L'uso a scuola di computer, tablet o
smartphone aiuta nello studio o no? Una vecchia questione.
Giorgio Amico
Platone e la memoria artificiale
Come ogni anno a
settembre giornali e televisioni si ricordano della scuola. Al tema
evergreen del costo dei libri di testo, si aggiungono quest'anno il
problema delle vaccinazioni e (a causa dello shock emotivo
conseguente al crollo del ponte Morandi) quello della sicurezza dei
locali scolastici spesso fatiscenti e privi della certificazione
sulla sicurezza. Qualcuno si ricorda anche che la scuola è (o
dovrebbe essere) luogo di apprendimento e allora l'inizio delle
lezioni diventa occasione di riflessione sulla didattica. Il tema
dominante da qualche anno è quello dell'uso in classe di computer,
smartphone, tablet. Utili per alcuni, dannosi per altri. Il
principale argomento di chi ne nega l'utilità è che questi
apparecchi invoglino gli studenti alla pigrizia e provochino un calo
delle capacità mnemoniche. Insomma, perchè studiare cose che senza
alcuno sforzo sono recuperabili tramite la tastiera di un qualunque
telefonino?
Sembra un dibattito
legato alla modernità, impensabile anche solo pochi decenni fa, ma
non è così. La questione in realtà è vecchia come il mondo,
quello occidentale per lo meno. Vediamo come si poneva il problema
nell'antica Grecia. Nel Fedro, composto probabilmente fra il 368 e il
363 a.C., Platone racconta il mito egiziano di Teuth, il dio
civilizzatore inventore delle arti e della scrittura. Il progresso
per l'umanità sembra gigantesco, ma non per tutti si tratta
necessariamente di un progresso. Il re di tebe Thamus si permette di
criticare l'opera del dio: incentiverà la pigrizia, sostiene il re,
ora che le cose sono scritte, a portata di mano nei libri, perchè
studiare e conservarne memoria? Ma vediamo il racconto di Platone:
“Ho sentito dunque
raccontare che presso Naucrati, in Egitto, c'era uno degli antichi
dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il
nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri,
il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della
scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto
l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della
regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano
il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e
disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli
chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le
passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure
no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono
i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su
ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu
alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli
Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è
stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza».
Allora il re rispose:
«Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a
chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per
benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa
scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria,
produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza,
perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante
caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla
memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non
la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento,
crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e
la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di
opinione anziché sapienti».
La somiglianza con il
dibattito attuale è impressionante. I nuovi mezzi (oggi il tablet,
allora la scrittura) sono nocivi perchè stimolano la pigrizia e
riducono la capacità di memorizzare i dati appresi. In realtà la
questione è più complessa. Platone è preoccupato dal fatto che il
sapere scritto (il libro) finisca nelle mani “di chi non ha niente
da spartire con esso”, di chi non ha strumenti per comprenderne il
linguaggio e il significato. E' la preoccupazione dell'insegnante di
oggi: soli davanti ad una tastiera, i ragazzi faticano ad orientarsi,
a comprendere il senso autentico di ciò che leggono, a discernere il
vero dal falso. Il risultato è una grande confusione e il prevalere
di quelle che oggi si chiamano fake news, anche le più inverosimili.
Per tornare al filosofo, quello che trovano i ragazzi sarebbe
“l'apparenza e non la sostanza della sapienza”.
Anche in questo Platone
si rivela nostro contemporaneo. Lasciati a se stessi, ammonisce, i
più non sarebbero in grado di navigare nel mare delle conoscenze.
Due le conseguenze negative: “un ingiusto disprezzo”, cioè il
rifiuto di una cultura che non si riesce a comprendere, o “una
vuota presunzione”, il delirio di onnipotenza di chi, pur non
sapendo nulla, crede di conoscere tutto. Esaltazione dell'ignoranza e
delirio di onnipotenza che vediamo dilagare attorno a noi attraverso
l'uso compulsivo di Facebook o Twitter.
La soluzione? Per Platone
come per gli insegnanti di oggi è una sola: la scuola. Il vero
strumento di comunicazione del sapere ammonisce il filosofo è
l'insegnamento diretto. Come una volta il libro, oggi il PC richiede
questa necessaria mediazione, una sorta di apprendistato, in cui
l'allievo si fornisca con l'aiuto dell'insegnante degli strumenti
necessari alla navigazione, primo fra tutti il senso critico. E
questo può scaturire solo “nel contesto dell'insegnamento”,
insiste Platone, nel contesto della relazione interpersonale
docente-allievo, della classe come ambiente comunicativo-relazionale,
traduciamo noi nel linguaggio sociologico oggi di moda.
Impostato così, il
problema dell'uso dei nuovi mezzi trova allora soluzione. La memoria
artificiale del computer, come fu una volta per il libro, diventa
strumento utilissimo, un mezzo, scrive Platone, “per aiutare la
memoria di coloro che già sanno”. Di più e di meglio crediamo non
si possa dire.