giovedì 13 settembre 2018

Platone e la memoria artificiale




L'uso a scuola di computer, tablet o smartphone aiuta nello studio o no? Una vecchia questione.

Giorgio Amico

Platone e la memoria artificiale

Come ogni anno a settembre giornali e televisioni si ricordano della scuola. Al tema evergreen del costo dei libri di testo, si aggiungono quest'anno il problema delle vaccinazioni e (a causa dello shock emotivo conseguente al crollo del ponte Morandi) quello della sicurezza dei locali scolastici spesso fatiscenti e privi della certificazione sulla sicurezza. Qualcuno si ricorda anche che la scuola è (o dovrebbe essere) luogo di apprendimento e allora l'inizio delle lezioni diventa occasione di riflessione sulla didattica. Il tema dominante da qualche anno è quello dell'uso in classe di computer, smartphone, tablet. Utili per alcuni, dannosi per altri. Il principale argomento di chi ne nega l'utilità è che questi apparecchi invoglino gli studenti alla pigrizia e provochino un calo delle capacità mnemoniche. Insomma, perchè studiare cose che senza alcuno sforzo sono recuperabili tramite la tastiera di un qualunque telefonino?

Sembra un dibattito legato alla modernità, impensabile anche solo pochi decenni fa, ma non è così. La questione in realtà è vecchia come il mondo, quello occidentale per lo meno. Vediamo come si poneva il problema nell'antica Grecia. Nel Fedro, composto probabilmente fra il 368 e il 363 a.C., Platone racconta il mito egiziano di Teuth, il dio civilizzatore inventore delle arti e della scrittura. Il progresso per l'umanità sembra gigantesco, ma non per tutti si tratta necessariamente di un progresso. Il re di tebe Thamus si permette di criticare l'opera del dio: incentiverà la pigrizia, sostiene il re, ora che le cose sono scritte, a portata di mano nei libri, perchè studiare e conservarne memoria? Ma vediamo il racconto di Platone:

“Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza».

Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti».

La somiglianza con il dibattito attuale è impressionante. I nuovi mezzi (oggi il tablet, allora la scrittura) sono nocivi perchè stimolano la pigrizia e riducono la capacità di memorizzare i dati appresi. In realtà la questione è più complessa. Platone è preoccupato dal fatto che il sapere scritto (il libro) finisca nelle mani “di chi non ha niente da spartire con esso”, di chi non ha strumenti per comprenderne il linguaggio e il significato. E' la preoccupazione dell'insegnante di oggi: soli davanti ad una tastiera, i ragazzi faticano ad orientarsi, a comprendere il senso autentico di ciò che leggono, a discernere il vero dal falso. Il risultato è una grande confusione e il prevalere di quelle che oggi si chiamano fake news, anche le più inverosimili. Per tornare al filosofo, quello che trovano i ragazzi sarebbe “l'apparenza e non la sostanza della sapienza”.

Anche in questo Platone si rivela nostro contemporaneo. Lasciati a se stessi, ammonisce, i più non sarebbero in grado di navigare nel mare delle conoscenze. Due le conseguenze negative: “un ingiusto disprezzo”, cioè il rifiuto di una cultura che non si riesce a comprendere, o “una vuota presunzione”, il delirio di onnipotenza di chi, pur non sapendo nulla, crede di conoscere tutto. Esaltazione dell'ignoranza e delirio di onnipotenza che vediamo dilagare attorno a noi attraverso l'uso compulsivo di Facebook o Twitter.

La soluzione? Per Platone come per gli insegnanti di oggi è una sola: la scuola. Il vero strumento di comunicazione del sapere ammonisce il filosofo è l'insegnamento diretto. Come una volta il libro, oggi il PC richiede questa necessaria mediazione, una sorta di apprendistato, in cui l'allievo si fornisca con l'aiuto dell'insegnante degli strumenti necessari alla navigazione, primo fra tutti il senso critico. E questo può scaturire solo “nel contesto dell'insegnamento”, insiste Platone, nel contesto della relazione interpersonale docente-allievo, della classe come ambiente comunicativo-relazionale, traduciamo noi nel linguaggio sociologico oggi di moda.

Impostato così, il problema dell'uso dei nuovi mezzi trova allora soluzione. La memoria artificiale del computer, come fu una volta per il libro, diventa strumento utilissimo, un mezzo, scrive Platone, “per aiutare la memoria di coloro che già sanno”. Di più e di meglio crediamo non si possa dire.