Nel gennaio 1927 fa
veniva ultimato " L'aereo impazzito", il primo cartoon con
protagonista il più iconico e longevo personaggio Disney Le sue
trasformazioni raccontano la storia della piccola borghesia Usa.
Topolino nasce avventuriero, con il crollo di Wall Street risente
della crisi, nel Dopoguerra trova la sua vera identità: l'americano
medio che difende la proprietà privata e i valori americani.
Stefano Massini
Buon compleanno Mickey
Mouse l'eroe invecchiato come la middle class
L'apparecchio acustico
ben si nasconde in quei suoi orecchi grandi, inconfondibili. Gli
occhi sempre vividi, sebbene incorniciati da un solco di rughe.Eccolo
qua: nonno Mickey Mouse, giunto in questo inizio di 2018 al suo
novantesimo compleanno. Già, perché tanto è trascorso da quel
gennaio del 1928 in cui tecnicamente si ultimava il montaggio de
L'aereo impazzito, cortometraggio che segnò il debutto della star
Disney più amata e longeva (anche se fu il terzo cortometraggio,
Steamboat Willie, il primo ad andare nelle sale, nel novembre dello
stesso anno).
E dire che alla prima
proiezione ufficiale l'accoglienza fu tutto fuorché trionfale: i
distributori non si fecero incantare da quel topo scalmanato in veste
di aviatore alla Charles Lindbergh, appaiato fino dal debutto alla
sua girlfriend Minnie. Sarà forse perché Mickey Mouse nasceva come
una specie di "piano b", una carta di riserva
disperatamente giocata da Walt Disney e da Ub Iwerks dopo che
Universal gli aveva di fatto sottratto — asso della scuderia — il
fortunato coniglietto Oswald.
Quando si dice che da
ogni colpo occorre subito rialzarsi: i nemmeno trentenni Walt e Ub
non si persero d'animo, e tentarono il tutto per tutto osando la
versione cartoon di un fortuito topastro che Disney narrava d'aver
addomesticato nel suo studio di Kansas City. Detto fatto: il neonato
fu battezzato Mortimer Mouse, poi convertito in Mickey. Certo che
oggi commuove osservarne i primi vagiti: il Mickey Mouse immortalato
in quelle pellicole era uno scavezzacollo, un adolescente
adrenalinico in preda a un uragano d'ormoni, un gaucho di provincia
in perenne sete di brividi e di slanci. Era la giovinezza di questo
novantenne, viene da pensare.
Se non fosse che la vita
di Mickey Mouse è anche quella della borghesia occidentale che l'ha
eletto a proprio mito. E infatti quel topo esagitato degli esordi mi
pare il più brillante ritratto della frenesia degli anni '20 prima
della Grande Crisi: incurante di ogni limite, il nostro giovane divo
incarna la baldoria di un ceto medio senza freni, illuso
d'onnipotenza, ebbro di boati futuristi. Quel Mickey Mouse è in
fondo un D'Annunzio cartoon, che cavalca struzzi e ronzini, pilota
velivoli e battelli, si lancia in risse forsennate pur di
sbaciucchiare la sua pupa fra i marmi del Vittoriale.
Poi la frenata, brusca,
glaciale: il crack del 1929 si abbatte anche sul giovane Mickey come
una frustata. E infatti — proprio all'indomani del crollo di Wall
Street — ecco uscire nelle sale The Haunted house, in cui il nostro
paladino si addentra tremante in una mefitica magione infestata da un
sabba di scheletri agli ordini nientemeno che di Sua Maestà la
Morte. Come dire, insomma, che la borghesia americana scopriva d'un
tratto d'esser circondata da mostri inauditi, le cui fauci
reclamavano sangue umano. E la storia di Mickey Mouse negli anni a
venire conferma puntualmente la teoria, con un susseguirsi di
cortometraggi in cui i peggiori cataclismi sembrano abbattersi nel
microcosmo disneyano: incendi rovinosi minacciano i grattacieli e
pesanti macigni si staccano dalle montagne (fra i titoli non mancano
Gli orfani di Topolino e Topolino salta il pasto).
Egli si proponeva quindi
come un portavoce del dilaniato ceto medio degli anni Trenta, in un
processo di identificazione che culmina nel capolavoro Il piccolo
sarto coraggioso del 1938 (in gara alla Mostra del Cinema di
Venezia): ispirato a una favola dei Grimm, il film anticipava lo
scoppio del secondo conflitto mondiale, attraverso la metafora di un
Mickey Mouse mandato per errore a battersi contro un gigante-tiranno
che tiene sotto il giogo l'intera contea.
Stava per iniziare il
lungo tunnel della guerra, in cui l'unica salvezza per non demordere
era chiudere gli occhi e immaginarsi altrove. Anche casa Disney
recepì questo istinto di fuga, e ancora una volta ne incaricò in
pieno il suo storico alfiere facendone il protagonista di Fantasia. E
appena il mondo riaprì gli occhi, trovò di nuovo pronta
un'ulteriore trasformazione del topo, pronto a farsi aedo e simulacro
di ideali e riti del Dopoguerra.
Sarà che da tempo l'eroe
veniva disegnato in strisce quotidiane da quel Floyd Gottfredston che
ne fece sempre più un detective borghese in lotta contro il crimine,
certo, ma un crimine che minacciava più che altro portafogli e
proprietà privata di una middle class in rampa di lancio verso il
boom. Mickey Mouse è dunque adesso un guardiano del Bene collettivo,
laddove esso coincide con la quieta serenità di un Occidente
consumista, fiero dei propri status symbol come la villetta dotata di
tv e barbecue. In un'America che autorizza il possesso di armi da
fuoco, rappresenta l'ostinato bisogno di professarsi dalla parte
giusta, proteggendo nel proprio benessere più che una fonte di agio:
un sistema di valori.
Nato incendiario, Mickey
si scopre a mezza età pompiere: un autentico ribaltamento, o forse
uno di quei cambi di casacca tipici della vita di ciascuno, quando il
bilancino del compromesso ti fa mutare visuali e connotati. Almeno
così ci dice, oggi, davanti alla sua torta di compleanno, questo
arzillo novantenne. Rimpianti? Nessuno.
Anzi, forse l'ombra di un
solo dubbio: per decenni ha sgominato i fuorilegge di Topolinia,
terrorizzata dal perdere i suoi due tesori, reddito e sicurezza. Ma
era così giusto farne due baluardi? Chissà. Intanto un tizio
di nome Donald ci ha costruito sopra un trionfo elettorale. Ma questo
non è un cartoon, e quel Donald non è Donald Duck.
la Repubblica – 16
gennaio 2018