sabato 3 febbraio 2018

Creazione e anarchia



Nel suo ultimo libro Giorgio Agamben elabora i fondamenti di una sorta di archeologia filosofica che ricostruisce la genealogia dei rapporti fra cultura e potere.

Antonio Gnoli

L'enigma di Agamben tra logos e potere

Nel nuovo libro di Giorgio Agamben — Creazione e anarchia (edito da Neri Pozza) — troviamo questa frase: «Nella filosofia come nell'arte non possiamo concludere un'opera, possiamo solo abbandonarla». Qui "abbandono" crediamo va inteso come rinuncia a un potere concettuale, a una forma di dominio esclusivo che è poi quello che nel corso dei secoli ha tentato di imporre la filosofia. È possibile una tale forma di rinuncia? Lo è a patto che si riscoprano una serie di concetti che nella nostra storia hanno avuto un ruolo minore.

Termini come "povertà", "resistenza", "inoperosità", "debito" servono ad Agamben per forzare il dispositivo utilitarista e calcolante del pensiero contemporaneo. Da questo punto di vista, Creazione e anarchia ricorre costantemente all'interrogazione, pratica che la filosofia da Socrate in poi ha spesso adottato e che il '900 ha messo in crisi per l'incapacità (o impossibilità) di trovare un fondamento alle proprie risposte. Come conservare dunque la forza maieutica del domandare?

Le domande che Agamben formula nei suoi cinque saggi (Che cos'è un'opera d'arte? Che cos'è l'atto del creare? Che cos'è il contemporaneo? Che cos'è un comando? Che cos'è una religione, in particolare il cristianesimo, al tempo del capitalismo?) non esigono risposte definitive come quelle che cercavano Platone e Aristotele. Esse richiedono un diverso tipo di impegno che somiglia allo scavo archeologico.

«L'archeologia è la sola via d'accesso al presente», ci dice l'autore. Archeologia viene da arché e significa tanto "origine", "principio", quanto "comando", "ordine". La figura dell'arconte, nel mondo politico dell'antica Grecia, era quella di chi essendo primo era altresì investito del ruolo del comando. Ricostruendo la genealogia del comando, Agamben mostra come l'ontologia occidentale presenti fin dall'inizio un duplice volto. Da un lato, essa è logos, cioè discorso logico e assertivo; dall'altro, riflette la natura del comando. A quest'ultimo appartengono la religione e il diritto; mentre la filosofia ricorre soprattutto al logos. Se il logos è argomentazione persuasiva, cioè ragione, il comando si esprime nella potenza vera, cioè nella forza.

Ma fino a che punto è lecito che la potenza dispieghi interamente la sua forza? La teologia medievale provò a stabilire il significato da dare all'onnipotenza divina. L'assioma "Dio può fare tutto" conteneva un lato scandaloso, perché in quel tutto si celava anche la possibilità di mentire e di fare il male. Si giunse dunque alla conclusione che occorresse qualche dispositivo capace di imbrigliare il lato oscuro della forza.

La disputa fu molto accesa e la soluzione venne trovata nell'idea che Dio non può fare che ciò che ha deciso di fare. Anche l'onnipotenza divina doveva sottostare al principio di non contraddizione - cioè alla struttura del logos - se si voleva porre un limite al caos e alla ingovernabilità del mondo. La nascita della teologia politica ha qui una delle sue più chiare giustificazioni: come governare il mondo e al tempo stesso imbrigliare la potenza di chi ne detiene la forza?

Fu un interrogativo al quale la democrazia, da Montesquieu in poi, ha cercato una risposta convincente. Ma senza riuscirci o riuscendoci soltanto in parte. Mai come in questo momento, fa notare Agamben, l'ontologia del comando ha soppiantato l'ontologia del logos. È come se, per usare il linguaggio degli psicoanalisti ci sia il "ritorno del represso". Il discorso della forza che sembrava essere stato relegato a un uso secondario impone, dunque, i suoi "argomenti".

Religione, magia, diritto, conclude Agamben, respinti per lungo tempo nell'ombra, governano segretamente il funzionamento delle nostre società che si vogliono laiche e secolarizzate

La Repubblica – 4 gennaio 2018