Un libro di Silvia
Cavicchioli, per Einaudi, ripercorre storia e mito di Anita
Garibaldi. . Una figura sospesa tra cliché romantici e stereotipi
risorgimentali.
Claudio Vercelli
Anita Garibaldi, un
corpo laico nel romanzo di una nazione
Se esiste un repertorio
memorabile di immagini, un caravanserraglio di raffigurazioni, un
catalogo amplissimo di miti, questo è senz’altro offerto dei
Risorgimenti ottocenteschi, intrecciati a doppio filo alle
sollevazioni borghesi e popolari del 1848. La nazione, intesa come
unione «sacra» e sovrana tra diversi, è di per se stessa il
prodotto recente di una complessa costruzione identitaria, dove si
intrecciano elementi che mischiano i fatti alle loro rielaborazioni
al limite del fantasioso.
Il punto non è però
l’interrogarsi sulla veridicità di certe ricostruzioni, oppure
sulla loro incongruità rispetto agli eventi storici, quanto sul
significato che la mitologizzazione del passato recente assume
rispetto alla costruzione di un legame politico. Anita Garibaldi è
una delle figure iconiche della prima grande stagione risorgimentale.
Probabilmente anche per la sua breve vita, che non superò i ventotto
anni, venendo a mancare durante la tumultuosa e rocambolesca fuga,
compiuta insieme a suo marito, da ciò che restava dell’esperienza
sovversiva, rivoluzionaria ed effimera della Repubblica romana nel
1849.
Fu lo stesso Garibaldi ad
adoperarsi nella promozione del martirologio, dopo avere dovuto
abbandonare la salma, malamente sepolta, della coniuge. Lo fece
seguendo due canoni, sospesi tra la tragedia e il melodramma: la
giovane donna grintosa e pugnace, devota alla causa quanto lo sapeva
essere al marito; la madre prodiga e dolente, vittima di un destino
che non aveva in alcun modo rifiutato ma che l’aveva soverchiata.
Nell’uno e nell’altro caso, il virtuosismo di Anita si incontrava
con un’idea di adamitica innocenza che avrebbe dovuto corroborare
la genuinità delle passioni che condivideva con il suo amato. Non il
corpo di Anita ma la sua trasfigurazione leggendaria e agiografica,
la sua laica unzione nell’olio del vitalismo garibaldino, era
peraltro un appetitoso bottino per una parte della politica in età
liberale e poi fascista.
A ricostruire la
traiettoria dell’immaginario otto-novecentesco sulla figura di Ana
Maria de Jesus Ribeiro da Silva, ci ha pensato Silvia Cavicchioli,
ricercatrice di storia contemporanea presso l’università di
Torino. Il suo volume dedicato ad Anita. Storia e mito di Anita
Garibaldi (Einaudi, pp. 286, euro 28) rende giustizia a una
figura letteralmente sospesa tra i cliché dell’appendice romantica
e gli stereotipi della mascolinità guerriera, senza che né gli né
gli altri siano mai stati sciolti per davvero nella dinamica
strettamente storica.
La Resistenza di
questi nodi della raffigurazione è giunta per più aspetti fino a
noi non per l’incongruenza dei resoconti bensì per la volontà di
mantenere Anita all’interno di una sfera mitografica, come tale
capace di autoalimentarsi. La sua figura, infatti, si inscrive a buon
diritto all’interno di due paradigmi della mobilitazione
collettiva: quello del movimento e quello dell’intensità.
Movimento come condizione di costante spostamento dell’asticella
degli obiettivi politici ma anche di esilio, del quale Anita fu
testimone, interprete e anche protagonista.
Intensità come costrutto
di passioni, laddove la politica non ha altro baricentro che non sia
quello dell’immedesimazione affettiva ed emotiva con un potente
stato di sentimenti. Senza queste due polarità, la canonizzazione di
Anita Garibaldi non avrebbe potuto proseguire.
L’idea di politica come sacrificio di sé, auto-immolazione, devozione ai limiti dell’irragionevolezza, era un altro paradigma fondamentale delle retoriche militanti, e in particolare di quelle democratiche, laddove erano intrise di continui rimandi alla nazione come a una costruzione integralmente romantica.
Afferma l'autrice: «si
trattava di abilitare dei processi di trasferimento di sacralità dal
piano religioso a quello politico, riproponendo risemantizzazioni già
evidenti durante il periodo rivoluzionario francese tese a sfruttare
la potenzialità emotiva e la forza aggregante delle liturgie
funebri, della venerazione laica delle reliquie patriottiche,
dell’esposizione delle spoglie civili portate come esempio di
sacrificio». Cavicchioli si muove con sicurezza e cognizione nella
dialettica tra ricostruzione dei fatti, canoni estetici e letterari,
costruzione e usi politici di un immaginario comune nell’Italia
soprattutto post-unitaria.
Già Alberto Maria Banti
e Carlotta Sorba avevano lavorato sulle dinamiche della costruzione
del «romanzo di una nazione», la componente di ethos mistico e
laico nel legame di reciprocità della cittadinanza. Al corpo della
nazione, qualcosa di molto incerto poiché assai poco unitario, si
offre come integrazione, ed in parte ideale connettivo, una nazione
che deve identificarsi nei corpi eroici, le «mortali spoglie» di
coloro che si immolarono nel suo nome. Il saggio ricompone quindi la
traiettoria di una donna spiritata e scarnificata, eretta a modello
quasi devozionale: un qualcosa che sembra ricordare le successive
vicende del corpo di Evita Peron.
Non è un caso, peraltro, che tali dinamiche si incrocino e si intersechino anche con l’età della musealizzazione del ricordo e della celebrazione dei caduti per la patria, a partire dai monumenti al milite ignoto. A rammentare che il fuoco dell’idea politica romantica spesso non è la vita bensì la morte.
Il Manifesto – 11
gennaio 2018