera scelta sindacale. 

Così, mentre tra il 1977 e il 1983 si sviluppa un articolato percorso che porterà alla rifondazione dell’Unione Sindacale Italiana, attraverso due importanti e partecipati attivi preparatori (15), raccogliendo in qualche modo il lascito politico della necessità del recupero dell’anarchismo di classe del già citato Convegno nazionale dei lavoratori anarchici di cinque anni prima, sul piano dell’organizzazione specifica (la FAI) il dibattito sul recupero della natura operaia dell’anarchismo è fuorviato (anche per responsabilità dei promotori, una “nuova generazione” piattaformista) sul terreno delle scelte e delle modalità organizzative. 

Così tutto l’armamentario di vecchie discussioni è rimesso in campo: organizzazione di sintesi vs. organizzazione di tendenza, organizzazione strutturata vs. organizzazione federata, responsabilità collettiva vs. responsabilità individuale. Si continua a confondere il contenitore con il contenuto e la discussione, come al solito, ne viene falsata trasformandosi in quello che appare uno scontro di potere all’interno della Federazione. Scontro che si conclude al Congresso straordinario della FAI di Carrara (gennaio 1979) che sancisce l’estromissione di alcuni gruppi piattaformisti. 

Termino qui questa sommaria e lacunosa ricostruzione di circa trent’anni di dibattito e scontro politico all’interno della FAI e del movimento anarchico, che altro non mi serviva se non a tratteggiarne la complessità e l’importanza. In questo senso il piattaformismo (o arscinovismo) altro non è stato che una forma specifica, contestualizzabile e, per certi versi, criticabile della rivendicazione della natura operaia e proletaria del movimento anarchico e della necessità di riportare la sua prassi e la sua strategia su questa coordinata politica.
Gli scontri e le lacerazioni che questa rivendicazione hanno portato all’interno della Federazione (e del movimento) sono stati aspri e dolorosi, tuttavia “necessari” in quanto hanno portato a confronto tra loro (e con la realtà sociale e politica) visioni dell’anarchismo contrastanti, se non inconciliabili.
Quello che stupisce – per ritornare ai libri in oggetto – è che un testo documentato, per certi versi interessante (e che deve essere costato parecchio impegno agli autori) come quello di Cardella e Fenech non colga né la complessità di questa dinamica, né la sua importanza e si abbandoni a giudizi superficiali e banalizzanti (16), vagamente fastidiosi per chi, come chi scrive, è stato testimone e parte attiva di quell’esperienza. Introdurre surrettiziamente elementi di polemica (e non di dibattito) per di più datata e acontestualizzata, in una ricerca storiografica non è un buon servizio alla storia del nostro movimento. Peccato, un’occasione mancata.


Concludo con un ultimo apprezzamento per il libro di Giorgio Sacchetti. Umberto Marzocchi è stato, nei suoi oltre sessant’anni di militanza, figura di estremo rilievo dell’anarchismo italiano e non solo. Nel secondo dopoguerra ha avuto un ruolo centrale nella FAI, vivendone, per quarant’anni, crescita, successi, crisi, riprese e contraddizioni, con lo sguardo sempre attento al nuovo e con la preoccupazione di salvare il meglio delle tradizioni del movimento. 

Il libro di Sacchetti rende tutto ciò in maniera esaustiva, documentata e convincente. Credo che non si potesse fare di più. Chi intendesse dedicarsi ad una ricostruzione seria e rigorosa delle vicende del nostro movimento, a partire dal secondo dopoguerra, non potrà prescindere né dalla figura di Umberto Marzocchi, né da questo libro.

Note
  1. Georges Fontenis, Changer le monde, Toulouse 2000. Riportato in Amico-Colombo, Un comunista senza rivoluzione.
  2. Dal nome della Piattaforma di Arscinov, il programma-manifesto elaborato nel 1926 dal gruppo di anarchici russi in esilio Delo Truda e che, ricalcando l’esperienza machnovista, propugnava l’esigenza di un’organizzazione anarchica fortemente strutturata e classista.
  3. Tra i fautori della ricostituzione dell’USI e coloro che privilegiavano l’unità d’azione con i lavoratori degli altri partiti della sinistra nella CGIL.
  4. Poco è stato scritto, recentemente, specificamente sull’esperienza gappista. Posso segnalare solo la mia ricerca: Barroero Guido, Per la storia del movimento anarchico nel dopoguerra. Un’esperienza dell’anarchismo di classe: I Gruppi Anarchici di Azione Proletaria – in «Comunismo Libertario», nn.32, 33, 34, 35 del 1998 e nn.39, 41, 43 del 1999, raccolti in opuscolo, nel 2004, dalla redazione della rivista, senza la necessaria opera di revisione.
  5. Come la riproposizione da parte dei futuri gaappisti della mozione, già presentata al Convegno di costituzione della Unione Anarchica Laziale, a Frascati nel febbraio del 1950, al Congresso della Federazione Anarchica Ligure, svoltosi a Pontedecimo il 19/3/1950, senza citare il precedente.
  6. “Per un movimento orientato e federato”, così era definito il progetto.
  7. L’accettazione di queste nel movimento anarchico, a ben vedere, non ha mai provocato grosso scandalo, a partire da Bakunin e Cafiero.
  8. Cito – come fanno Amico e Colombo – e senza pretesa di completezza: «Umanità Nova», «Volontà», «Inquietudine», «il Libertario».
  9. Stupisce che nel Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, all’interno della scheda su Pier Carlo Masini, le “Tesi”, pur riconosciute prodotto di discussione collettiva, vengano poi considerate uno scritto attribuibile allo stesso. È evidente che chiunque sia stato l’estensore materiale di quel documento non può averne attribuita la paternità politica. Altrimenti, seguendo questo curioso criterio, dovremmo considerare scritti di singoli (o di poche persone) tutte le relazioni, le mozioni, le tesi e altri documenti a firma collettiva, adottati o approvati in vari Convegni e Congressi.
  10. Cfr. tra l’altro le tesi sul “feudalesimo industriale”, ispirate da una rilettura di Bruno Rizzi.
  11. Autore di un attentato davanti alla questura di Milano nel maggio del 1973.
  12. A questi gruppi fu negata la partecipazione al Congresso FAI di Carrara – 22-25 dicembre 1973.
  13. Immagino che questa affermazione non sarà condivisa dall’attuale area comunista-libertaria che si rifà a quell’esperienza, ma è innegabile che le aspettative che allora si davano trascendono di gran lunga gli esiti di oggi.
  14. Parliamo, evidentemente, della scelta pro-CGIL che non viene intaccata dalla ricostituzione dell’USI, su posizioni minoritarie, negli anni ’50 e che si estinguerà all’inizio degli anni ’70.
  15. Mi riferisco al I attivo nazionale di base dei lavoratori per l’USI (Roma, 22-23 aprile 1978) e al secondo (Genova, 25-26 novembre 1978). Esulando, tuttavia, la storia recente dell’Unione Sindacale dagli scopi del presente scritto, rimando all’articolo di Giorgio Sacchetti: L’Unione Sindacale Italiana (USI) nel movimento operaio italiano, in «Autogestione» n.10, dicembre 1984, essendo il testo di Gianfranco Careri (Il sindacalismo autogestionario, Ed. USI, Roma 1991) che affronta lo stesso periodo, un po’ troppo apologetico e venato da eccessi romanzeschi.
  16. Particolarmente deplorevole è la ripresa acritica di giudizi e di prese di posizione che forse allora (ma non certo oggi) potevano essere comprensibili solo all’interno di una polemica accesissima. Cito solamente: “il sedicente [sic] Convegno nazionale lavoratori anarchici” e “[elementi e gruppi piattaformisti –nda]... procedevano all’assalto [sic] e alla devastazione della sede del Circolo Pinelli”.

Giorgio Sacchetti, Senza frontiere. Pensiero e azione dell’anarchico Umberto Marzocchi (1900-1986), Edizioni ZIC, Milano 2005, pag. 543, euro 35,00.
Giorgio Amico – Yurii Colombo, Un comunista senza rivoluzione. Arrigo Cervetto dall’anarchismo a Lotta Comunista: appunti per una biografia politica, Massari Editore, Bolsena 2005, pag. 167, euro 10,00.
Antonio Cardella – Ludovico Fenech, Anni senza tregua. Per una storia della Federazione Anarchica Italiana dal 1970 al 1980, Edizioni ZIC, Milano 2005, pag. 350, euro 25,00.

rivista anarchica
anno 35 n. 311 - ottobre 2005