sabato 24 dicembre 2016

Cristo, Dioniso e il mistero della vita

    Cristo sul melograno, l'albero della vita.Abbazia di Sesto al Reghena

Il lungo percorso che conduce al cristianesimo e alla natività dalla potenza simbolica dei riti dionisiaci.

Massimo K. Salinari

L'arcaica storia di una rivoluzione

La teologia cristiana è in buona parte esoterismo orfico-dionisiaco. Questa icastica affermazione, sostenuta, tra gli altri, anche da E. Zolla, si sostanzia appieno se ripercorriamo le tappe che, prendendo le mosse dall’originario percorso iniziatico, arrivano sino alla nascita e soprattutto alla resurrezione del Cristo.

Il punto di scaturiggine, diremmo la tonalità di fondo che accomuna i due culti, risiede indubbiamente nella carica eversiva del cristianesimo degli inizi rispetto a ciò che lo aveva preceduto. Così come Dioniso sconvolge, con il suo arrivo in città, la sua epidemia, le regole del vivere civile, introducendo una modalità di relazioni tra uomo e natura totalmente sovvertita, così i primi cristiani si staccano dalla Legge giudaica sovvertendone l’ordine gerarchico millenario. Sia nel dionisismo sia nel cristianesimo delle origini tutte le distinzioni di sesso, di classe, finanche di età e di appartenenza ai mondi umani e divini, biologici, vengono per così dire livellati e portati ad un piano di parità nel quale tutto e tutti possono accedere alle massime forme della liberazione dai vincoli della vita sensibile attraverso l’ebbrezza estatica. Per i seguaci di Dioniso non esiste, infatti, nei momenti topici, quando il dio chiama a raccolta ed al tumulto bacchico i suoi fedeli, nessun distinguo tra la Zoè ed ognuna delle sue Bìos, che così la scompongono e la ricompongono nell’eccitazione menadica.

    Dioniso sulla croce

Una nuova verità

Allo stesso modo i cristiani introducono non solo l’indistinzione tra mondi creati – tutto viene da Dio, tutto e tutti partecipano allo stesso modo della sua Manifestazione, e per questo, devono rendergliene merito – ma anche una nuova verità: che sono i derelitti, i poveri, gli emarginati, quelli più vicini al cuore del Signore, come nel corteo di Dioniso; una rivoluzione epistemologica radicale sia rispetto alle consuetudini ed alle gerarchie ebraiche vigenti, sottolineata dal Cristo stesso attraverso la predicazione ed il suo gesto estremo – il sacrificio di sé – sia alle leggi della polis.

La sensibilità cristiana, poi, era naturalmente aperta all’orfismo di matrice dionisiaca poiché anch’essa vedeva il corpo come una prigione per l’anima. Una prigione da santificare, allora, perché creata dal dio stesso, da superare attraverso l’estaticità della visone divina e della ripetizione del sacrificio di fondazione del nuovo culto: l’eucarestia.

   
I grappoli del tralcio

E qui la coincidenza, meglio sarebbe a dire la filiazione, emerge in tutta la sua potenza simbolica. Gesù proclamò di essere la «vera vite, cui aveva accudito suo Padre» (Giovanni XV, 1-2) e che gli apostoli dovevano attaccarsi a lui «come i grappoli al tralcio». Dioniso è lui stesso la vite, da cui non solo nasce il vino, ma che viene potata per prenderne i frutti, così morendo e rinascendo in essi. E per questo vediamo come il cuore pulsante di entrambe le ritualità sia certamente la resurrezione; San Paolo su questo punto è categorico: alla domanda «cosa porta a credere»? La sua risposta è «la resurrezione della carne».

La vicenda dionisiaca è nota: bambino egli viene ucciso e smembrato dai Titani; cotto sulle braci ed anche bollito, viene poi ingerito dagli stessi che morranno folgorati da Zeus per il loro peccato. Nella teologia orfica, infine, Dioniso ricomposto salirà all’Olimpo e siederà alla destra di Zeus, suo Padre.

    Giuda. Notre Dame des Fontaines

Il tradimento

Il mito dionisiaco getta le basi per quello cristiano. In primis Dioniso, distinguendosi chiaramente da tutti gli altri immortali, è invece un dio che muore; quando poi viene ucciso con l’inganno, dunque con un tradimento analogo a quello di Giuda, si stava rimirando in uno specchietto mentre giocava con un altro semplice giocattolo: una trottola. Qui, come ci ricorda Giorgio Colli, il gesto dionisiaco del rispecchiamento altro non è che un atto cosmogonico: Dioniso sta creando il Mondo attraverso la sua stessa Immagine. Nello specchio egli genera da sé la molteplicità che prima era in lui indivisa. La trottola, parimenti, è il simbolo della dinamica vitale, che sempre deve essere ristabilita affinché non cessi il suo movimento. Dioniso è dunque, al pari di Gesù figlio di Dio, il Logos, l’artefice del Mondo fenomenico. E ad esso viene sacrificato affinché il Mondo continui ad esistere.

Nella versione cristiana, tutta ancorata al tema centrale della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi, il sacrifico del Nazareno indica questa possibilità in corpore vili. È lui stesso a morire e resuscitare, non solo per significare la sua vicinanza con l’umanità sofferente ma anche, e forse soprattutto, per trasmettere questo messaggio fondamentale, vero mito fondativo del cristianesimo.



Cenere

Ed è proprio questa resurrezione dei corpi che troviamo nel prosieguo del mito dionisiaco. Anche Dioniso viene “resuscitato” mercé la ricomposizione dei suoi pezzi smembrati. Interessante notare come, nella teologia orfica, dalle ceneri dei Titani che lo avevano mangiato verrà forgiata l’umanità, che dunque diviene la depositaria del corpo del dio, così come l’eucarestia provvederà a suggerire ai cristiani che spezzeranno il pane e lo ingeriranno come fosse il corpo del Salvatore, mentre berranno il suo sangue attraverso la transustanziazione del vino consacrato.

Ma esiste un significato ancora più profondo che unifica le due ritualità, ed è non solo il senso genericamente salvifico, ma anche quello più strettamente concreto: così come il contatto del vino e del pane diviene non solo fonte di salvezza e ricordo, ma anche di Grazia terrena, cioè di una buona vita materiale, così nel mito dionisiaco il dio elargirà alle sorelle Spermo ed Eno la capacità di tramutare tutto in pane e vino, ed alla terza sorella, Elaide, ciò che toccava in olio; così ci narra Ovidio nelle Metamorfosi (XIII, 650).

E dunque il significato salvifico trascendentale si rispecchia sia nel mito orfico sia nel racconto evangelico, ma anche il suo risvolto pratico, legato alla vita contadina ed ai suoi sempre possibili rovesci, trova posto in entrambi. D’altra parte se il messaggio cristiano fosse stato solo di Salvezza nell’aldilà senza un plus di liberazione e giustizia sociale ma anche di buona sorte nella vita di tutti i giorni, non avrebbe avuto tanta fortuna.


Aprite quella porta

Anche il potere del vino è centrale in entrambi i culti. Così come i seguaci di Dioniso si inebriano per cambiare la loro percezione del mondo, così anche i primi cristiani lo fanno per avere un accesso immediato alla visione del divino. Da questo punto di vista, da sempre, prima il miele fermentato nella pelle del caprone, e la sua danza circolare – la tragodia, da cui nasce la Tragedia – ed infine il vino, così come la canapa e l’oppio in Oriente, sono stati utili strumenti per aprire le «porte della percezione». Si può dire che non esista una religiosità in cui non entri qualche droga o qualche stato alterato di coscienza costruito ad arte.

Pensiamo solo, di là dal vino, al “combinato disposto” delle giaculatorie e della luce che emana dalle vetrate nelle chiese. Sono artifizi antichi per accedere ad una visione agognata. La presenza in eccesso di anidride carbonica nel sangue, dovuta ad esempio alle giaculatorie di recitazione dei nomi di Maria, e dunque a un tipo particolare di respirazione che deprime l’ossigeno nel cervello, combinata alla sensazione visiva allucinatoria dei colori fondamentali che filtrano la luce nelle chiese, in particolare quelle medioevali, porta il fedele ad uno stato di eccitazione ed al tempo stesso di fragilità sensoriale che ben dispone al meraviglioso, a maggior ragione se si è alla ricerca di una immagine numinosa. Nei primordi cristiani i naasseni samaritani mischiavano mandragora al pane eucaristico.



Gli Inferi

E dunque la resurrezione è il punto centrale sia del dionisismo sia del cristianesimo. Entrambi, Dioniso e Cristo, risorsero dopo la loro permanenza nel mondo infero. Dopo la morte Gesù scende nello Sheol, come Dioniso nell’Ade.

Altra coincidenza simbolica è che quando Gesù scende nell’inferno questo non è abitato in modo permanente, perché le anime che sono nello Sheol aspettano ancora il giudizio di Dio. Il termine Sheol, nella Bibbia italiana, è stato tradotto con «soggiorno dei morti».

Giona riporta quest’esperienza: “Io ho gridato al Signore, dal fondo della mia angoscia, ed egli mi ha risposto; dalla profondità del soggiorno dei morti ho gridato e tu hai udito la mia voce” (Giona 2:2).

Al momento della sua morte Gesù è sceso nel medesimo luogo di Giona, come dice lui stesso: “Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti” (Matteo 12:40).

Ora, è interessante notare che, solo qualche secolo dopo, nella mutata situazione dottrinale del cristianesimo, l’inferno diverrà una dimora stabile e si riempirà di anime dannate. La storia di luoghi come il Paradiso, il Purgatorio, il più recente di tutti, e dell’Inferno stesso, richiederebbero uno spazio che qui non abbiamo. Ci limitiamo a riportare l’opinione di Jacques Le Goff che sostiene come «il Purgatorio di Dante rappresenta la conclusione sublime della lenta genesi avvenuta nel corso del Medioevo; esso ha preso forma nella seconda metà del XII secolo. In precedenza, pensando all’aldilà, gli uomini immaginavano solo due luoghi antagonisti, l’Inferno e il Paradiso. A poco a poco, ha poi iniziato a delinearsi una realtà intermedia, la cui funzione era quella di consentire la purificazione delle anime prima dell’ingresso nel Paradiso», con la conseguente vendita delle indulgenze, completiamo noi.

Anche Dioniso risorge dall’Ade quando, nelle feste di primavera, esce dalla palude insieme alle anime dei morti e si festeggia il momento di passaggio delle giovani donne alla maturità attraverso il rito dell’Altalena, ma anche l’accoppiamento della Basilinna al dio attraverso le Nozze Mistiche che risvegliano il principio vitale e lo fanno scorrere nuovamente nel Mondo.

In questo punto, in specifico, avviene una convergenza cha vale la pena analizzare con attenzione. Ed infatti non si tratta solo di un’analogia superficiale, aneddotica, tra il Dioniso che risorge dal mondo infero, cioè sotterraneo, e porla in parallelo con il Cristo che risorge dopo la sua visita al «soggiorno dei morti». Da chiarire, invece, sono le modalità stesse di questa resurrezione, che illuminano di una luce dionisiaca abbagliante il cristianesimo, restituendogli, a nostro avviso, quella carica originaria di religiosità legata al Principio Femminile, sempre presente in tutte le spiritualità di ogni latitudine e tempo e mai completamente azzerata dalla prevalenza patriarcale.



La Grande Dea

L’origine è legata alla Grande Dea minoica, la Potnia mediterranea che tutto creava e che in tutto si rispecchiava: Gaia, Questa divinità unica e increata era espressione della Zoè creatrice, femminile sia per forza generativa sia per vocazione di accudimento della vita, ma anche per la sua capacità di richiamare infine nel suo grembo le singole manifestazioni; la loro morte, dunque, era necessaria affinché altre potessero trovare posto nell’eterno ciclo dell’esistenza. Con l’avvento delle popolazioni guerriere legate alla pastorizia e non solo all’agricoltura, l’invasione dei Dori, la Grande Dea viene progressivamente sostituita da divinità maschili e lontane dal Mondo, immortali; la sua unicità dispersa in tante divinità diverse, ognuna delle quali altro non è che un suo aspetto specifico, ma tutte governate da un patriarca, Zeus che ha mantenuto per sé il potere generativo della folgore, cioè del fuoco che crea e distrugge, ma anche del parto: Atena e Dioniso stesso.

In questo passaggio da una divinità femminile unica ad un panteon plurimo ed a guida maschile, la figura di Dioniso si presenta come il dio di passaggio tra il maschile ed il femminile, in tutti i sensi. La caratteristica transgender, oggi si direbbe queer, di Dioniso, è certificata da molti autori, basti pensare a W. Otto ed allo stesso Bachofen. Il «dio delle donne», dunque, è tale poiché al tempo stesso paredro, figlio ed amante della Grande Dea. Ed è in questa veste che egli riceve dalla Basilinna in occasione delle Grandi Dionisiache di primavera, durante l’accoppiamento sacro, il Principio Vitale che poi riverbererà su tutta la natura, a partire dal dono del vino. E dunque questo accoppiamento sacro, hieros gamos, che avveniva in un luogo protetto e officiato da sole sacerdotesse, caso unico nella Grecia patriarcale, va interpretato nel senso giusto: cioè non come passaggio da Dioniso alla Basilinna, la moglie dell’Arconte Basileus, della forza vitale, ma esattamente al contrario, come flusso cioè che dalla donna sacra passa e vivifica il maschile, “portando ad effetto” le sue potenzialità germinative. Allora, in conclusione, è la Basilinna che “libera la fecondità“ di Dioniso e in questo modo lo fa rinascere. In verità ciò accade durante ogni atto sessuale, o almeno una consapevolezza orientata così dovrebbe intenderlo.

Ora, tutto questo trova un corrispettivo diretto nel ruolo che Maria ha nella resurrezione del Figlio. Se, infatti, osserviamo bene alcune cerimonie cristiane del Sud in occasione della Pasqua, ad esempio la processione dei Misteri di Taranto, vediamo come la ricerca del Cristo Morto da parte della Madonna altro non è che la necessaria ricerca da parte della Grande Dea, cioè Maria Vergine e Madre di Dio, del corpo del figlio allo scopo di farlo rinascere. Sarà, infatti, l’amore, sintesi simbolica di tutti gli amori, terrestri ed ultraterreni, della Madre per suo Figlio, cioè della Grande Dea per tutte le sue creature, a ridargli la forza vitale. È tanto forte questo senso di trasmissione spirituale che alla fine della sua vita Maria, donna mortale ma sempre Madre di Dio, non muore: si addormenta in un sonno eterno, sognando il Mondo.



San Paolo mio

Altri particolari, di non minore importanza, rimandano ad alcuni dei protagonisti della prima Chiesa, in particolare a San Paolo, il fondatore stesso della cristianità come Istituzione. Basta un episodio solo a farci capire quanto il dionisismo, e la sua carica simbolica, dovesse necessariamente trapassare nel neonato cristianesimo.

Nella sua venuta a Roma, S Paolo fa naufragio a Malta e li, in una grotta, viene attaccato da serpenti velenosi che egli però rende innocui. Ecco allora che il Santo, fondatore della teologia politica cristiana, diviene anche il patrono dei Tarantolati in terra di Puglia, l’ultima propaggine dionisiaca nel mondo contemporaneo, come ben dirà Ernesto De Martino.

E con «Santo Paolo mio delle tarante», si chiude il cerchio che rimanda il cristianesimo e la sua fonte simbolica: quel vasto ed inesausto fenomeno che è il dionisismo.


Il Manifesto - 24 dicembre 2016

venerdì 23 dicembre 2016

Il coraggio di Cion



Silvio Bonfante, nato nel 1921, ha legato la sua vita all’esperienza partigiana, vissuta interamente nei territori del Ponente ligure. Nome di battaglia: Cion (Chiodo). Un libro racconta la sua storia.

Marino Magliani

Il coraggio di Cion. Intervista a Daniele La Corte


Nel 2016 è uscito un libro necessario, Il coraggio di Cion (Fusta editore). Si tratta della vera storia, come sta in copertina, del partigiano Silvio Bonfante. In altri luoghi apparirà una mia nota, ma le domande e le considerazioni sono ancora molte. Daniele, mi piacerebbe che ci parlassi, dopo averci raccontato qualcosa sul giovane uomo e comandante partigiano morto a soli ventitre anni, dell'impianto del libro, molto ben strutturato.

La vita di Silvio Bonfante è costellata di momenti tragici alternati a parentesi felici. E’ una storia vera che ho cercato di rendere ancora più reale mettendo in luce sia l’aspetto dell’uomo, con le sue debolezze, le sue paure, i suoi rimorsi, i suoi amori, che quella del guerrigliero, del giovane che trascorsi gli anni dell’adolescenza in seminario si ritrova prima arruolato nella regia Marina, poi comandante di una banda partigiana, per poi diventare vice comandante di una divisione. Ho costruito questo mio lavoro senza mai perdere d’occhio la contemporaneità, l’oggi ancora costellato di guerre, di bombe, di sangue e dolore. “Cion”, che in dialetto ligure significa chiodo, è il nome di battaglia di Silvio Bonfante, ma anche quel chiodo, quei chiodi che hanno crocifisso Cristo, resistente di duemila anni fa. Così ho messo in relazione la lotta di Liberazione dall’invasore nazista con la tragedia di Aleppo, con la resistenza di figlie, madri e padri siriani che combattono e fuggono in cerca di pace e libertà. E ancora più forte è l’immagine creata dal grande pittore contemporaneo Giorgio Oikonomoy, resistente greco, nata dalla lettura delle bozze del mio libro. L’immagine si può ammirare nel retro di copertina. Un dipinto che trasuda di dolore e di sangue. E nella contemporaneità ho cercato di far rivivere le gesta di un grande patriota italiano, quel “Cion” insignito della medaglia d’oro al valore militare per aver immolato la sua govane vita per salvare i suoi uomini.

Ed ecco, sulla struttura, ma anche semplicemente sulla suddivisione: dopo lo scritto di presentazione e dei testimoni, il primo capitolo si intitola Volante e Volantina.

Due reparti per azioni immediate. Il primo incarico importante per Silvio Bonfante fu la responsabilità della “Volante”, squadra di uomini scelti che dovevano agire con la massima rapidità e destrezza per colpire il nemico a sorpresa. E gli insegnamenti di un generale in pensione, un monarchico convinto e antifascista da cui il giovane Silvio apprende i primi rudimenti della guerriglia. Poi la “Volantina”, squadra con meno uomini ma ugualmente efficace nel colpire a sopresa. La “Volantina” era stata affidata al braccio destro di “Cion”, l’inseparabile Massimo Gismondi che per il suo essere mancino era stato soprannominato, parola dialettale ligure, “Mancen”.

Poi, senza peraltro sorvolare pagine e capitoli come: Sorella e fratello, e Le belve, Vento forte, mi piacerebbe ci raccontassi La grande battaglia e l'intimo L'amore mentre tutto cade.

Bonfante percorre la parentesi partigiana senza mai dimenticarsi della famiglia. Cerca di proteggerla, di evitare che possa cadere nelle mani del nemico. Ma alla madre, al padre, al fratello e all’adorata sorella, pone sempre in prima fila i suoi uomini, i compagni di quell’avventura epica che è stata la Resistenza. Dai racconti di Anna Bonfante, la sorella, ho tratto molto materiale per realizzare il libro le cui pagine sono costellate di gesta coraggiose, di azioni nemiche bestiali dalle quali emerge, pagina dopo pagina, la crudeltà degli uomini di Hitler. Poi la Grande Battaglia, quella di Montegrande che ha visto “Cion” esprimersi come grande stratega, utilizzando armi prima in mano ai tedeschi per annientare gli avversari. Montegrande ha visto un pugno di partigiani mettere in fuga migliaia di soldati tedeschi. E’ su questa vetta che Bonfante diventa grande eroe. E’ l’aspetto militare che prevale in questo contesto che presto lascia spazio anche all’amore nei confronti di una giovane staffetta la cui umanità permette al racconto di essere ancora più vero. Nella vita del “Cion” l’amore per Fiammetta, la giovane staffetta che mette a nudo la bellezza interiore del comandante duro agli occhi dei suoi uomini, tenero amante con la donna che l’aveva fatto innamorare.

Infine il materiale iconografico. Che ha un ordine cronologico e parte dall'infanzia del comandante, il servizio militare nella Marina, e chiude con le immagini della lotta e della sua tragedia.


Per far capire al lettore come il romanzo sia costruito su forti pilastri di verità ho raccolto foto inedite di Silvio Bonfante, dalla sua fanciullezza al giorno della terribile fine. E con le tante foto del comandante “Cion” i disegni, ancora bagnati di lacrime e sangue, dei bambini profughi da Aleppo, che raccontano il dramma siriano e la loro nuova resistenza.


Per informazioni o richieste: info@fustaeditore.it


Auguri!!!!


Anche Babbo Natale nel suo piccolo si arrabbia di essere usato come anestetico.

Per un Natale e un 2017  a occhi bene aperti.

Auguri a tutte le amiche e a tutti gli amici di Vento largo



mercoledì 21 dicembre 2016

Quando la Corsica non era lontana...



Per noi liguri ponentini la Corsica è un miraggio lontano sul mare. La vedi spuntare soprattutto d'inverno, nella luce dell'alba o nel rosso del tramonto. Tutti abbiamo almeno una volta sognato d'andarci. Un libro racconta questo sogno che ci portiamo dentro da sempre. Marino Magliani ne parla con l'autrice.

Quando la Corsica non era lontana...

Marino magliani intervista l'autrice, Marisa Rovea


Buongiorno Marisa, ho letto il suo stupendo libretto in un paio d'ore. Posso chiederle quando le è venuta l'idea e la voglia di scriverlo, se era da tanto che pensava al progetto o se è stata una neccessità improvvisa?

Innanzi tutto grazie di cuore per aver apprezzato il mio piccolo libro. L'idea non è stata mia, ma suggerita dalla mia meravigliosa mamma che sin da bambina aveva un sogno: vivere in riva al mare, in un paese pieno di luce e di sole caldo. Perché in quel piccolo paese di montagna dove era nata aveva patito tanto il freddo. Con fatica e tenacia aveva coltivato e realizzato il sogno ed era cosi contenta che ne parlava con chiunque andava a trovarla. Un giorno, alla soglia dei novant'anni, la trovai molto pensierosa e triste. Le chiesi il motivo e lei, porgendomi un quaderno, mi disse: "Non so per quanto tempo riuscirò ancora a raccontare la vita meravigliosa che ho trascorso con voi e con papà in quel luogo da sogno. E allora, perché non lo fai tu? Scrivi tutto ciò che ricordi su questo quaderno, danne una copia alle tue sorelle e a tuo fratello e conservatelo preziosamente. Così, un domani, i vostri figli e i vostri nipoti conosceranno le loro radici, la nostra bella storia e ne saranno senz'altro felici.

Quando la Corsica non era lontana... (Centro Editoriale Imperiese) racconta un mondo intero, e la sua forza sta proprio in questo incanto, nel farcelo vivere come se fosse il sogno dell'America. Solitamente il lettore di questo genere di letteratura, potendo scegliere, chiede all'autore pagine incredibili, avventurose traversate oceaniche, statue della Libertà in dirittura di arrivo, miracoli, insomma, benessere raggiunto dopo la tempesta, con la California  e altre promesse... E se ci spostiamo di parallelo, visioni di pampe, sconfinati appezzamenti popolati da mucche e gauchos dopo essere partiti da magre e ossute terre liguri, da terre di fame e di carestie provocate da mosche che divorano il frutto della raccolta, mentre la pampa che trovi è fin da subito un giardino da seminare e raccogliere in abbondanza... Poi, si sa, a parte casi rari, i miracoli li fa solo la letteratura. E a me, il suo, Marisa, sembra davvero un libro che racconta queste cose, ma  senza America  e senza Pampa, perché qui il sogno è quello ligure. Questa nostra terra estrema, emozionante. Ci parli allora per favore di questo mondo raccontato come se lo si leggesse ai bambini, con le difficoltà ben note di chi sa che scrivere per gli adulti e i bambini assieme non sia mai cosa da poco.

E allora cari bambini ecco la bella favola della mia famiglia. Un papà e una mamma molto giovani e i loro quattro figlioletti, tre sorelline e un fratellino. Eravamo molto poveri, abitavamo sulla spiaggia, in un magazzino, un tempo ricovero per le barche dei pescatori. Non avevamo la luce, ma un lume a petrolio, non avevamo l'acqua in casa, ma un pozzo nell'orto. Avevamo poco o niente di tutto ma eravamo tanto felici. Non conoscevamo la solitudine e tutti insieme, in quell'unica stanza, si ballava, si cantava, alla sera si riposava cullati dalle onde del mare e al mattino venivamo svegliati dal rumore delle barche dei nostri amici pescatori.



I luoghi possono appartenere a quelli di una linea degli autostraporti. Andora-Cipressa. Ma stavolta al posto della corriera si viaggia in bicicletta... Una giovane coppia alla ricerca della vita (“Il sogno era cominciato tanti anni prima in Piemonte, dove entrambi vivevano.”) giunge in un bellissimo campo abbandonato, troppo bello per essere incolto, un terreno che guarda le alture e il mare, e si sa, i liguri, che non gettano mai via niente, non lascerebbero mai per nulla al mondo un campo del genere... Forse solo se gli si chiedesse in cambio la vita. E infatti è il caso del campo in questione, il cui terreno... “che all'apparenza sembrava un grande orto, era in realtà un campo minato...”

E poi una volta liberato dalle mine in quel campo c'eravamo noi bambini, io ero la capo banda, la pioniera, sempre alla ricerca di nuovi luoghi da scoprire, di nuove avventure da provare.

E allora eccoci, piccoli pescatori, partivamo con la nostra barchetta, forse già sognando la Corsica o altre traversate. Franchina e Ginetta ai remi, Giannino con la fiocina a caccia di polpi, io con una canna da pesca costruita con una canna del fiume e un filo di nylon,  partivamo a caccia di acciughe e gianchetti.

Ed eccoci ancora a nuotare fino allo scoglio rosso, a caccia delle decine e decine di patelle, che lo ricoprivano, attaccate come ventose. Le staccavamo con una pietra, battendo forte, per poterle mangiare e con il nostro bottino, facevamo ritorno a casa.
Ed eccoci un'altra volta a scalare i ruderi della vecchia torre saracena, inventando storie di pirati e principesse prigioniere.

Ci racconti ancora degli eroi bambini di questa storia. Di Marisa, del piccolo Paolo, del piccolo Giannino che partirà per andare lontano , e tornerà molto tempo più tardi, della zia Iole. E dei pescatori e dei fantastici polpi che vivevano aggrappati agli scogli di un altro secolo.

I bambini di questo libro, da me ai miei fratelli, dal Giannino che diventerà missionario in America Latina al piccolo Paolo, non sono diversi da voi, dai bambini di oggi. Hanno gli stessi desideri, la stessa voglia di essere felici. Purtroppo, però, a differenza di allora non si insegna più che, per ottenerli, ci vuole impegno e, a volte, anche fatica.

La sua è una memoria anche automobilista, ci sono Topolino e Balilla... E il miracolo è il lontano miracolo economico per dire che bisogna crederci?

Il miracolo economico lo abbiamo vissuto, non solo come semplici spettatori, perché, fin da piccoli, i nostri genitori ci hanno abituati a lavorare, a raccogliere la legna che il fiume, ingrossato dalla pioggia, spingeva fin sulla spiaggia e a farne provvista per l'inverno, ad aiutare mamma e papà nella raccolta della verdura che coltivavano per poi rivendere al mercato. Ore e ore chinati a raccogliere ora le patate, ora i pomodori, ora i fagiolini.

E la Corsica non è più un sogno, o forse non potrebbe non esserlo? Ma questo non lo raccontiamo... Diciamo invece che vorremmo, a me personalmente farebbe piacere, che questo libretto lo adottassero le scuole, che lo leggessero i bambini, sicuro che poi sarebbero loro a farlo leggere ai grandi, perché Quando la Corsica non era lontana... ha due categorie di lettori, chi l'ha amato e chi non lo ha ancora letto.

Il libro può essere chiesto al Centro Editoriale Imperiese

cei-imperia@libero.it

Giors Boneto, pittore itinerante delle Valli Occitane


Giors Boneto fu una straordinaria figura di pittore itinerante capace di rappresentare con la semplicità dell’autodidatta i temi religiosi legati alla fervida devozione popolare delle popolazioni rurali alpine tra il 1700 e il 1800. Lo ricordano un bel libro e un'iniziativa a Celle Macra.

Giors Boneto, pittore di Paesana

Giors Boneto, nato a Paesana nella zona di Pratogugliemo nel 1746, fu una straordinaria figura di pittore itinerante capace di rappresentare con la semplicità dell’autodidatta i temi religiosi legati alla fervida devozione popolare delle popolazioni rurali alpine tra il 1700 e il 1800. Questo artista ha prodotto un grande numero di opere, frutto del suo immenso lavoro, in quasi tutte le valli del cuneese: alternativa creativa alla difficile vita delle genti alpine dell’epoca.

Per la sola valle Po sono stati catalogati 94 dipinti a lui attribuibili, ma questo numero potrebbe ancora aumentare, non si può escludere infatti che ulteriori ricerche, in qualche lontana borgata non ancora esplorata, facciano affiorare dalla nebbia dei due secoli che ci separano dai suoi tempi delle nuove, delicate Mistà. Molti suoi dipinti sono andati persi ma rivalutare la figura di questo pittore, attraverso i restauri e la sua riscoperta, rendendo ancora fruibile la sua opera, è utile per approfondire la storia della montagna cuneese nei decenni a cavallo della Rivoluzione francese.

La guida illustra, in un percorso di riscoperta dell’arte popolare, le opere realizzate nelle valli Po, Bronda e Infernotto ed è un invito a percorrere antiche vie in un viaggio della memoria sorprendente. Probabilmente esistono ancora nascosti in qualche lontana borgata o nell’interno di qualche casa rurale dei dipinti che ad oggi non abbiamo ancora ritrovato. È un invito a continuare questa ricerca e saremmo lieti di avere nuove sorprese con la scoperta di altri dipinti di Boneto.


Questa ricerca è il risultato di un lungo censimento e la testimonianza aggiornata di una presenza ancora viva di questi segni di devozione popolare appartenenti all’opera di Giors Boneto, che si affianca al grande lavoro svolto da Gianni Aimar e sua moglie Carla Re sull’arte devozionale dell’alta valle Po realizzato con l’inestimabile contributo di don Luigi Destre.

Il volume nasce dall’assidua attività di ricerca di Stefano Beccio e Costanzo Lorenzati che in collaborazione con l’Istituto Superiore di Cultura Alpina di Ostana e di Fusta Editore hanno fortemente voluto pubblicare questo catalogo/guida dei dipinti conosciuti e realizzati da Giors Boneto nelle valli Po, Bronda e Infernotto e rappresenta la sintesi di una catalogazione durata molti anni condotta in collaborazione tra gli autori e la Regione Piemonte che ha favorito, grazie all’appassionata collaborazione di attenti funzionari come Diego Mondo, il censimento e la schedatura della maggior parte delle opere esistenti in valle. Si è così delineata una guida aggiornata per un percorso di visita puntuale, secondo una scansione geografica che, partendo dai comuni più montani, ci accompagna fino alle opere realizzate in pianura: uno strumento di conoscenza e tutela dei beni artistici per le istituzioni ed i privati che vorranno adottare una politica attiva di conservazione dei beni.


Alla soddisfazione di nuovi ritrovamenti, ancora avvenuti in questi ultimi mesi, si accompagna la consapevolezza della scomparsa di alcuni dipinti per ristrutturazioni edili o semplicemente per il naturale trascorrere del tempo per edifici così antichi, troppo spesso abbandonati e privati di una manutenzione anche minima. L’Istituto Superiore di Cultura Alpina in questi anni, oltre alla documentazione, ha svolto una sistematica attività di restauro di alcuni dipinti (4 dipinti murali e un pilone realizzati da Giors Boneto ed il restauro di un dipinto molto più antico attribuibile alla scuola di Hans Clemer nel comune di Paesana), con il fondamentale aiuto economico della Fondazione CRT e della Fondazione CRC e in collaborazione con la Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico del Piemonte, con l’intento di ispirare, sulla scorta anche delle raccomandazioni accorate di tanti esperti, l’avvio di un’attività più generalizzata e diffusa di restauro e valorizzazione di queste opere e, in generale, del grande patrimonio artistico presente caratterizzato anche da artisti più famosi e raffinati del nostro umile e misterioso pittore itinerante.

Questo volume vuole rappresentare il sincero ringraziamento a tutti i ricercatori, gli amici, gli abitanti che hanno accompagnato l’Istituto Superiore di Cultura Alpina in modo corale in questa lunga avventura, soprattutto alla preziosa competenza di Elena Pianea, alla sensibilità di Pierfranco Rubiolo, Erica Mustazzu e di Costanzo Lorenzati, l’esperto che ci ha sempre guidati con le sue puntuali analisi e riscoperte dei luoghi, dei significati, della storia che ogni dipinto riemerso dal tempo ci racconta; a Stefano Beccio che ha svolto il prezioso lavoro di documentazione fotografica e di allestimento grafico dell’opera, a Rosina Peiretti attiva coordinatrice e puntuale public-relation con i tanti abitanti della valle proprietari e custodi dei dipinti e infine al prof. Angelo Schwarz che ha contribuito con la sua conoscenza, con l’umanità e l’esperienza di una vita trascorsa nel mondo accademico e dedicata in modo appassionato all’insegnamento, a suggerire infiniti consigli per orientare con competente discrezione l’attività dell’Istituto Superiore di Cultura Alpina.


La ricerca continua: Giors Bonetto è diventato, quasi inconsciamente, una figura familiare, ancora vivo e presente come un amico da seguire nel suo percorso esistenziale di artista semplice, delicato, popolare che appartiene ancora all’immaginario collettivo degli abitanti di queste valli. I suoi dipinti donano ancora un po’ di vita e calore alle antiche borgate abbandonate e contribuiscono, con la loro presenza, a rendere riconoscibili e familiari case e villaggi evidenziando l’anima vera dei luoghi e la memoria di un popolo alpino che attraverso quei dipinti ci parla della nostra Storia comune.

Il volume in formato tascabile (Stefano Beccio-Costanzo Lorenzati, Giors Boneto pittore di Paisana. Un pittore itinerante delle valli cuneesi tra 1700 e 1800. Fusta editore– costo 20,00 €) è tradotto in quattro lingue ed è dotato di una carta geografica delle Valli Po, Bronda e Infernotto dove sono indicate le localizzazioni dei dipinti e delle borgate; uno strumento utile per la pianificazione delle visite, capace di soddisfare le esigenze del turismo religioso e culturale anche in vista dei grandi appuntamenti internazionali prossimi che prevedono un considerevole numero di presenze orientate alle valli del Monviso: questa guida catalogo offre un motivo in più per fruire di questo straordinario territorio.


Giovedì 29 dicembre, alle ore 18, il Punto Espositivo Spazio Pinse di Celle Macra presenterà, presso i locali del Municipio a borgata Chiesa, l’incontro dal titolo "Boneto, un pittore itinerante" con Giorgia Ubezzi restauratrice di dipinti murali e materiale lapideo, originaria della val Maira. Partendo da una panoramica sulle tecniche di realizzazione di un dipinto murale, durante la serata sarà presentato questo straordinario artista attivo nelle nostre valli tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 e verrà analizzata la sua copiosa produzione dal punto di vista tecnico ed iconografico, ancora oggi testimonianza perpetua nelle nostre borgate di una devozione popolare che fu.


Info: www.espaci-occitan.org  

martedì 20 dicembre 2016

San Domenico di Albenga


martedì 13 dicembre 2016

Mandala d'oro


La cauzagna



Giannino Balbis

Il romanzo “La Cauzagna” di Rosilde Chiarlone


La notorietà – molto limitata – dell’opera oggetto di questo intervento è inversamente proporzionale all’importanza che essa ha per il proprio contesto storico-culturale. L’opera in questione è il romanzo La cauzagna di Rosilde Chiarlone; il contesto è quello della Val Bormida o, per maggior precisione, dell’ “alta” Val Bormida ovvero della Val Bormida “ligure”. La cauzagna è certamente il testo letterario più significativo del Novecento valbormidese, per intrinseco valore artistico ma innanzi tutto per capacità di interpretazione e di rappresentazione nei riguardi della storia valbormidese al suo livello più profondo.

Il romanzo esce nel 1975 per l’editore Sabatelli di Savona , opera prima (ed anche unica) di una allora cinquantacinquenne docente della Scuola media di Cairo Montenotte, originaria di una frazione di Piana Crixia – Cobarello – che è anche il luogo d’ambientazione del racconto (con un nome leggermente mutato: Cimarello); a Cairo la Chiarlone si distingue, oltre che per l’insegnamento, anche per l’impegno sociale e politico (fra l’altro, è consigliere al comune di Cairo dal 1970 al 1980, con delega alla Pubblica Istruzione e alla Cultura).

Il titolo del romanzo è singolare e di forte impatto simbolico. Cauzagna è una variante semi-dialettale di “capezzagna, cavedagna”; nel vocabolario contadino indica il “solco di fondo”, quello in capo al campo, perpendicolare agli altri solchi, un po’ solco e un po’ passaggio: perciò capace di rappresentare in metafora, proprio per la sua perpendicolarità e la sua precarietà, la condizione e il destino del mondo contadino.

La cauzagna, insomma, è il solco della “malora”; nel caso in questione, della malora valbormidese, che è nella sostanza identica a quella di ogni altro contesto contadino, ma con un percorso storico suo proprio, con accentuazioni e accelerazioni, dilemmi, contraddizioni e drammi suoi propri, con significati ed esiti (sul piano sociale, politico, economico ed anche ideologico e culturale) che, al tempo della redazione de La cauzagna, sono ancora tutti da valutare e capire: il che è esattamente uno degli obiettivi di fondo, se non l’obiettivo primario, del romanzo della Chiarlone.



Già il titolo, dunque, rivela le radici e le finalità prime del romanzo, entrambe riconducibili a quella che si potrebbe chiamare la “questione Val Bormida”, che attraversa l’intero corso della storia valbormidese (dall’età pre-romana all’oggi) e conosce una fase di particolare intensità proprio negli anni ’70 del ’900, momento di massima industrializzazione della Val Bormida ed anche delle prime avvisaglie della contestazione, della crisi, dell’inizio del declino.

Ma, come dicevo, la “questione Val Bormida” è vecchia di secoli, perché da secoli – si può dire da sempre – la Val Bormida è in cerca di una identità storica e culturale, che continuamente sembra sfuggirle o presentarsi sotto forme mutevoli, incerte, multipolari. Il destino di incompiutezza, di identità difficile della regione valbormidese è quello tipico di tutte le aree di frontiera, con l’aggiunta di alcuni caratteri di problematicità tipicamente liguri.

C’è un pezzo di Liguria, infatti, – la fascia della Liguria dell’oltregiogo (di cui è parte la Val Bormida, come lo sono le terre che ospitano questo convegno) – che si pone storicamente come Liguria “altra” rispetto alla marittima. È una fascia lungo la quale ha lasciato segni molto evidenti la contrapposizione fra i due fondamentali modelli storici di Liguria: quello di una Liguria “in verticale”, raccordata con l’entroterra padano (è il modello presente nella Liguria dioclezianea, con capitale Milano, o in quella delle tre marche di Berengario), e quello di una Liguria “in orizzontale”, più chiaramente proiettata sul mare (è il modello della Liguria bizantina, opposta all’oltregiogo longobardo, o della Liguria “genovese” medievale). Insomma: Liguria verticale vs Liguria orizzontale.

Il secondo modello – la “Liguria orizzontale” – è quello apparentemente vincente nella Liguria moderna, quello più facilmente leggibile nella Liguria di oggi. In realtà, i due modelli sono ancora entrambi operanti. E la dialettica che fra di essi si è determinata nei secoli è tuttora particolarmente avvertibile proprio nella suddetta fascia della Liguria d’oltregiogo: che da un lato guarda a sud, in direzione mare, e dall’altro guarda a nord, in direzione padana; è attratta dal contesto ligure-rivierasco, cui per altro appartiene sotto il profilo politico-amministrativo, ma è attratta anche dal contesto appenninico-padano, di cui è parte invece dal punto di vista geografico. In definitiva, è una fascia a doppia identità, combattuta fra due diverse opzioni di Liguria, ugualmente forti, ugualmente importanti.

I riscontri di questo bifrontismo ligure di lontane origini ed operante su vari piani interconnessi (storico-politico, geografico, socio-economico, culturale) sono numerosissimi. Per quanto riguarda in particolare il caso valbormidese, non c’è che l’imbarazzo della scelta. A livello storico-politico, ad esempio, dalle antiche opposizioni fra Celti e Liguri, fra Liguri e Romani, fra municipio di Alba e municipi di Albenga e/o Vado, si passa a quelle fra Longobardi e Bizantini, fra Del Carretto del Finale e Del Carretto di Millesimo, fra Genova e Stato Sabaudo, fino a quelle attuali fra Piemonte e Liguria, ovvero fra province di Cuneo/Alessandria e provincia di Savona, fra diocesi di Mondovì/Acqui e diocesi di Albenga/Savona: tutta la storia valbormidese è solcata dalla presenza di confini che ne spezzano sempre ogni potenziale progetto di unitaria identità. Sotto il profilo geografico, poi, è impossibile separare in maniera netta l’ “alta” dalla “bassa” Val Bormida, la Val Bormida dalla Langa, la Val Bormida dal Monferrato: i confini fra queste realtà non sono mai precisi ma sempre sfumati ed elastici.



Ed è perfino improbabile la definizione di Val Bormida al singolare, di fronte alla presenza, in realtà, di più Bormide e di più valli delle Bormide. Ma è sotto il profilo culturale, soprattutto, che la Val Bormida, stretta fra Langhe, Monferrato e Riviera di Ponente, sembra priva di una fisionomia univoca e piuttosto aperta alla dinamica sintesi di influssi di varia provenienza; sicché la sua specificità culturale sembra consistere in una vocazione a farsi alveo di confluenza di identità culturali esterne, che in Val Bormida – sfumando – vengono a incontrarsi e intrecciarsi. Sotto il profilo socio-economico, infine, l’antico bipolarismo fra civiltà della terra e civiltà dell’emigrazione si è trasformato, nel Novecento, nel bipolarismo fra mondo contadino e mondo dell’industria.

Ecco allora che la fine della cultura contadina è nient’altro che l’ultimo capitolo di una ininterrotta saga della ricerca dell’identità, che è l’intero senso della vicenda storica passata e presente della Val Bormida. La scomparsa del mondo contadino è, naturalmente, un evento non soltanto valbormidese; ma in Val Bormida esso ha un peso e un impatto più evidenti e immediati che altrove.

La malora è stata ovunque malora, ma quella valbormidese ha conosciuto un radicamento forse maggiore e punte di arcaicità più forti rispetto ad altri contesti (ad esempio quello langarolo, tanto per fare il paragone più scontato, ma anche più vicino e significativo); e poi ha conosciuto un crollo più rapido e traumatico, più violento (più “provocato”), più chiaramente irreversibile, a causa di una politica di industrializzazione (a tutti ben nota), che, dopo la riconversione nel primo dopoguerra delle fabbriche belliche di Cengio e Ferrania, sorte tra fine Ottocento e inizio Novecento, è andata in costante crescendo, soprattutto dagli anni ’30 al boom degli anni ’60, e, a parte Cengio, ha puntato massicciamente proprio sull’area cairese. Dalla fine degli anni ’60 e dai primi anni ’70 – il romanzo della Chiarlone, ribadisco, è del 1975 (non a caso) – comincia poi una lunga fase, di stasi prima e di declino poi, che, fra contestazioni, dismissioni e riconversioni varie, può considerarsi tuttora in atto.


http://www.cartabiancanews.it/

venerdì 9 dicembre 2016

Il paese dimenticato



Giorgio Amico

Il paese dimenticato

Andare per boschi in una giornata di sole con le Alpi luccicanti di neve a riempire gli occhi rende leggero il cuore. Siamo appena sopra la città, a pochi chilometri dal mare e da una riviera affollata.


Lasci la macchina sulla strada provinciale, prendi un sentiero fra gli alberi e dopo qualche centinaio di metri ti ritrovi davanti a un gruppo di case in rovina.


Un posto che conosci, che ricordi pieno di vita, dove sei stato tante volte.


Ma ora vedi solo porte sfondate, finestre sul vuoto, tetti caduti sotto il peso della neve.


Anche la Chiesa è in rovina. Il tetto lascia intravvedere il campanile.


All'interno solo i segni della devastazione. Non c'è più nulla, solo rovine. Quello che non è stato possibile rubare è stato distrutto. Resta solo un confessionale, testimone muto del passare inesorabile del tempo. 


Eppure fino a non molti anni fa queste viuzze erano abitate.


Queste stalle, miracolosamente quasi intatte, ospitavano animali.


Si sentivano le voci dei bambini. Lo testimonia la targa sbiadita che ci dice che qui c'era una volta una "scuola rurale". La scritta si legge a fatica, ma basta a riempire il cuore di tristezza.


Guardando quelle finestre senza più luce ci sentiamo intrusi.


Ci sembra che la nostra presenza fra quei muri spezzati, fra quei focolari spenti per sempre, sia una specie di profanazione.


Torniamo alla macchina senza parlare. E il sole caldo e il rosseggiare degli agrifogli nel cielo limpidissimo non bastano a mitigare il senso di morte che proviamo.


Le bacche sono il segno del Natale che si avvicina, ma non per questo paese dimenticato troppo in fretta. Qui da anni ormai non ci sono più né canti né luci. Le campane della chiesa sono mute. Solo il fischio del vento fra le rovine e la neve che presto verrà a coprire di nuovo i tetti.




lunedì 5 dicembre 2016

Strappare il velo della Maya



Il velo posato sulla invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà ha il potere di ricoprire la vera natura delle cose. E dunque in tutte le tradizioni, manifestazioni plurime di un unico principio, l'iniziazione consiste proprio nello squarciare il velo in modo da poter vedere la luce. Abbiamo illustrato il post con opere di Magritte il più iniziatico degli artisti moderni, la cui intera opera è un'apertura sull'altrove.

Raffaele K. Salinari

Strappare il velo della Maya




«Watch out now, take care, beware of soft shoe, dancing down the sidewalks, as each unconscious sufferer, wanders aimlessly, beware of Maya». «Fai attenzione, fai attenzione alle morbide scarpe che ballano sui marciapiedi, e come chi soffre incosciente e, vaga senza meta, guardati dalla Maya». Così George Harrison apre la sua Beware of Darkness, canzone iniziale del triplo album del 1970 All things must pass. Il disco è fortemente influenzato dall’esperienza indiana del «Beatle tranquillo», che aveva spinto già alla fine degli anni ’60 gli altri component dei Fab 4 verso quella scuola di pensiero induista diretta da Maharishi Mahesh Yogi, fondatore e guru della tecnica per la Meditazione Trascendentale.

Negli stessi anni, precisamente nel 1972, un artista americano, Chris Burden, si esibiva in una performance chiamata Deadman: il suo corpo, coperto da un semplice velo di plastica, era steso nel parcheggio di una superstrada californiana, come un semplice rifiuto; se un’automobile lo avesse investito avrebbe potuto morire.

Nell’agosto del 2015 un naufrago bengalese veniva recuperato da un peschereccio di Lampedusa. Tratto in salvo dichiara ai suoi soccorritori: «Molte barche sono passate davanti a me ma voi avete guardato oltre la Maya del mare».



IN ORIENTE

Cos’è dunque questa Maya dalla quale ci si deve guardare per non «soffrire incoscienti e vagare senza meta»? O che acceca la vista di chi vede solo il mare? E cosa rappresenta, analogamente, il sottile strato di materia plastica che separa dalla vista dell’automobilista che sta parcheggiando il corpo di Chris Burden?

Ebbene tutti i suoi molteplici significati sono simboleggiati, sia in Oriente sia in Occidente, da una immagine, quella del velo, il velo della Maya appunto, come lo definirà Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione. Drappeggiato sull’invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà, ha il potere di farli apparire ed al tempo stesso di ricoprire la vera Natura delle cose, che però si rende accessibile dopo lo svelamento, dopo che il velo della Maya è finalmente caduto, o è divento abbastanza sottile da permetterci di gettare oltre uno sguardo perspicuo.

Per il potere della Maya – al femminile in sanscrito, come tutto ciò che afferisce alla sfera creazionale – agli occhi dell’umanità inconsapevole il Mondo appare come una successione di eventi, di oggetti: questo ci incatena al ciclo di una esistenza «penosamente frammentaria» (samsara), come sostiene C.G. Jung nel Libro Rosso, perché percepisce solo la persistenza dell’essere ma non il suo divenire, velando così lo sguardo sulla reale Natura che giace dentro ed oltre di essa. Scopo della vita, invece, è sollevare questo velo per cogliere l’essenza che la genera.

Sollevare il velo della Maya significa percepire finalmente la matrice che tutto crea e tutto connette incessantemente, e questa visione genera la liberazione (moksa). Esserne consapevoli è l’unica strada per conquistare il senso della vita, essere un «risvegliato in vita», un jivanmukta in sanscrito, colui che esperisce la connessione col Principio Creatore e non solo con le sue illusorie e fallaci apparenze. Ma, e qui sta il suo arcano, quando si percepisce ciò che giace nel fenomeno, ciò che è inessivo ad esso, al contempo lo si ricrea, si ricrea l’incanto alla sorgente del Mondo.


LA FONTE INIZIATICA

La natura di questa forza illusoria è ben illustrata dalla storia tradizionale indiana di un asceta semidivino, Narada, che una volta chiese direttamente all’Essere Supremo (Visnù) che gli mostrasse il potere della sua Maya. Nārada, nella mitologia indù, è uno dei modelli preferiti del saggio «sul sentiero della devozione» (bhakti-mārga).

Quando Narada ebbe espresso umilmente la sua profonda aspirazione, il dio lo istruì, non verbalmente, bensì sottoponendolo ad una atroce avventura. Quindi gli disse: «tuffati nell’acqua e sperimenta il segreto della mia Maya». Narada si immerse nel laghetto e ne riemerse trasformato in Susila, La Virtuosa, la figlia del re di Benares; e poco dopo, quando fu nel fiore degli anni suo padre la diede in sposa al figlio del re del Vidarbha, suo vicino. Tuttavia col passare del tempo, fra lo sposo ed il padre di Susila scoppiò una guerra furibonda. In una sola tremenda battaglia molti dei suoi figli e nipoti furono uccisi.

Fece dunque costruire una pira gigantesca e vi pose sopra i cadaveri dei suoi figli. Con le sue mani appiccò il fuoco alla pira, e quando le fiamme ruggirono si gettò nel fuoco. La vampa divenne immediatamente fresca e trasparente; la pira divenne un laghetto e in mezzo all’acqua Susila trovò se stessa, ma nelle spoglie del santo Narada. Il dio Visnù, tenendolo per mano, lo stava conducendo fuori dal laghetto, chiedendogli con un sorriso ambiguo: «Chi sono i figli di cui lamenti la morte?».

Narada pregò allora che gli fosse concessa la grazia di ricordare quest’esperienza per tutto il tempo a venire, e chiese inoltre che il laghetto, come fonte iniziatica, potesse divenire un luogo sacro di pellegrinaggio. Questa versione è riportata nel libro di Heinrich Zimmer, Miti e simboli dell’India.
L’essenza del racconto sta nello svelamento che la Maya è l’Esistenza stessa sia nella sua forma visibile, peritura e transeunte, sia nella sua essenza invisibile, perenne al di là di ogni dualismo. Il Mondo, per l’induismo, è, infatti, mayamaya, cioè «costituito dalla maya»; è questa la conoscenza che il mito si propone di svelare attraverso la capacità magica, trasformatrice, delle acque.

Giustamente, fa notare Zimmer, che qui l’acqua rappresenta la sostanza del principium individuations, poiché la nostra personalità individuale, consapevole, la psiche della quale siamo consci, il personaggio il cui ruolo impersoniamo socialmente o in solitario isolamento, è comunque nutrito, come in un microcosmo mentale ed emotivo, dall’elemento fluido dell’inconscio. Quest’ultimo di fatto rappresenta una potenzialità per larga parte sconosciuta, distinta dal nostro essere cosciente: molto più vasta, molto più complessa, potremmo anche dire segreta se non addirittura incomprensibile e paurosa, e che tuttavia ne rappresenta il fondamento profondo, la sostiene ed è in comunione con essa, le circola attraverso come un fluido vivificante, ispiratore e spesso perturbante, eppure in qualche modo da esso separata: come può essere simboleggiato da un velo che ci ondeggia dinanzi allo sguardo separando conscio ed inconscio.

Wendy Doniger, in Sogni, illusione ed altre realtà, ci rammenta che il potere della Maya non si esercita dunque sui fenomeni, poiché essi sono la Maya, bensì sulla consapevolezza dell’uomo: quanto più essa è ottusa – per paura, insicurezza, avidità, ignoranza – tanto più il velo si inspessisce divenendo alla fine un manto oscuro che ci separa dal senso della nostra stessa esistenza.

Sollevare il velo della Maya, o renderlo traslucido, è allora un’esperienza iniziatica, come quella che ha vissuto il saggio Narada: egli, finalmente, apre gli occhi sulla Realtà sui generis che giace «dentro» i fenomeni apparenti, svelando lo sguardo con il quale l’uomo risvegliato guarda al Mondo.


IL DRAPPO DI ISIDE

Quid fuit, quid est, quid erit

Ma la metafora del velo che copre l’essenza delle cose non è solo legata alla filosofia indiana, anzi: appare esplicitamente citata anche nell’antica opera di Plutarco Iside ed Osiride. Su quella che si diceva essere un tempo la tomba di Iside, vicino a Menfi, ci dice l’autore, era stata eretta una statua ricoperta da un velo nero. Sulla base della imponente e misteriosa figura era incisa questa iscrizione: «Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo».

Questo è il Velo di Iside, divinità antichissima che simboleggia la Natura, cioè la Natura naturans, ed al contempo la varietà delle sue varie forme: l’insieme cioè della Zoè e delle sue Bìos, secondo la distinzione greca tra la Vita senza caratterizzazioni, incondizionata, la Zoè appunto, e le sue espressioni caratterizzate, le Bìos.

Perché Iside è velata? Già Eraclito di Efeso, in uno dei suoi frammenti più discussi ci dice che «la Natura ama velarsi», ed infatti Plutarco, descrivendo la versione più comune del mito che lega Iside ed Osiride, così descrive il velo che copre la Dea in opposizione a quello che invece riveste il suo sposo: «Tinte di colori diversi sono la veste di Iside, a segno del suo potere sulla materia, la quale accoglie tutte le forme e tutte le vicissitudini subisce, potendo diventare luce e tenebra, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, inizio e fine. Ma senza ombra né varietà e la veste di Osiride, che ha un solo colore, quello delle luce. Il Principio, infatti è vergine di ogni mescolanza: l’essere primordiale ed intelligibile è essenzialmente puro. Così i sacerdoti non rivestono che una sola volta Osiride della sua veste, per subito riporta e non mostrarla mai né toccarla mai… La visione dell’Essere… non si può ottenere o percepire che in un solo istante».

Questa visione mistica della realtà al di là del velo che la ricopre è esattamente quella che propone Eraclito con il suo frammento sul nascondimento della Natura. Egli intende darci una traccia di come superare il dualismo che separa l’uomo dalla realtà intima delle cose.


KANT E SCHOPENHAUER

Dopo più di venticinque secoli da Eraclito ritroviamo una interpretazione politico-etica del velo della Maya nell’opera di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, dove il filosofo cerca di innestare sulla visione del pensiero occidentale contemporaneo, duale e scisso, quella orientale, ricongiungente e non duale. Schopenhauer parte infatti dalle categorie di Kant, con la nota distinzione tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé), per rovesciarle completamente o meglio, ricongiungerle.

Per Kant, notoriamente, il fenomeno è la realtà, o almeno l’unica realtà conoscibile e accessibile agli «a priori» che informano la mente umana; per Schopenhauer invece il fenomeno è illusione, sogno e parvenza: esattamente ciò che nella filosofia indiana abbiamo visto essere il Velo della Maya.

Ma, mentre l’essenza della realtà, o noumeno, che si nasconde dietro il fenomeno, per Kant restava inconoscibile, per Schopenhauer esso può essere percepito e di conseguenza è possibile squarciare il velo della Maya, ma come?

Attraverso la «volontà di vivere»: la forza creativa e impersonale alla base di tutte le cose che ne costituiscono l’oggettivazione. Questa è allora l’esperienza fondante attraverso cui possiamo percepirci sia dall’esterno, come rappresentazione, sia dall’interno come «vissuto diretto», come corpo vivente di una Bìos immersa pienamente nel flusso della Zoè. Non è questo allora che informa di sé l’esperienza di Chris Burden? In Deadman, non solo la realtà corporea dell’artista, ma la sua stessa essenza vitale, il suo Invisibile, è separato dallo sguardo diretto solo da un sottile velo che può essere squarciato in ogni momento. Per questo Arthur Danto nel suo La destituzione filosofica dell’arte, in particolare nel capitolo Arte e perturbazione, prendendo in considerazione queste forme di performance le classifica come «arti della perturbazione», nel senso che sono in grado di rendere indistinguibile i confini tra artefatto e realtà.

Riferendosi a Deadman, Danto la definisce una «perturbazione» perché quel gesto è in grado di ridisegnare i confini tra arte e vita: qui la «perturbazione» consiste nell’infrangere la distanza tra le due per includere la realtà come componente artistica effettuale. In tal modo si elimina la distinzione tra arte e realtà: «Burden avrebbe potuto essere ucciso, sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto facesse parte dell’opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si rispondeva emotivamente all’opera. Non accadde, ma sarebbe potuto accadere senza violare i confini dell’opera, perché l’opera incorporava quei confini come parte della propria sostanza«. Incorporava: non il corpo che si fa arte attraverso un gesto estremo, ma il gesto estremo che si fa corpo, restituisce corporeità alla vita.



ARENDT ED ERACLITO

La linea interpretativa che lega disvelamento e rinascita, potere della mente e creazione personale e collettiva del Mondo, è spinto alle sue estreme conseguenze esistenziali da Hanna Arendt nell’incompiuto La vita della mente. Già Giorgio Colli riferendosi al frammento di Eraclito, traduce «Natura» con «Nascimento» e dunque: «Il Nascimento ama nascondersi». Nel commento è chiarito che «Natura» è qui intesa come Natura trascendente, la Natura naturans, il «Principio» che nonostante abbia creato le apparenze, i fenomeni, si mantiene inaccessibile ad uno sguardo puramente raziocinante e scientista. Sicché Natura è l’Origine, come dice Angelo Tonelli nel suo Eraclito, dell’Origine: «Ciò che origina si cela, come mistero, dietro l’apparenza delle cose che origina, pur manifestandosi anche attraverso di esse. Ogni manifestazione del principio è anche suo nascondimento: tale l’ambiguità del cosmo in cui viviamo, e di tale ambiguità il sapiente reca consapevolezza. La conoscenza diventa flusso dinamico, tensione al congiungimento con ciò che origina».



ESTETICA FRAGILE

Ma oggi chi è in grado di catalizzare il nostro stupore tanto da farci ritrovare nella quotidianità un accesso alla «totalità non manifesta»? E ancora, chi coniuga insieme i concetti di Schopenhauer e l’estetica di Arthur C. Danto, incarnando con la propria «volontà di vivere» una vera e propria performance di «arte perturbazionale»? Certo i migranti. Questi corpi che attraversano lo spazio, autentiche metafore viventi, squarciano il velo di una realtà per noi ancora invisibile. Per la sensibilità narcotizzata e secolarizzata dell’Occidente, quelle che consideriamo sovente non-persone, arrivando da oltre le Colonne d’Ercole del nostro sguardo sul quotidiano sono in grado, mercé la loro fragilità, di generare e trasmetterci una «volontà di vivere» che può agire da controveleno della nostra mortificazione morale.

La fragilità si ribalta così nella forza di chi non ha nulla da perdere. La consapevolezza di questo contare nulla per l’Occidente liberista permette ai migranti di spingersi al di là del già visto, al di là del conosciuto: se la mia vita è senza valore per voi che non mi vedete- accecati dalla Maya del mare – allora io me le riprendo sotto i vostri stessi occhi rischiando la morte. Massima fragilità uguale massima resilienza: massima negazione potenziale, la morte, massima affermazione in atto, la mia volontà di vivere. Il malessere perturbante che ci assale alla loro vista e che nessuna misura di «sorvegliare e punire» può cancellare dall’anima, è in realtà generato dall’oscura consapevolezza che il nostro insensato stile di non-vita dipende in definitiva dal loro non-essere. La performance permanente della loro «apparizione» sui nostri territori afferma così l’emergere di una soggettività che invece vorremmo affondare insieme ai loro corpi.

Ogni espressione performativa migrante sdrucisce allora la compattezza della Maya biopolitica che impedisce di accedere alla nostra stessa «volontà di vivere». Questa semplice evidenza diviene dunque l’inizio di una sfida che ha come posta emozionale la nostra stessa percezione del Mondo. Il velo diviene a poco a poco traslucido: balugina la luce delle ombre splendenti di chi affronta il rischio supremo pur di affermare la dignità della propria esistenza.

il manifesto – 3 dicembre 2016