Con
gli anni '80 inizia il riflusso. Negli anni '90 il crollo del muro di
Berlino e dell''esperienza sovietica del socialismo reale segna la
fine della guerra fredda, ma non dell'anticomunismo che in Italia con
Berlusconi gode di uno straordinario revival. In un momento politico
in cui i nostalgici di Salò entrano al governo, la Resistenza non
può che tornare nell'ombra. Fa eccezione nel 2000 Il partigiano Johnny, un grande film di paesaggio.
Il riflusso degli anni
'80 e il declino del cinema italiano
Nonostante la grande
fiammata del '77, la seconda metà degli anni Settanta è nel segno
del riflusso, della ritirata nel privato, in una dimensione
individuale e non più collettiva di cui anche la scelta delle armi,
con il suo avanguardismo esasperato e senza prospettive, è una
manifestazione. Sono gli anni del ripensamento, del tentativo di
inserire in modo organico anche gli anni della rivota nel flusso più
generale della storia d'Italia. Anche la rappresentazione della
Resistenza rientra in questo tentativo di rileggere la storia sul
lungo periodo. Ancora una volta è Bertolucci con “Novecento”
(1976) a cercare attraverso le vite parallele di un contadino e di un
padrone terriero un filo rosso nella storia d'Italia dall'inizio del
secolo all'avvento della Repubblica. Un lungo periodo in cui la
Resistenza trovi finalmente la sua collocazione.
A partire dalla seconda
metà degli anni Settanta inizia la china discendente del cinema
italiano. La televisione, soprattutto dopo il boom delle reti
private, fa una concorrenza spietata al cinema. Il videoregistratore
e le cassette portano i film in casa. Come negli anni '50 i
produttori tornano a privilegiare sempre di più film a basso costo e
di qualità scadente. E' il trionfo del western all'italiana,
dell'horror sanguinolento, di polizieschi fascistoidi come “La
polizia incrimina, la legge assolve”, “Il cittadino si ribella”,
“Milano odia, la polizia non può sparare”. La commedia
all'italiana diventa farsa erotica o cinepattone. Si aprono le prime
sale a luci rosse e la pornografia viene sdoganata. Sulle televisioni
private imperversano con ascolti stellari trasmissioni come “Colpo
grosso” totalmente incentrate sull'esibizione sempre più esplicita
e volgare del corpo femminile. La televisione diventa centrale nella
costruzione dell'immaginario collettivo. Lo stesso linguaggio
cinematografico cambia, adattandosi sempre più ai tempi frenetici
della narrazione televisiva.
Gli anni Ottanta segnano
anche l'avvio di un “revisionismo strisciante”che legge la
Resistenza come una parentesi buia, un succedersi di orrori e di
errori soprattutto a causa della presenza di un partito comunista che
si descrive interamente volto ad un piano eversivo. Inizia la
riabilitazione dei “giovani di Salò”. Con il pretesto
dell'omaggio ipocrita e retorico ai caduti, fascisti e antifascisti
sono assimilati. Sono i temi che renderanno Pansa un autore di
successo. Non è un fatto spontaneo e neppure innocente. L'eclisse
della prima Repubblica, segnata dalla stagione giudiziaria di “Mani
pulite” e dall'avvento dell'Italia berlusconiana porta questo
processo alle sue estreme conseguenze. Il crollo del muro di Berlino
e dell''esperienza sovietica del socialismo reale segna la fine della
guerra fredda, ma non dell'anticomunismo che in Italia con Berlusconi
gode di uno straordinario revival. In un momento politico in cui i
nostalgici di Salò entrano al governo, la Resistenza non può che
tornare nell'ombra.
Nel cinema resistenziale
degli anni '80 e '90 c'è tutto questo, a partire dagli echi della
lotta armata. Nel 1980 esce “Uomini e no” di Valerio Orsini,
trasposizione cinematografico del romanzo di Vittorini, incentrato
sulla guerra dei GAP e con un finale che ricorda Dante di Nanni (ma
anche Walter Alasia). Nel 1992 è la volta di “Gangsters” di
Massimo Guglielmi. Ambientato nella Genova dei primi mesi dopo la
Liberazione, il film racconta la tragica parabola di un gruppo di
partigiani comunisti (ex gappisti) che non hanno lasciato le armi e
si trasformano appunto in gangsters. Una riflessione sul sottile
discrimine che separa ideali politici e violenza fine a se stessa,
attualissima negli “anni di piombo”, ma non priva di ambiguità.
Come la sequenza finale che allude apertamente all'uccisione da parte
dei carabinieri di quattro brigatisti genovesi in via Fracchia, un
fatto la cui dinamica non fu mai chiarita a fondo.
La riflessione può
prendere però anche i toni della poesia e della pietas. E' il caso
dei fratelli Taviani con “La notte di San Lorenzo” (1982) dove
la dimensione della guerra civile è descritta in tutta la sua
ferocia, ma in una forma quasi onirica sostanziata da una profonda
compartecipazione al dolore e alla sofferenza di uomini e donne
travolti da avvenimenti più grandi di loro.
Gli anni '90 due film
rompono il silenzio ormai calato sulla Resistenza con due storie
entrambe ambientate nel Nord-Est. Nel 1997 Daniele Luchetti riprende
il romanzo (bellissimo, ma poco conosciuto) di Luigi Meneghello “I
piccoli maestri” per raccontare una storia di formazione antieroica
e antiretorica ambientato in un Veneto in cui la lotta partigiani ha
soprattutto i colori del Partito d'Azione e della Democrazia
Cristiana. Nello stesso anno Renzo Martinelli con “Porzus”
ricostruisce lo scontro fratricida fra garibaldini e partigiani non
comunisti nel contesto più complessivo del tentativo jugoslavo di
spostare il più possibile a ovest i confini. Racconto di un eccidio,
occultato per decenni (come la tragedia delle foibe), Porzus è un
tentativo civile di ristabilire la verità storica e allo stesso
tempo di esplicitare le contraddizioni di un'unità antifascista
spesso solo di facciata.
Negli anni 2000, quelli
del berlusconimo rampante e dello sdoganamento definitivo di Salò la
Resistenza sparisce dagli schermi. Fa eccezione, proprio all'inizio
del nuovo millennio, la trasposizione cinematografico del capolavoro
incompiuto di Beppe Fenoglio. Totalmente privo di intenti ideologici,
ma lucidissimo nella ricostruzione di luoghi e personaggi “Il
partigiano Johnny” di Guido Chiesa tenta con esiti felicissimi
l'operazione che pareva impossibile di tradurre sullo schermo un
testo così articolato e complesso. Un film di paesaggi, di silenzi,
un film che ha come protagonista la Langa. “Un film molto fisico –
ha scritto un critico - sul precario lavoro del partigiano, sul
faticoso e doloroso mestiere di sopravvivere sui monti con il suo
carico di pioggia, neve, fango, agguati, fughe, sangue, paura, dubbi,
spie, rappresaglie, solitudine. È forse il primo film che racconta
con coinvolgente efficacia che cosa fosse un rastrellamento e che
della guerra per bande espone la casualità”.
Poi più nulla, se si
eccettua “Una questione privata” dei fratelli Taviani (2017),
film inconcludente e sostanzialmente malriuscito dove la Resistenza
serve solo da sfondo. Uno sfondo sfuocato ben rappresentato
dall'incomprensibile ambientazione in una Val Maira smorta e anonima
invece che nelle langhe carne e sangue della narrativa fenogliana, ma
che bene si presta a simboleggiare la fine di una storia, quella
della Repubblica nata dalla Resistenza di cui il cinema, parlando
della guerra di Liberazione, ha in realtà raccontato il travaglio.
(Giorgio Amico, Da "Roma
città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza
nella filmografia italiana 6)