mercoledì 31 gennaio 2018

Nostradamus, medico a Savona



Tutti conoscono Nostradamus come autore di celebri profezie, quasi nessuno sa che per quasi un anno esercitò la professione di medico a Savona.

Giorgio Amico

Nostradamus, medico a Savona

Sei quartine di Nostradamus parlano di Savona, una cita esplicitamente Albisola e Carcare. Anche ad una superficiale lettura viene da pensare ad una sua conoscenza diretta, di prima mano, del territorio. Ed infatti Nostradamus soggiornò a lungo a Savona, fra il 1548 e il 1549. E' lui stesso a raccontarlo in uno dei pochissimi cenni autobiografici della sua ampia produzione letteraria.

Nell'introduzione al suo Trattato di cosmetici e confetture del 1552 egli racconta come alla fine del 1548 venisse a Savona per studiare alchimia vegetale presso Antonio Vigerchio (Viglierchio) “speziale e uomo dabbene”, tanto capace nella sua professione da meritare dall'università “palma o alloro”, insomma una laurea honoris causa. Forse un accenno polemico al rifiuto del mondo accademico di riconoscere ai farmacisti uno status pari a quello dei medici. Una chiusura che al giovane Nostradamus era costata nel 1529 l'espulsione dalla facoltà di medicina dell'Università di Montpellier per aver operato negli anni precedenti proprio come speziale.

Una presenza confermata dal primo storico savonese Giovanni Vincenzo Verzellino che nel suo “Delle memorie particolari e specialmente degli uomini illustri della città di Savona”, pubblicato nel 1885, ma scritto nei primi decenni del Seicento e dunque a ridosso dei fatti narrati, annota come «In questo tempo medicava in Savona M. Michele Nostradamo medico francese eccellente nell’astrologia il quale molte cose predisse».

D'altronde di un Antonio Viglierchio, speziale, parlano anche le “Cronache savonesi” di Giovanni Agostino Abate che lo cita nell'elenco degli “artigiani che esplicano la loro arte senza aver bisogno dell'usuraio” (e dunque in buone condizioni economiche) per l'anno 1565.

Buone condizioni economiche attestate anche da uno studio di qualche anno fa di Giuseppe Milazzo da cui si evince come proprio in quegli anni (1545) Antonio Viglierchio possedesse a Savona, in enfiteusi, la Cappella di San Saturnino e le due ville adiacenti, su quella che, fin dal Medio Evo, era conosciuta col nome di collina dei Folconi e che oggi è conosciuta come via Privata degli Angeli. Un edificio antichissimo, ancora oggi esistente anche se reso quasi invisibile dalla selva di palazzoni che gli sono stati costruiti attorno negli ultimi decenni.

    La Cappella di S. Saturnino

La Savona che Nostradamus trova giungendo dalla Provenza è una città devastata dall'occupazione genovese, che da poco ha visto interrare il porto e distruggere la città vecchia e la cattedrale che aveva tanto colpito per la sua bellezza Francesco Petrarca in viaggio verso la corte papale di Avignone. Un contemporaneo, Ottobuono Giordano, notaio di origini savonesi rientrato in città dopo aver passato gran parte della sua vita altrove, ci ha lasciato un drammatico resoconto della vera e propria sensazione di straniamento causata dalla distruzione del Priamar. Tornato a Savona in tarda età (70 anni), egli arrivando dal mare non riconosce più i luoghi della sua giovinezza tanto da pensare che il padrone della barca l'abbia portato per errore in un altra località, ma

“alla fine accostandomi a terra paria e non paria quella... vidi il bello arsenale tutto ruinato, vidi il vago molo tutto guasto, et afracasso ito, vidi il porto essere soleva tutto pieno et sopra v'erano case fabbricate, del che restai così stupito che pareva un marmore, et ancora dubitava, che questo non fosse il luoco per il quale m'era partito dal mio paese, ma sequendo oltre vidi la bella muraglia et eminente torre tutte in ruina et abbandono che mi fu un coltello al cuore, talche appena poteva favellare”.

E' in questo quadro di rovine che Nostradamus svolge la sua attività di studioso e di medico e con risultati tali da attirare clienti anche da lontano. Egli ricorda come sulla base dei consigli del Viglierchio avesse confezionato un unguento miracoloso per curare l'arrossamento delle pelle che in una sola notte aveva guarito la moglie di un certo Messer Bernardo Grasso e la fidanzata di Messer Giovanni Ferlino, di Carmagnola.


Un successo crescente tanto che nel 1549, appena prima di ripartire per Salon, Nostradamus riceve dal Marchese di Finale l'incarico di curare la sorella Benedetta, non sappiamo colpita da quale afflizione, che egli guarisce con un rimedio a base di pinoli tostati.

Una ricetta inserita nel Trattato sui cosmetici e le confetture che egli compila non appena tornato a Salon e che esplicitamente presenta come il frutto più alto dell'intero suo percorso di ricerca e di studio. Un'arte medico-farmacologica che il grande luminare era venuto ad apprendere a Savona.

Una Messa nera nella Parigi della Belle époque. Huysmans, L'abisso.


    Manuel Orazi, Messe Noir, 1903 

Lindau ripubblica «L’abisso» («Là-bas»), grande romanzo del 1891, subito accusato dai benpensanti di blasfemia, erotismo, satanismo. Da allora Huysmans ha fama di autore maledetto, ma il suo resta un libro straordinario che in molti passaggi evoca per ambienti e personaggi Proust.

Pasquale Di Palmo

Huysmans, una Messa nera tra Sade e Bataille

«Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici». Questa boutade di Barbey d’Aurevilly potrebbe benissimo attagliarsi alla figura e all’opera di Joris-Karl Huysmans (1848-1907), il celebre autore di À rebours (1884), definito da Mario Praz «il libro cardinale del decadentismo». Lo stesso d’Aurevilly osservava profeticamente come a Huysmans non rimanesse, dopo la pubblicazione di quel romanzo, «che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce».

La critica ha suddiviso in tre periodi distinti la produzione del narratore francese: a una prima parte, caratterizzata dall’influenza del naturalismo e dall’impronta di Zola, subentrerà il momento decadente, inaugurato appunto con la stesura di À rebours, cui seguirà una fase in cui più marcato appare l’influsso mistico e religioso, contrassegnato da libri apologetici come quelli dedicati alle figure di Don Bosco o di santa Lydwine di Schiedam. Non bisogna dimenticare inoltre l’esordio, avvenuto all’insegna del simbolismo con le prose di Le drageoir aux épices (1874).


La trilogia cattolica

I protagonisti dei romanzi di Huysmans si possono considerare degli alter ego del loro creatore. A cominciare proprio da Jean des Esseintes, eccentrico personaggio «in preda alla nevrosi del secolo, degno del sanatorio di Charcot», secondo la definizione di d’Aurevilly, che cadenza le pagine di À rebours. A lui si ispireranno autori del calibro di Wilde e d’Annunzio, anche se la sua fisionomia reca tracce di quell’inimitabile modello che fu Robert de Montesquieu, identificatosi con il tempo nel barone di Charlus proustiano.

Ma altri personaggi sembrano rifarsi al prototipo del loro ideatore, a cominciare da Folantin, melanconico impiegatuccio descritto in À vau-l’eau (1882), il quale esibisce le frustrazioni dello stesso Huysmans, costretto a rivestire i panni di un oscuro funzionario ministeriale. D’altro canto il taedium vitae di Folantin sembra prefigurare lo snobismo dandistico di des Esseintes (Maupassant parlò, al riguardo, di «nauseati»), anche se l’interprete che più di ogni altro impersona le vicissitudini religiose che caratterizzano gli ultimi anni di Huysmans è senz’altro Durtal che, non a caso, è il protagonista della cosiddetta «trilogia cattolica», comprendente i romanzi En route (1895), La cathédrale (’98) e L’oblat (1903).

Dall’iniziale conversione avvenuta in seguito alla frequentazione di Léon Bloy e dell’abate Mugnier, oltre a un fondamentale soggiorno intrapreso presso un convento di Trappisti, si passerà a un’adesione sempre più orientata verso i precetti monastici che sfocerà nel suo ordinamento come oblato nell’abbazia benedettina di Ligugé, poco prima che il governo laicista sopprimesse le congregazioni religiose nel 1901. Lo scrittore stesso dette disposizione di farsi seppellire vestito da oblato.

Se la «trilogia cattolica» si sofferma a investigare, con estrema dovizia di particolari, il processo che porterà Durtal alla sua tormentata conversione, non si può non rilevare come in questi tre romanzi sia presente la tendenza a dissertare, in maniera insistente, sistematica, rischiando spesso la monomania, intorno ai diversi aspetti del rito (anche se molto intense appaiono le pagine sul canto gregoriano o sulla descrizione di certi luoghi di culto, in primis la cattedrale di Chartres). Sembra paradossalmente che l’estetismo presente in À rebours si sia riversato sugli esiti esteriori dei vari ordini religiosi o della liturgia. Huysmans si dilunga a tratteggiare le sfumature cromatiche di un paramento sacro, l’atmosfera incantata di un chiostro, taluni particolari di carattere agiografico (con la spiccata predilezione per alcuni santi: Maddalena de’ Pazzi, Giovanni da Copertino, Katharina Emmerich ecc.). È perciò un peccato che le prime due parti della trilogia non siano più disponibili da oltre mezzo secolo in italiano: Per strada e La cattedrale videro rispettivamente la luce per Rizzoli e le Edizioni Paoline nel 1961 e nel 1959, anche se un estratto del secondo romanzo, introvabile anch’esso, è apparso in tempi più recenti da Aragno con il titolo La cattedrale di Chartres.



La figura di Gilles de Rais

Il primo libro che vide come protagonista Durtal fu tuttavia Là-bas, anticipato in feuilleton su L’Écho de Paris nel febbraio 1891 e uscito in volume nello stesso anno da Tresse & Stock; fu tradotto in italiano nel 1970 da Annamaria Galli Zugaro per la collana di letteratura fantastica «Olimpo nero» di Sugar Editore. Ora Lindau recupera quella versione che, nonostante gli anni passati, mantiene una discreta leggibilità, con il titolo L’abisso («Biblioteca di classici», pp. 330, € 24,00), anche se risulta disponibile una traduzione più recente per le Edizioni Internòs intitolata pleonasticamente Laggiù, nell’abisso (una precedente trasposizione, Laggiù, era stata allestita da Corbaccio nel 1929).

Si tratta di uno dei libri più belli e controversi di Huysmans, in cui vengono affrontate tematiche che, nella Francia fin de siècle, erano considerate tabù. Il riferimento è al satanismo, argomento approfondito da Durtal al fine di documentarsi sulla figura di Gilles de Rais alias Barbablù, considerato «il des Esseintes del XV secolo», sul quale deve scrivere una monografia. Huysmans indugia nell’esposizione delle efferatezze compiute da Gilles de Rais dopo il sostegno dato a Giovanna d’Arco, tra cui stupri, torture e uccisioni di bambini innocenti.

I capitoli riguardanti Gilles de Rais sono un vero e proprio libro nel libro che sembra idealmente fare da trait d’union tra la vocazione blasfema di Sade e l’erotismo di taglio speculativo batailliano. Quest’«essere satanico, raffinato ed artista, il più crudele e scellerato degli uomini» diviene così il pretesto per addentrarsi nei meandri di certo esoterismo da parte di Durtal e dei suoi amici: il medico Des Hermies e il campanaro Carhaix. Molto interessanti le descrizioni dell’abitazione di quest’ultimo, arroccata all’interno del campanile di Saint-Sulpice, nonché la sua anacronistica passione per le campane.

Si arriverà a descrivere, in termini quanto mai realistici, una messa nera, alla quale il protagonista assiste tramite l’intercessione di Madame Chantelouve, in cui si adombra la figura di Berthe Courrière, l’ineffabile amante di Remy de Gourmont, amico di Huysmans e autore di un importante studio sul Latino mistico. Non mancano inoltre riferimenti all’alchimia, praticata dallo stesso Gilles de Rais. Ma, in germe, è già presente quell’afflato religioso che contraddistinguerà la fase estrema della produzione di Huysmans.

Si pensi, in tal senso, alla descrizione della crocifissione di Grünewald, artista a cui dedicò un’apprezzabile esegesi in Trois primitifs (1905): «Slogate, quasi strappate dal tronco, le braccia del Cristo sembravano impastoiate per tutta la loro lunghezza dalle corregge dei muscoli tesi. L’ascella contorta scricchiolava. Le mani spalancate terminavano in dita contorte e tuttavia benedicenti, in un confuso gesto di preghiera e di rimprovero. I pettorali, madidi di sudore, tremavano. Il torace era circondato dalle doghe delle costole dilatate, la carne si gonfiava, ammaccata e contusa, chiazzata da morsicature d’insetti, macchiettata dalle punte di spine che le verghe avevano lasciato sotto la pelle».

E proprio dal singolare connubio tra cattolicesimo e satanismo, tra devozione e occultismo nasce la peculiarità di questo romanzo, che sembra aver dato l’abbrivio a una serie di narrazioni sospese tra orrore e sensualità: si pensi, per esempio, a Le Jardin des supplices di Octave Mirbeau che vide la luce qualche anno più tardi, nel 1899. In tal senso vanno letti anche i continui richiami a un Medioevo polemicamente contrapposto all’inerzia della civiltà borghese. D’altronde lo stesso Huysmans aveva sostenuto che «tra un misticismo esasperato e un esaltato satanismo non c’è che un passo».

Il Manifesto/Alias -21 gennaio 2018

Guy Debord



“Tutta la vita delle società in cui regnano le moderne condizioni di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. G. Debord


Sabato 3 febbraio 2018, alle ore 18.00 
presso l'Associazione culturale Il labirinto 
Savona, via Famagosta 10 

presentazione del libro di Giorgio Amico 

Guy Debord e la critica della società spettacolare di massa


lunedì 29 gennaio 2018

Prima di Marco Polo. Francescani e mercanti lungo la via della seta.



La via della seta. Un percorso di letture da Alessandro Vanoli e Franco Cardini passando per Julia M.H. Smith. Per gli autori, la fondazione di grandi empori urbani lungo questi tracciati ebbe un ruolo importante. La storia millenaria della strada che congiunge l’Occidente all’Oriente.

Marina Montesano

Incensi e vertigini per viaggi asiatici

Con una certa frequenza ci capita di leggere della «nuova via della seta», progetto strategico cinese per il miglioramento dei collegamenti e della cooperazione economica tra paesi nell’Eurasia. Partendo dalla Cina, una rete ferroviaria e marittima dovrebbe unire l’estremo Oriente e l’estremo Occidente del macrocontinente, con diramazioni che portano verso le Americhe e l’Africa, dove già i cinesi sono molto presenti e attivi. L’iniziativa è stata annunciata dal presidente Xi Jinping già nel 2013, ma inizialmente non ha ricevuto grande attenzione mediatica, mentre oggi cresce l’interesse per le prospettive economiche nonché geopolitiche del progetto, che potrebbe servire (sebbene come ricaduta minore) anche al trasporto passeggeri. La Cina si farà carico della maggior parte delle spese, ma Russia e India sono partner di rilievo, e anche molti paesi euroccidentali, inclusa l’Italia, sono nel progetto, che pare insomma andare ben oltre la «vecchia» via della seta.


D’altra parte, anche la vecchia via della seta non va immaginata semplicemente come una strada che congiungeva la Cina all’Occidente, come spiega bene un libro pubblicato di recente per le cure di Franco Cardini e Alessandro Vanoli, La via della seta. Una storia millenaria tra Oriente e Occidente (il Mulino, pp. 344, euro 16). Alla fine del I millennio a.C. la Cina era stata unificata dalla dinastia Chin e poi dalla Han, ma, ampiamente autosufficiente, era rimasta a lungo isolata anche a causa delle catene montuose dell’Himalaya e del Karakorum e da deserti sconfinati come quello del Gobi.

È a partire da II secolo a.C. che si cominciarono a costruire passi e strade attraverso tali aree inospitali, utili per instaurare rapporti con le popolazioni di cavalieri nomadi e seminomadi che ne abitavano i confini. Il sistema di fortificazioni che si sarebbe trasformato nella Grande Muraglia era stato costruito per impedirne le incursioni a cavallo, ma allo stesso tempo i sedentari cinesi erano interessati alla formazione di squadroni di cavalieri, e per questo servivano i contatti con il nemico. Dalle necessità della guerra emergevano i primi scambi commerciali e, appunto, la necessità di creare delle vie di collegamento.

Nen corso del II secolo d.C. si era avviata una lunga fase di raffreddamento climatico dell’emisfero boreale del pianeta, che sarebbe culminata fra VI e VII secolo, portando con sé un naturale peggioramento delle condizioni di resa agricola e quindi dei livelli di alimentazione e delle condizioni economiche, nonché un aumento delle malattie epidemiche. Ciò aveva prodotto un progressivo contrarsi dei livelli demografici e lo spopolamento di alcune aree rurali, mentre fuori dei confini dell’impero cinese, nell’Asia centrale, interi popoli nomadi erano costretti a muoversi cercando di spostarsi verso le aree periferiche dell’Eurasia, favorite da un più mite clima marittimo: verso la Cina, insomma, e dall’altra parte verso Roma.

Lungo questi percorsi viaggiavano non solo prodotti agricoli e cavalli ma anche beni preziosi, simbolo dei quali era la seta. I romani indicavano l’estremo Oriente col nome di «paese dei seri», cioè dei produttori di seta. Non c’erano però solo le vie di terra. Insieme con altri preziosi prodotti, la seta giungeva al Mediterraneo attraverso la via di commercio marittima che attraversava, sfruttando il clima monsonico, l’Oceano Indiano e che risaliva la penisola arabica o il Nilo congiungendosi con la «via delle spezie» e quella «dell’incenso».


Dopo il crollo della pars Occidentis dell’impero romano, i regni romano-barbarici davano vita a un panorama umano e culturale assai differente rispetto al passato, come racconta Julia M.H. Smith in L’Europa dopo Roma. Una nuova storia culturale. 500-1000 (il Mulino, pp. 396, euro 16). Non solo la crisi politica, ma anche la cosiddetta «peste di Giustiniano» avevano prostrato un’area già in crisi. I secoli dell’alto medioevo furono un’epoca di adattamenti e ricostruzioni, mentre Bisanzio restava pienamente erede dell’impero romano, riceveva le merci dall’Oriente (sebbene avesse cominciato a produrre in proprio la seta) e le diffondeva nel Mediterraneo.

Anche l'Europa non era del tutto al di fuori delle rotte commerciali. Le aristocrazie romano-barbariche erano interessate ai generi di lusso, che quindi non sparirono completamente. Tuttavia, in questo quadro, la grande novità è data dall’affacciarsi degli arabi fra Oriente e Occidente.
Per secoli saranno loro i principali intermediari lungo la via della seta, tanto di terra quando di mare, passando di città in città e di porto in porto.

La fondazione di grandi empori urbani lungo questi tracciati ha un ruolo importante nel discorso di Cardini e Vanoli, mentre è del tutto secondaria nel libro di Julia Smith, nonostante anche l’Europa verso la fine del primo millennio si stesse avviando a un futuro commerciale. Ma nulla vi era di paragonabile a Baghdad, Samarcanda, Hormuz.

Per vedere viaggiatori europei sulla via della seta bisogna attendere la cosiddetta «rivoluzione commerciale» del Duecento in Europa, la creazione dell’impero mongolo in Asia. Allora sui cammini che erano stati percorsi per secoli da missionari buddhisti e mercanti musulmani si affacciarono anche gli occidentali. Francescani come Giovanni di Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruck e Odorico da Pordenone, e laici come Marco Polo, ma anche tanti altri rimasti anonimi o comunque meno noti.


Se Il Milione continua a essere letto da molti, per fortuna, ma oggi disponiamo anche di belle edizioni degli scritti francescani: ultima uscita, la Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum di Odorico da Pordenone (edizione critica a cura di Annalia Marchisio, Sismel, pp. 643, euro 95). Per noi l’epoca d’oro dei viaggi lungo la via della seta resta quella fra Duecento e Trecento.

Tuttavia, anche l’età moderna, per la quale siamo maggiormente portati a pensare alle rotte atlantiche, ha nell’Asia un baricentro inossidabile. Cardini e Vanoli conducono infatti il discorso fino all’epoca del Grande Gioco per la spartizione dell’Asia, per chiudere promettendo che «il viaggio ricomincia». O, forse, non è mai finito.

Il Manifesto – 15 dicembre 2017

Mamma Olga e il “Diario dal Gulag” ritrovato



Negli anni Quaranta Riwkah Scharf, psicoanalista junghiana, scriveva a prefazione di un suo studio sulla figura di Satana nel Vecchio Testamento, di vivere in un tempo in cui “il male ha oscurato il mondo e ha potuto manifestarsi con una potenza impensata che evoca l'immagine apocalittica del diavolo scatenato dopo una prigione millenaria”. Sempre di più ci pare una descrizione adeguata del Novecento.

Rosalba Castelletti

Mamma Olga e il “Diario dal Gulag” ritrovato


Possedere carta e penna in un gulag sovietico poteva costare la morte. Tenere un diario era praticamente impossibile. Eppure è quello che fece una giovane donna di nome Olga. Per ben due anni, dal 1941 al 1942, riempì 115 pagine di disegni e rime. Un atto di coraggio. E una rara testimonianza.

La vita nei campi di lavoro ha ispirato rinomati memoir, come Arcipelago Gulag di Aleksandr Solgenitsin, tutte composte dopo il rilascio. Il diario di Olga è il solo scritto durante la prigionia a essere sopravvissuto. È rimasto sepolto per settant’anni finché nel 2009 una donna non lo ha consegnato a Zoja Eroshok, giornalista di Novaja Gazeta.

Dell’autrice sapeva solo il nome: Olga. Per rintracciarne la storia e il destino, Eroshok ha scavato per otto anni tra le pagine rilegate e negli archivi.

Il diario, oggi esposto presso il Museo moscovita sulla storia dei gulag, è scritto perlopiù sotto forma di fumetto.

Racconta le avversità di un omino stilizzato soprannominato “Diavoletto del Tempo”, alter ego dell’autrice. Ogni pagina ricorda un episodio: la perdita di un cappotto o il furto della cena. Olga si rivela una donna colta. I suoi giochi di parole sono arguti. Cita autori russi o detti latini. Lo stesso titolo del diario, Le opere e i giorni, ricalca un poema del greco Esiodo.

In una pagina riporta i nomi di sei impiegati di una stazione meteo. Una sola donna: Ranitskaja. «Che sia Olga?», si è chiesta Eroshok. Dopo aver interpellato invano gli archivi di 15 agenzie segrete di polizia in Russia, Ucraina e Kazakhstan, ha scritto un articolo. Solo allora è stata contattata da una nipote di Olga emigrata in Israele e dal capo degli archivi dell’Fsb che l’hanno aiutata a ricomporre i pezzi della storia.

Genitori ebrei, Olga Ranitskaja nacque a Kiev nel 1905. Sposò un funzionario del partito comunista ed ebbe un figlio, Sasha. Divorziò e si risposò. Fu arrestata nel 1937, nel pieno delle Grandi Purghe, e condannata a 5 anni in un gulag con l’accusa di spionaggio. Ne scontò 9 in una stazione meteo nel campo di lavoro di Karlag in Kazakhstan. Dopo l’esilio forzato, lavorò in una clinica e firmò un libro di poesie. Morì a Kiev nel 1988.

Aveva dedicato le sue memorie al figlio Sasha. Che però non le vide mai. Si suicidò a 16 anni: non sopportava gli scherni dei compagni di scuola sulla madre detenuta. Era il 1942, anno in cui il quaderno si conclude con alcune pagine vuote numerate, il modo di Olga di esprimere il lutto.

Il diario, sostiene Eroshok, è la sua vendetta contro Stalin. Le tolse il figlio, la libertà, ma le pagine vergate l’hanno salvata dall’oblio.

La repubblica – 13 gennaio 2018

sabato 27 gennaio 2018

Primo Levi, L’arrivo ad Auschwitz



Trasformare in memoria il ricordo richiede attenzione, compassione e coraggio. Attenzione a ciò che accade attorno a noi ogni giorno. Compassione per poter riconoscere nell'Altro l'immagine più autentica di noi stessi. Coraggio per non voler dimenticare, per insistere con ostinazione a guardare in faccia l'orrore che ancora ci circonda. Perchè , come scrive Primo Levi, "Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l'infezione serpeggia" .

Primo Levi

L’arrivo ad Auschwitz

Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavan l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.

Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni.

Ci saremmo attesi qualcosa di piú apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra: era il loro ufficio di ogni giorno.

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottí, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di BunaMonowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di piú di cinquecento, non uno era vivo due giorni piú tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema piú semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati.

Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri. Cosí morí Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.

Scomparvero cosí, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo piú nulla

(Da: Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi)

Gramsci, Educazione come egemonia




Contro la tesi di Althusser della scuola come luogo di riproduzione e diffusione delle idee della classe dominante, Massimo Baldacci ripropone nel suo ultimo libro la visione gramsciana dell'educazione come campo fondamentale di lotta per l'egemonia. A nostro parere Gramsci recupera e sviluppa una tesi di Tasca già duramente avversata da Bordiga che nel 1911-12 l'aveva combattuta nella federazione giovanile socialista come “culturalismo”.


Donatello Santarone

Praxis e educazione in Gramsci


Il libro di Massimo Baldacci, Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci (Carocci, pp. 276, euro 27), riempie un vuoto di conoscenza sul pensiero pedagogico di Antonio Gramsci che durava, in Italia, dagli anni Sessanta-Settanta, da quando cioè su tale questione apparvero i primi fondamentali studi di Urbani, Manacorda e Broccoli (seguiti poi da quelli di Ragazzini).

Massimo Baldacci, docente di Pedagogia generale all’università di Urbino, parte da questa importante tradizione di studi per riproporne l’eredità più feconda ma anche per introdurre con maggior vigore un nesso fondamentale tra tutto il pensiero di Gramsci interamente innervato dalla filosofia della praxis, cioè da una originale e creativa forma di marxismo, e la dimensione pedagogica, che è politica e culturale, del suo pensiero. Il tutto per rispondere a una cruciale domanda educativa del presente: come fare per liberare la mente dalle scorie nocive del pensiero neoliberale che penetra nella forma di un suadente senso comune che rende passivi e docili i soggetti.

Tutta la ricerca di Baldacci e il suo attuale impegno nella denuncia degli aspetti mercantili delle politiche scolastiche e universitarie avviate dagli anni Novanta nasce da qui. Pensare la scuola e l’educazione in modo gramsciano significa per l’autore porsi il problema di come modificare la soggettività dei subalterni, come far arrivare in alto chi sta in basso (per dirla con Brecht), come far diventare governanti i governati. Insomma, pensare all’educazione come una lotta egemonica di tipo pedagogico-culturale per andare, come recita il titolo del libro, oltre la subalternità.



Su tutto questo la miniera inesauribile dei Quaderni e delle Lettere rappresenta ancora oggi una fertile cassetta degli attrezzi che Baldacci rovista con profonda competenza partendo da quello che egli definisce il postulato pedagogico di Gramsci riassunto in queste parole del rivoluzionario sardo: «Ogni rapporto di egemonia è necessariamente un rapporto pedagogico». Un’egemonia vista sempre nella sua contraddittoria dialettica di direzione e dominio, consenso e forza. La stessa che caratterizza anche il processo educativo, fatto non idealisticamente di buoni sentimenti da dispensare, ma caratterizzato da un nesso inestricabile di autorità e spontaneità, necessità e libertà, norma e infrazione della norma.

«Si deve riconoscere a Gramsci – scrive Baldacci – una profonda onestà intellettuale, oltre a uno spiccato realismo, perché la tendenza dominante nella pedagogia è sempre stata quella di semplificare o mascherare l’ambiguità del rapporto educativo, nascondendo o edulcorando il suo lato coercitivo, per enfatizzare la dimensione dell’amore reciproco educatore/educando.

Sarà Manacorda a evidenziare questo aspetto del pensiero di Gramsci», in particolare attraverso la fondamentale categoria del conformismo dinamico. Rispetto ai contributi di Mario Alighiero Manacorda, del quale restano insuperabili non solo gli studi sul comunista sardo ma anche quelli su Marx e in generale sul marxismo e l’educazione, la posizione di Baldacci è critica in quello che definisce un certo economicismo di Manacorda, in particolare nell’enfatizzazione degli aspetti legati al nesso educazione-americanismo-conformismo. Ci sono certamente, in questa critica, elementi di verità, ma bisogna considerare la necessità avvertita da Manacorda di contrastare una certa lettura culturalista di Gramsci e di farlo proprio in nome dell’indiscutibile nesso che c’è tra le riflessioni pedagogiche di Marx e quelle di Gramsci.



Molto pertinente appare, invece, la critica che Baldacci rivolge alla posizione adialettica di Althusser che vede l’apparato educativo solo come luogo di mera riproduzione delle idee delle classi dominanti, non cogliendo la dimensione contraddittoria dei sistemi educativi attraversati invece, secondo Gramsci, da dure lotte egemoniche, da quelle che gli statunitensi chiamano guerre culturali. E molto acutamente, parlando della nozione gramsciana di apparato egemonico, Baldacci scrive in una nota che tale nozione «sembra maggiormente vicina al concetto di campo di Bourdieu – come realtà attraversata da forze contrastanti – che non a quello althusseriano di apparati ideologici di Stato».

Un'ultima fondamentale questione è il nesso tra educazione e filosofia della praxis. Si tratta di uno degli aspetti centrali dell’interpretazione di Baldacci il quale giustamente sostiene che il progetto emancipativo insito nei processi educativi è tale per Gramsci solo se si lega a una prospettiva di liberazione umana che prende il nome di comunismo e si connette, sul piano teorico, con la filosofia della praxis.

Questo perché in Gramsci, e in generale in tutta la tradizione del marxismo pedagogico, l’educazione non è un’entità disincarnata dai rapporti di produzione e dai conflitti di classe, ma è, come tutte le dimensioni dello spirito, espressione in ultima analisi di determinati rapporti storici tra governanti e governati. Anche in questo per il pensatore sardo la lezione di Marx è fondamentale, in particolare nella scoperta della dialettica inesauribile tra dimensione simbolica e dimensione socioeconomica le quali, a dispetto di una certa tradizione interpretativa caricaturale del pensiero di Marx, non sono mai meccanicamente effetto l’una dell’altra ma vivono dinamicamente come momenti di uno stesso processo storico e umano.

il manifesto - 26 gennaio 2018

venerdì 26 gennaio 2018

Censurare Céline non ferma il razzismo



E' la memoria non il silenzio l'antidoto ai demoni della storia. E il caso Céline non fa eccezione.

Daniela Ranieri

Censurare Céline non ferma il razzismo



La decisione della casa editrice francese Gallimard di non pubblicare più gli Scritti polemici di Louis-Ferdinand Céline dopo la gragnola di polemiche che ne sono seguite non è, a nostro avviso, un coscienzioso atto di profilassi anti-antisemita, bensì un grave sintomo dei tempi. Gli scritti, che contengono i pamphlet più virulenti di Céline (Bagatelle per un massacro, del 1937, La scuola dei cadaveri del ’38 e La bella rogna del ’41) finora conservati dalla vedova ultracentenaria Lucette e mai pubblicati, sono stati ritenuti troppo scandalosi per essere stampati e venduti nelle librerie di Francia.

I sopravvissuti alla Shoah li hanno definiti “un’incitazione all’odio razziale”, e il governo, nella persona del delegato interministeriale contro il razzismo, ha convocato l’editore, che è stato costretto ad annunciare la “mancanza delle condizioni di serenità” per lavorare su una materia tanto incandescente. E così, contrariamente a quanto avvenuto in Germania nel 2016 quando uscì l’edizione critica del Mein Kampf di Hitler, gli scritti odiosi e radicali di Céline non vedranno la luce.

È vero: Bagatelle per un massacro è un libro pieno d’odio. Per Céline, gli ebrei sono “quelli che contano”, “non i decoratori, i giardinieri, i facchini, gli sterratori, i fabbri, i mutilati, i portinai… insomma… la manovalanza… No! Ma tutti quelli che ordinano… che decidono… che intascano… affaristi, direttori, tutti giudei… completamente, semi, un quarto di giudei”. (Come si vede, è facile procurarsi una copia non autorizzata del libro anche senza il permesso dall’alto).

La sua è una farneticante rivolta contro “il potere”, scritta tre anni prima che i nazisti annunciassero “la soluzione finale”. Ma quale logica sottende la scelta di equiparare l’espressione dell’odio, fosse anche la più ributtante, all’azione d’odio, che esistono leggi per perseguire e galere per contenere? Quale, se non quella di ammettere che le istituzioni democratiche (e in esse la scuola) hanno fallito la loro missione e temono che le parole di uno scrittore possano farle crollare? Che non hanno più gli strumenti per insegnare la Storia se non quello della messa all’indice dei libri sgraditi, versione sterile e “corretta” dei roghi nazisti?

Pensare che inibire la conoscenza di Céline possa frenare i rigurgiti di antisemitismo presuppone la considerazione dei lettori come di eterni fanciulli ai quali vadano vietate le letture oscene. È la pratica preferita dall’Inquisizione, e non ha mai significato progresso. La messa al bando si fonda sulla tesi del contagio: chiunque tocchi il maledetto Céline, ne inala l’infezione e la porta nel mondo.

Sennonché i libri di Céline, da Viaggio al termine della notte a Rigodon, sono di una incontroversa grandezza, veri capolavori di rigore, fantasia allucinatoria, abiezione e cristalizzazione ossessiva. Gli scritti che Gallimard rinuncia a pubblicare sono un documento che appartiene all’umanità, davanti al quale si prova incanto, repulsione e vertigine. Perché privare il lettore dell’esperienza etica e estetica di venire in contatto e se necessario alle mani con esso?


Martin Heidegger, il filosofo tedesco che giurò fedeltà al Terzo Reich, era antisemita. I quaderni neri ne sono una testimonianza agghiacciante. Vietiamo il suo insegnamento nelle università? Richard Wagner organizzava con la moglie Cosima cene con i peggiori editori di fine Ottocento (disprezzati da Nietzsche) per discettare di quanto fossero pericolosi gli ebrei. Distruggiamo il Lohengrin? Lo Shylock di Shakespeare è un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare “una libbra esatta della bella carne” dal corpo di Antonio per riscuotere un debito. Chiediamo a Nardella di trasformare Shylock in un norvergese luterano, in un cubano sincretico, in un musulmano? (Dio ne scampi).

Difficile credere che i fascistelli che oggi impestano le città occidentali, per avere forza dei loro non-argomenti, leggano Céline traendo ispirazione dalla sua scrittura sublime e oscena. O che dopo la lettura de La bella rogna una persona sana di mente vada in giro a negare o giustificare i campi di sterminio. O che l’ignorante candidato della Lega Fontana, che farnetica di “razza bianca”, sia un acuto compendiatore di Céline.

La strada per un rifiuto eterno dell’antisemitismo non è la censura, né l’oblio a cui non la scelta libera dei lettori, ma una censura “dall’alto” vuole consegnare le opere antisemite. Al contrario, la strada per formare una coscienza critica nelle generazioni a venire è la conoscenza. La letteratura non è edificante, non è la somma dei manuali di educazione civica di una società. È sperimentazione, affronto, effrazione; è il tentativo di descrivere l’esperienza del limite, e compito dell’arte più grande è metterci di fronte a ciò che c’è di abissale in noi, proprio perché sia chiaro, anche nel modo più violento, che niente di ciò che umano ci è estraneo.

Il Fatto – 25 gennaio 2018

Il segreto di “Lale” Eisenberg tatuatore di Auschwitz



Uno degli aspetti più terribili della Shoah fu l'utilizzo dei deportati nella gestione dei campi. A parte le guardie, tutto il personale dei lager era infatti composto di prigionieri. Uomini e donne che, se sopravvissuti, vivranno schiacciati dai sensi di colpa per aver in qualche modo collaborato allo sterminio dei propri compagni. 

Andrea Tarquini

Il segreto di “Lale” tatuatore dei nazisti



Era il tatuatore di Auschwitz, l’uomo selezionato per caso dai nazisti tra tanti prigionieri per incidere loro il numero di matricola sull’avambraccio. Per anni trasformò in numeri persone destinate alla morte. Poi s’innamorò di una giovane prigioniera che aveva tatuato. Nel dopoguerra si ritrovarono e si sposarono. Visse una vita nel rimorso e nel senso di colpa, e solo dopo la morte della moglie, nel 2003 si decise a parlare prima di morire tre anni dopo. Ora la drammaturga neozelandese Heather Morris, che dal 2003 al 2006 ha raccolto le sue memorie, narra tutto in un libro.

Una vita tranquilla da coppia che invecchia bene insieme in un sobborgo della metropoli australiana Melbourne, e insieme per lui una vita col senso di colpa come un macigno sul cuore. Alla nascita nel 1916 in Slovacchia si chiamava Ludwig “ Lale” Eisenberg, era ebreo. Dopo la guerra cambiò nome in Lale Sokolov. Gita, la ragazza che conobbe ad Auschwitz tatuandola, fu la compagna della sua vita. « L’orrore del campo, l’orrore di essere sopravvissuto, gli dettero una vita di rimorso paura e paranoia » , dice Heather alla Bbc.


Rimorso per aver degradato persone in numeri con quei dolorosissimi tatuaggi che impresse a centinaia di migliaia, paura di essere scoperto e perseguito come criminale nazista. Solo alla fine, si decise a vuotare il sacco. Lale aveva 26 anni quando fu deportato ad Auschwitz. Giovane e prestante, si offrì per i lavori più duri sperando di salvare dalla morte i suoi genitori: sapeva che erano anche loro deportati da qualche parte. Era già divenuto un numero egli stesso: 32407. Si ammalò di tifo, fu curato da un tale Papen, medico francese allora tatuatore nel campo della morte. Papen lo prese sotto la sua protezione, gli insegnò il “ mestiere”, ne fece il suo assistente, gli insegnò a tacere sempre.

Un giorno Papen sparì misteriosamente, allora i nazisti scelsero Lale — anche perché parlava slovacco, tedesco, russo, francese, ungherese e polacco — come tatuatore capo di Auschwitz- Birkenau, dipendente del “ dipartimento politico delle SS”. Sempre sorvegliato, sempre vivendo nel terrore. Mengele, il medico della morte, veniva spesso a vedere quali tatuati poteva scegliere per i suoi esperimenti, e più volte gli disse «un giorno toccherà anche a te». Lale visse anni nel terrore che l’indomani fosse l’ultimo giorno, ma aveva privilegi. Pranzava nell’edificio dell’amministrazione, aveva razioni extra e tempo libero.


I tatuaggi, dolorossimi quanto umilianti — esseri umani ridotti a numero come bestiame da macello — prima venivano eseguiti con timbri metallici, poi con aghi a punta doppia, narrò Lale a Heather. Nel luglio 1942, i nazisti gli portarono una ragazza, Gita Hurmannova, cui toccava il tatuaggio 34902. Lui non dimenticò mai gli occhi di lei imploranti di dolore. Negli anni di Auschwitz, faceva di tutto per aiutarla a sopravvivere. Potendo uscire dal campo, vendeva gioielli tolti ai deportati in cambio di cibo per quella ragazza e altri deportati. Nel 1945,coi nazisti in fuga davanti all’Armata rossa, Lale perse le tracce di Gita. A lungo la cercò invano.

Dopo la liberazione, tornò fortunosamente in treno a Bratislava. E alla stazione, riconobbe quegli occhi sorridenti: era lei, ritrovata per caso. Si sposarono, aprirono un negozietto ma il regime comunista al potere dal 1948 li espropriò, arrestò ed espulse perché Lale raccoglieva collette in sostegno al neonato Stato d’Israele. Vienna, Parigi, infine l’Australia furono le tappe del loro esodo. Vissero a Melbourne tutta la vita, Gita a volte tornò in Europa, Lale mai. Dopo la morte di lei, Lale trovò in Heather Morris la persona che raccolse i suoi ricordi. Avrebbero dovuto diventare anche un film. Film Victoria, un ente pubblico australiano, finanziò ricerche sul caso. E così si scoprì che i genitori di Lale erano stati assassinati ad Auschwitz un mese prima della deportazione del figlio. Lale non lo apprese mai.

La Repubblica – 9 gennaio 2018

Mickey Mouse (Topolino). Ha novant'anni il mito americano




Nel gennaio 1927 fa veniva ultimato " L'aereo impazzito", il primo cartoon con protagonista il più iconico e longevo personaggio Disney Le sue trasformazioni raccontano la storia della piccola borghesia Usa. Topolino nasce avventuriero, con il crollo di Wall Street risente della crisi, nel Dopoguerra trova la sua vera identità: l'americano medio che difende la proprietà privata e i valori americani.

Stefano Massini

Buon compleanno Mickey Mouse l'eroe invecchiato come la middle class


L'apparecchio acustico ben si nasconde in quei suoi orecchi grandi, inconfondibili. Gli occhi sempre vividi, sebbene incorniciati da un solco di rughe.Eccolo qua: nonno Mickey Mouse, giunto in questo inizio di 2018 al suo novantesimo compleanno. Già, perché tanto è trascorso da quel gennaio del 1928 in cui tecnicamente si ultimava il montaggio de L'aereo impazzito, cortometraggio che segnò il debutto della star Disney più amata e longeva (anche se fu il terzo cortometraggio, Steamboat Willie, il primo ad andare nelle sale, nel novembre dello stesso anno).

E dire che alla prima proiezione ufficiale l'accoglienza fu tutto fuorché trionfale: i distributori non si fecero incantare da quel topo scalmanato in veste di aviatore alla Charles Lindbergh, appaiato fino dal debutto alla sua girlfriend Minnie. Sarà forse perché Mickey Mouse nasceva come una specie di "piano b", una carta di riserva disperatamente giocata da Walt Disney e da Ub Iwerks dopo che Universal gli aveva di fatto sottratto — asso della scuderia — il fortunato coniglietto Oswald.

Quando si dice che da ogni colpo occorre subito rialzarsi: i nemmeno trentenni Walt e Ub non si persero d'animo, e tentarono il tutto per tutto osando la versione cartoon di un fortuito topastro che Disney narrava d'aver addomesticato nel suo studio di Kansas City. Detto fatto: il neonato fu battezzato Mortimer Mouse, poi convertito in Mickey. Certo che oggi commuove osservarne i primi vagiti: il Mickey Mouse immortalato in quelle pellicole era uno scavezzacollo, un adolescente adrenalinico in preda a un uragano d'ormoni, un gaucho di provincia in perenne sete di brividi e di slanci. Era la giovinezza di questo novantenne, viene da pensare.

Se non fosse che la vita di Mickey Mouse è anche quella della borghesia occidentale che l'ha eletto a proprio mito. E infatti quel topo esagitato degli esordi mi pare il più brillante ritratto della frenesia degli anni '20 prima della Grande Crisi: incurante di ogni limite, il nostro giovane divo incarna la baldoria di un ceto medio senza freni, illuso d'onnipotenza, ebbro di boati futuristi. Quel Mickey Mouse è in fondo un D'Annunzio cartoon, che cavalca struzzi e ronzini, pilota velivoli e battelli, si lancia in risse forsennate pur di sbaciucchiare la sua pupa fra i marmi del Vittoriale.



Poi la frenata, brusca, glaciale: il crack del 1929 si abbatte anche sul giovane Mickey come una frustata. E infatti — proprio all'indomani del crollo di Wall Street — ecco uscire nelle sale The Haunted house, in cui il nostro paladino si addentra tremante in una mefitica magione infestata da un sabba di scheletri agli ordini nientemeno che di Sua Maestà la Morte. Come dire, insomma, che la borghesia americana scopriva d'un tratto d'esser circondata da mostri inauditi, le cui fauci reclamavano sangue umano. E la storia di Mickey Mouse negli anni a venire conferma puntualmente la teoria, con un susseguirsi di cortometraggi in cui i peggiori cataclismi sembrano abbattersi nel microcosmo disneyano: incendi rovinosi minacciano i grattacieli e pesanti macigni si staccano dalle montagne (fra i titoli non mancano Gli orfani di Topolino e Topolino salta il pasto).

Egli si proponeva quindi come un portavoce del dilaniato ceto medio degli anni Trenta, in un processo di identificazione che culmina nel capolavoro Il piccolo sarto coraggioso del 1938 (in gara alla Mostra del Cinema di Venezia): ispirato a una favola dei Grimm, il film anticipava lo scoppio del secondo conflitto mondiale, attraverso la metafora di un Mickey Mouse mandato per errore a battersi contro un gigante-tiranno che tiene sotto il giogo l'intera contea.

Stava per iniziare il lungo tunnel della guerra, in cui l'unica salvezza per non demordere era chiudere gli occhi e immaginarsi altrove. Anche casa Disney recepì questo istinto di fuga, e ancora una volta ne incaricò in pieno il suo storico alfiere facendone il protagonista di Fantasia. E appena il mondo riaprì gli occhi, trovò di nuovo pronta un'ulteriore trasformazione del topo, pronto a farsi aedo e simulacro di ideali e riti del Dopoguerra.


Sarà che da tempo l'eroe veniva disegnato in strisce quotidiane da quel Floyd Gottfredston che ne fece sempre più un detective borghese in lotta contro il crimine, certo, ma un crimine che minacciava più che altro portafogli e proprietà privata di una middle class in rampa di lancio verso il boom. Mickey Mouse è dunque adesso un guardiano del Bene collettivo, laddove esso coincide con la quieta serenità di un Occidente consumista, fiero dei propri status symbol come la villetta dotata di tv e barbecue. In un'America che autorizza il possesso di armi da fuoco, rappresenta l'ostinato bisogno di professarsi dalla parte giusta, proteggendo nel proprio benessere più che una fonte di agio: un sistema di valori.

Nato incendiario, Mickey si scopre a mezza età pompiere: un autentico ribaltamento, o forse uno di quei cambi di casacca tipici della vita di ciascuno, quando il bilancino del compromesso ti fa mutare visuali e connotati. Almeno così ci dice, oggi, davanti alla sua torta di compleanno, questo arzillo novantenne. Rimpianti? Nessuno.

Anzi, forse l'ombra di un solo dubbio: per decenni ha sgominato i fuorilegge di Topolinia, terrorizzata dal perdere i suoi due tesori, reddito e sicurezza. Ma era così giusto farne due baluardi? Chissà. Intanto un tizio di nome Donald ci ha costruito sopra un trionfo elettorale. Ma questo non è un cartoon, e quel Donald non è Donald Duck.

la Repubblica – 16 gennaio 2018

giovedì 25 gennaio 2018

Cinema e psicoanalisi



Cinema e psicoanalisi nascono insieme nel 1895. La lezione di Freud sarà fondamentale per molti registi a partire da Alfred Hitchcock.


Giuseppina Manindi

Freud. La sua ricerca ideale per il cinema



Sapeva che sarebbe stato un viaggio «pericoloso». Si trincerava dietro la paura delle malattie, del clima, ma in realtà Roma lo angosciava per ben altro, qualcosa che riguardava il profondo. E difatti Roma, in quei miti giorni di fine settembre del 1907, aveva in serbo per Sigmund Freud due incontri fatali: con il bassorilievo di Gradiva, che lo spinse a indagare nuovi baratri della psiche, e con quella nuova arte chiamata cinema. In piazza Colonna, su uno schermo all’aperto Freud vide i primi filmini, comiche del muto che lo lasciano «ammaliato».

Non a caso, cinema e psicoanalisi sono fratelli gemelli. Nati lo stesso anno, il 1895, quando a Vienna Freud pubblica i primi studi sull’isteria e a Parigi i fratelli Lumière mostrano in pubblico il primo film, 45 secondi in bianco e nero tremolante sull’uscita delle operaie dalle officine Lumière. Un doppio sogno costruito su evidenti affinità — immagini in movimento, oscurità, voyeurismo — destinato a infiniti intrecci futuri. La rassegna di psico-film curata da Maurizio Porro, dal 5 febbraio al 12 marzo all’Anteo, offrirà occasioni per meditarci su.



Ma se Freud restò incantato alla sua prima visione romana, non altrettanto accadde quando Hollywood lo interpellò. Nel 1924, pur trovandosi in ristrettezze economiche, rifiutò i 100mila dollari offerti dalla MGM per collaborare alla stesura di copioni su storie d’amore tra personaggi famosi, a partire da Antonio e Cleopatra. Due anni dopo altro invito, altro rifiuto. Sebbene stavolta la richiesta fosse più sensata, supervisionare la sceneggiatura de I misteri dell’anima di Pabst , primo film sulla psicanalisi, Freud si ritrasse indignato. «Non voglio aver nulla a che spartire con storie del genere» scrisse a Karl Abrahm, presidente della Società Psicanalitica, che prima tentò di convincerlo e poi accettò di collaborare lui stesso al film. E questo provocò la rottura tra i due.

«Freud non odiava il cinema, la sua diffidenza era verso un cinema che voleva raccontare la psicoanalisi — assicura Vittorio Lingiardi, psicanalista appassionato del grande schermo —. Ma detta con il senno di poi, aveva torto. Vera “fabbrica dei sogni”, il cinema tra tutte le arti visive ha dimostrato di essere la più adatta a raccontare la vita psichica».

Tanto che oggi alcuni film vengono adottati come complemento didattico nelle università. «Se una volta si portavano gli studenti a vedere le isteriche alla Salpêtrière, oggi si mostrano i meccanismi della psiche attraverso i paesaggi del cinema». Per esempio? «Se voglio parlare della fragilità analitica proietto Blue Jasmine di Woody Allen, mentre Natural Born Killer è un trattato sulla personalità antisociale. E niente come l’ Inquilino del terzo piano di Polanski spiega, complice Topor, come nasce il delirio psicotico».


E poi viene Hitchcock. « Psyco per me è il primo vero film psicanalitico. Hitch semplifica molto, ma sa trattenere i tre elementi chiave della psicanalisi: il trauma, la rimozione, la catarsi. Capisce che la psicanalisi al cinema è un successo, la usa per costruire il plot». Altro discorso per Woody Allen: «Maestro nel raccontare le nevrosi quotidiane, meglio le sue, con quel tocco di ironia necessaria per trasformare il dramma in commedia».

Ma se Hitch piega la psicologia al cinema e Allen stende il cinema sul lettino, che fa Cronenberg? «La affronta dal punto di vista del paziente, dentro i più oscuri pertugi della mente». Impossibile scordarsi di Bergman e Buñuel. «Il primo usa la psicanalisi per sfiorare la metafisica, il secondo ne recupera la forza eversiva originaria». Ma il più psy di tutti resta Fellini. «Il più visionario. Jung, “lo scienziato veggente”, è il suo compagno di viaggi onirici». Ne resta ancora uno, Lars von Trier. « Melancholia è il poema della depressione, Nymphomaniac il film impossibile sulla sessualità femminile. Due buchi neri della psiche illuminati dalla forza emotiva del cinema».

Il Corriere della sera – 23 gennaio 2018

Il fiume rubato. La lotta della Val Bormida per il suo fiume


Sabato alla Ubik di Savona la storia dell'ACNA di Cengio, una lotta sul piano ambientale, della salute, della vita.

Sabato 27 gennaio ore 18:
incontro con l’autore teatrale
ANDREA PIERDICCA
e presentazione del libro + dvd
“Il fiume rubato.
117 anni di lotta di una valle per il suo fiume”
Introduce Renata Barberis.


Il progetto nasce con l’idea di celebrare 10 anni di cammino da quando Alessandro Hellmann pubblicò il libro “Cent’anni di Veleno”, che raccontava magistralmente e per la prima volta nella sua interezza la lunga storia della Val Bormida e dell'ACNA di Cengio, la fabbrica dei veleni.
Da lì è nato “Il fiume rubato” di Andrea Pierdicca, uno spettacolo teatrale commovente, bellissimo. La Resistenza durata un secolo, gente comune, persone che hanno reagito, contadini, sindacalisti, poi le masse in movimento, il popolo in azione, conflitti tra contadini e operai, interessi e convenienze politiche, la guerra contro il mostro che inquina e che uccide, il nascondere la verità, il falsificare i dati, il non permettere i controlli, il far leva sul ricatto occupazionale… un crescendo di tensione dalla fine dell’Ottocento al gennaio 1999, giorni della chiusura della ‘fabbrica della morte’.
Il popolo della Valbormida ha sofferto 1.000 morti in 100 anni. È questa la prima lezione di questa storia incredibile: un crimine può durare un secolo e riprodursi di generazione in generazione.
Una lotta sul piano ambientale, della salute, della vita; una guerra come esempio di tutte le lotte anche recenti di questo territorio, come quella che ha portato alla chiusura dei gruppi a carbone della Centrale elettrica di Vado Ligure Tirreno Power.

1948. L'attentato a Togliatti e l'insurrezione mancata



Mario Avagliano e Marco Palmieri rievocano in un saggio (il Mulino) le gravi tensioni politiche del 1948, culminate negli spari di Antonio Pallante al leader comunista. Seguirono in tutto il Paese disordini che provocarono sedici morti.


Paolo Mieli

La rivolta senza padri


Il 1° gennaio del 1948 in Italia entrò in vigore la Costituzione repubblicana. Quello stesso giorno Pietro Nenni, leader dell’unico partito socialista europeo di una certa grandezza legato in un Fronte popolare a quello comunista, scrisse sull’«Avanti!» che era giunto il momento di «adeguare il 1948 al 1848». La Democrazia cristiana raccolse la sfida implicita nel richiamo nenniano agli eventi rivoluzionari di un secolo prima e diede alle stampe un manifesto dove comparivano l’aquila asburgica accanto a «1848» e la falce e martello vicina a «1948». Lo slogan del cartellone Dc era: «Allora contro lo straniero/ oggi contro la tirannia».

La sinistra rispose con un poster da cui si affacciava Giuseppe Garibaldi che si rivolgeva al leader trentino con queste parole: «Bada De Gasperi, che nessun austriaco me l’ha mai fatta». Iniziava la sfida: i socialcomunisti, nel nome appunto di Garibaldi, il 18 aprile del 1948 cercavano di travolgere la Dc alle prime elezioni politiche del secondo dopoguerra. E di punire in tal modo Alcide De Gasperi, che un anno prima li aveva cacciati dal governo.

Il risultato di quella consultazione elettorale — precisano Mario Avagliano e Marco Palmieri in 1948. Gli italiani nell’anno della svolta di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino — non era affatto scontato. Sulla base dei risultati di precedenti turni di amministrative, comunisti e socialisti credevano di poter agevolmente sopravanzare la Dc. Invece lo scrutinio assegnò a sorpresa un trionfo alla Dc (che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi), e decretò l’insuccesso di Pci e Psi, distanziati di quasi 20 punti.


 Tre mesi dopo, il 14 luglio, un giovane siciliano iscritto al Partito liberale, Antonio Pallante squilibrato e senza mandanti), attenta alla vita di Palmiro Togliatti mentre sta uscendo, assieme a Nilde Iotti, da un portone secondario di Montecitorio. Il leader comunista resta per qualche ora tra la vita e la morte e durante quel lasso di tempo si ha l’impressione che socialisti e comunisti possano cogliere l’occasione per cercare nella piazza una sanguinosa rivincita delle elezioni perdute. Torna d’attualità l’evocazione rivoluzionaria di Nenni.

L’allarme è grande anche sul piano internazionale: Stalin definisce l’attentato «brigantesco» e velatamente polemizza con il Pci, accusandolo di non aver saputo proteggere il suo leader; l’ambasciata americana informa Washington che la morte del segretario comunista è «prossima» e riferisce che è stato suggerito ai cittadini di non lasciare Roma per il Nord dove «la loro vita sarebbe stata a rischio».

Cosa succede davvero quel giorno? La Cgil di Giuseppe Di Vittorio (appena rientrato da una conferenza sindacale a San Francisco) proclama immediatamente lo sciopero generale. La decisione «politica» della Cgil provocherà recriminazioni da parte dei sindacalisti cattolici guidati da Giulio Pastore i quali provocheranno una spaccatura definitiva del sindacato. Socialdemocratici e repubblicani decideranno però, in quel frangente, di restare nella Cgil, ritenendo che solo dall’interno si sarebbe potuto «tentare di strappare le masse ai comunisti». Radio Mosca trasmette un ambiguo comunicato nel quale quasi incita all’insurrezione e Celeste Negarville successivamente ammetterà essere stata una «leggerezza» di qualche non identificato dirigente del partito interpretare quel che era stato detto nella trasmissione radiofonica russa alla stregua di una «direttiva».


Di qui un’ondata di manifestazioni più o meno spontanee, scontri con la polizia e anche qualcosa di peggio. Finché Togliatti, riavutosi grazie a un intervento chirurgico miracoloso di Pietro Valdoni, richiamerà i suoi all’ordine. E questi rientreranno — non senza qualche mugugno — nelle ore in cui la radio annuncia l’insperata vittoria di Gino Bartali in alcune tappe di montagna del Tour de France: un giornale della gioventù cattolica titola Bartali ha battuto Di Vittorio . Giulio Andreotti, anni dopo, definirà, però, «un’esagerazione» l’attribuzione al ciclista del merito «di aver evitato all’Italia la guerra civile».

I dirigenti del Pci in quelle ore vengono presi alla sprovvista. A sorpresa, tra i meno esagitati troviamo il duro Pietro Secchia, che cerca di frenare la deriva insurrezionalista con queste parole: «Non dimenticate compagni che siamo a soli due mesi e mezzo da elezioni che hanno dato una maggioranza assoluta al governo». Secchia proverà in seguito a rinfrancare i manifestanti accennando ad una «simpatia di larghi strati della popolazione» attestata dalla grande quantità di serrande abbassate. Ma un iscritto savonese, Gerolamo Assereto, gli risponderà con una lettera all’«Unità» scrivendo: «Almeno per quanto si riferisce a Savona, gli esercizi pubblici sono stati chiusi, nella quasi totalità, non per solidarietà con lo sciopero generale, ma per il timore che la massa eccitata danneggiasse negozi e proprietari».

I l fuoco rivoluzionario — a quel che si può desumere dalla copiosa documentazione del libro — si accese spontaneamente. Per autocombustione. In settant’anni di ricerche anche molto minuziose non è stato identificato il nome di un solo dirigente nazionale del Pci che abbia dato il via alla rivolta. Neanche in sede locale. Si moltiplicano — subito dopo l’attentato — i paragoni con l’uccisione per mano fascista nel 1924 di Giacomo Matteotti, le accuse alla Dc di aver creato un clima d’odio responsabile di aver «armato» la mano dell’attentatore, ma nomi di leader che avrebbero dato il «la alla rivoluzione» non sono venuti fuori.

Il gappista Rosario Bentivegna racconterà di aver ricevuto alla federazione del partito a Sant’Andrea della Valle l’ordine di «occupare il ministero degli Interni». Lo stesso riferirà l’italianista Carlo Salinari. I due saranno però in grado solo di indicare il nome di chi era stato a fermarli: un alto dirigente del loro stesso partito, Edoardo D’Onofrio. E di aggiungere che in loro presenza D’Onofrio aveva sgridato Mario Mammuccari e Otello Nannuzzi per aver consentito che fossero date talune disposizioni «rivoluzionarie». Da chi? Non si sa.

Si sa invece che tra i donatori di sangue per Togliatti c’erano stati anche un parlamentare Dc, Angelo Perini, e un frate cappuccino. Il socialdemocratico Carlo Andreoni che il 13 luglio (ventiquattr’ore prima del colpo di pistola di Pallante) dal giornale del proprio partito aveva suggerito di «inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti ed i suoi complici» e di procedere in tal senso «non metaforicamente», viene costretto dal suo leader, Giuseppe Saragat, a dimettersi.


Qualche screzio si registra poi tra comunisti e socialisti (nonostante alcuni manifestanti feriti e uccisi in quei giorni di luglio del 1948 appartenessero al partito di Nenni). In un rapporto della federazione Pci di Novara si rileva che «i socialisti non accettarono di fare un manifesto del Fronte» e che, dopo la convocazione di una manifestazione «unitaria», «i rappresentanti del Psi facevano macchina indietro adducendo i motivi più risibili che confermavano, ancora una volta, la loro mancanza di coraggio fisico, il loro evidente opportunismo, la loro incoscienza politica».

Considerazioni simili si ritrovano anche in documenti della federazione comunista di Ravenna («i socialisti hanno marciato con noi, ma il contributo da essi portato nella lotta è stato minimo») e in quella di Catanzaro che definisce «grave» il comportamento dei seguaci di Nenni. Il quale così si giustificherà sul suo diario: «Battere la polizia di Scelba non sarebbe impossibile… Ma poi? È davanti a questo “poi” che le masse hanno arretrato, non davanti ai carri armati». L’8 agosto a Napoli il segretario del Psi Alberto Jacometti ribalta le accuse dei comunisti e dichiara che, proprio a causa del loro comportamento nelle ore successive al colpo di pistola di Pallante, il Fronte popolare poteva considerarsi «morto».

Al medico di fiducia, Mario Spallone, Togliatti — appena ripresa conoscenza — dà incarico di rassicurare il governo sulla indisponibilità del Pci ad avventure rivoluzionarie. Aristide Romano Malavolta, che all’epoca faceva parte della scorta del segretario comunista, così ricorda le ore immediatamente successive all’attentato: «Piombammo nella confusione, l’aria era quella dell’insurrezione vicina, ero pronto a indossare l’elmetto… Fu lui, Togliatti, dal suo letto in corsia, a fermarci tutti».

    Genova

A Torino, in quegli stessi frangenti, un gruppo di operai con a tracolla dei mitra «sten» entra nell’ufficio dell’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta e gli comunica che la fabbrica è occupata. Valletta reagisce dicendo loro di fare quello che credono, ma annuncia che quando tornerà la calma licenzierà gli eventuali occupanti. Da quel momento Valletta viene sequestrato nella sua stanza e qualche giorno dopo Negarville dovrà andare di persona a Torino (su un aereo messo a disposizione dalla Fiat) per ottenerne il rilascio. A Milano vengono occupate Breda, Motta e Pirelli. Eligio Trincheri della Volante Rossa racconterà che alla Bezzi alcuni agenti di polizia sono stati «totalmente disarmati» e «le armi sono sparite».

Busto Arsizio e a Varese sono devastate le sedi della Dc e — mettono in evidenza Avagliano e Palmieri — i manifestanti «assalgono gli stabilimenti carcerari per ottenere il rilascio di alcuni ex partigiani del luogo precedentemente arrestati perché trovati in possesso di armi». A Belluno, riferisce Peppino Zangrando, «alcuni ex partigiani della brigata Pisacane giunsero in città con una motocarrozzella, a bordo della quale trasportavano una mitragliera… Non fu facile convincerli a tornarsene a casa».

Ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata l’episodio più conosciuto: minatori in rivolta devastano le sedi della Dc, occupano la centrale telefonica e tranciano i cavi; si spara, vengono uccisi l’agente di polizia Giovambattista Carloni e il maresciallo Virgilio Raniero. A Livorno viene ammazzato l’agente Giorgio Lanzi («peraltro», fanno notare gli autori, «un ex partigiano»); in quella stessa città viene aggredito dai rivoltosi un pullman che trasportava un gruppo di suore. Sedi Dc vengono assalite anche a Siena, Pistoia, Pontassieve, Barletta e a Taranto, dove la polizia spara e uccide due giovani di sinistra. A Salerno vengono prese d’assalto le sedi dell’Azione cattolica e dei Volontari della Libertà. A Mirandola la canonica. A Piombino tocca alla caserma dei carabinieri. A Napoli in piazza Dante vengono uccisi due militanti comunisti ed è ferito Francesco De Martino (futuro segretario del Psi).

    Monte Amiata

Gli scontri tra manifestanti e poliziotti sono innumerevoli. A Roma il questore riferisce d’essersi trovato al cospetto di una «folla d’invasati» e di aver dato ordine di reagire «con decisione». Vengono colpite la deputata comunista Elettra Pollastrini (che reagisce atterrando con un pugno un agente) e Gina Martina Fanoli, che cerca invano di estrarre dalla borsa il tesserino da parlamentare. Qualche botta in testa la riceve anche il vicequestore Della Peruta, non riconosciuto da poliziotti ai quali lui stesso poche ore prima aveva raccomandato di usare il manganello «senza riguardi per nessuno». A Magliano Sabina vengono sequestrati e pestati (dai manifestanti) un maresciallo e un carabiniere, Minolfo Masci, accusati di essere «sgherri di Scelba, servi dello Stato, direttamente responsabili dell’attentato a Togliatti e della morte dei compagni caduti durante lo sciopero nelle varie città d’Italia». Il carabiniere morirà a seguito delle percosse.

A fatica il Pci riesce a far cessare gli scontri. Ma il 31 luglio a Bareggio, nella cintura milanese, viene lanciata una bomba a mano contro la statua della Madonna Pellegrina in processione. L’attentato provoca una trentina di feriti tra cui molti bambini. Vengono arrestati sei giovani, cinque dei quali iscritti al Pci (il sesto è un anarchico). «L’Unità» li condanna con toni duri. Il 29 novembre a Roma in via del Pigneto verrà aggredito il giovane dell’Azione cattolica Giulio Lalli, che morirà in ospedale. Il 16 luglio dell’anno successivo verrà arrestato il diciottenne Pietro Nicoletti, che confesserà di essere l’autore dell’aggressione. È iscritto al Pci.

Bilancio ufficiale: tra il 14 e il 16 luglio del 1948 restano sul terreno 16 morti, di cui 9 appartenenti alle forze dell’ordine. Più 204 feriti, di cui 120 agenti. In seguito, tra il luglio 1948 e la prima metà del 1950 si registreranno altri 62 lavoratori uccisi di cui 48 comunisti; 3.216 feriti, tra i quali 2.367 del Pci; 92.169 arrestati di cui 73.870 appartenenti al partito di Togliatti.

    Monte Amiata

Il leader comunista, pur avendo tenuto — nei giorni in cui fu ricoverato in ospedale — un atteggiamento esemplare, non si pacificò mai del tutto con l’accaduto. Rimproverò ai dirigenti del proprio partito di aver chiesto le dimissioni dell’intero governo guidato da De Gasperi e non esclusivamente quelle del ministro dell’Interno; quest’ultima, a suo dire, «sarebbe stata una richiesta non solo plausibile, ma anche accettabile», dal momento che l’ipotesi era stata prospettata persino dal titolare degli Esteri Carlo Sforza e dal suo giovane sottosegretario Aldo Moro. Si soffermò, Togliatti, sulle reazioni della polizia che ricordavano «i sistemi di rappresaglia dei nazifascisti».

E scrisse a Massimo Olivetti — fratello di Adriano, nonché vicepresidente dell’azienda di famiglia — che non avrebbe potuto partecipare ad un dibattito al quale era stato invitato, a causa i postumi delle ferite provocate da «un sicario di quella classe a cui Lei appartiene». Parole che, anche per essere state rivolte a un imprenditore certo non reazionario, testimoniavano la persistenza di un dubbio di Togliatti circa l’origine di quei colpi di pistola.


Il Corriere della seera – 23 gennaio 2018