giovedì 31 gennaio 2019

Stato e Nazione nel pensiero di François Fontan.





Etnismo di François Fontan


Giunge nelle librerie a vent’anni dalla traduzione italiana la riedizione di un classico del pensiero nazionalista di liberazione moderno, Ethnisme. L’opera del 1975 di François Fontan, nella traduzione di Antonio Rovera, era già stata pubblicata nel 1998 con il titolo Etnismo. Verso un nazionalismo umanista, con note di Jean-Louis Veyrac: oggi la casa editrice Insula/Papiros la inserisce, per gentile concessione dell’Associazione Lou Soulestrei, nella collana “Osservatorio” tra i saggi relativi alle nazioni e alle lingue che aspirano alla liberazione e alla ufficialità.

Il libro, curato da Diego Corràine e da Fredo Valla, con prefazione di Sergio Salvi, fa luce sulla distinzione fra stato e nazione, propone una classificazione sulle lingue e nazioni negate d'Europa e del mondo, fa la storia delle lotte di liberazione nazionale.



Ad arricchire e completare questa edizione del libro è presente una corposa serie di testimonianze dei principali attori della lotta occitanista ai tempi di Fontan nelle Valli Occitane in Italia: Vita di François Fontan di Dino Matteodo; «E i a lo solelh», un film su François Fontan di Diego Anghilante; Che cosa mi ha dato François Fontan di Dario Anghilante; Se un popolo vuole vivere deve saperselo meritare di Sergio Berardo.

E proprio questi testimoni della rinascita occitana saranno presenti venerdì 8 febbraio p.v. alla presentazione dell’opera, che si terrà alle ore 20.45 presso l’Istituto di Studi di Espaci Occitan a Dronero. In questa nuova edizione al libro di 154 pagine è allegato un DVD con il film-documentario del 1999 E i a lo solelh di Diego Anghilante e Fredo Valla, che verrà proiettato durante la serata per meglio comprendere la figura di uno dei padri dell’occitanismo nelle valli (63 minuti). L’ingresso alla serata e alla proiezione è gratuito.

La presentazione di Etnismo è un appuntamento di Libres libres - Libri liberi, rassegna che vedrà la presentazione di pubblicazioni legate al territorio occitano.

Info Espaci Occitan, Via Val Maira 19, 12025, Dronero, Tel. 0171.904075, segreteria@espaci-occitan.org Fb @museooccitano Tw @espacioccitan.


sabato 26 gennaio 2019

Pagine di storia dell'emigrazione in Valbormida



Pagine di storia dell'emigrazione in Valbormida

Giovedì 31 gennaio 2019, ore 16.30
Foyer del teatro Chebello - Palazzo di Città
Cairo Montenotte

Gli studenti dell’Istituto presentano i risultati di un biennale lavoro di ricerca negli archivi storici comunali e di analisi sui numeri, le cause e le conseguenze del fenomeno migratorio in Valbormida.
Giovedì 31 gennaio 2019, con inizio alle ore 16:30, nella Sala "De Mari" del Palazzo di Città di Cairo Montenotte l'Istituto “Patetta” organizza un convegno sul tema dell'emigrazione.

Intervengono Furio Ciciliot (presidente della Società Savonese di Storia Patria), Stefano Mallarini (storico dell'emigrazione e membro della stessa SSSP), Alberto Saròldi (Museo del Vetro di Altare, responsabile del Comitato per il gemellaggio Altare – San Carlos e autore di numerose pubblicazioni sulla storia dei vetrai altaresi in Sudamerica) e Francesco Surdich (docente e presiede emerito della Facoltà di storia e letteratura dell'Università degli Studi di Genova).

Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche



Di seguito la recensione apparsa su Il sole 24Ore.

Angelo Varni

I confini del fascismo (e antifascismo)



Pare inevitabile che nel dibattito pubblico del nostro Paese, ad ogni significativo passaggio delle vicende politiche, torni a presentarsi il tema del risorgere o meno del fascismo, individuato in una sorta di suo carsico serpeggiare nelle viscere della nostra società lungo i decenni successivi alla cupa fine del regime in camicia nera.

Trovarne le ragioni comporta affrontare la complessità del rapporto ancora irrisolto con le contraddizioni della storia italiana del ventennio tra i due conflitti mondiali fatte, ad un tempo, di repressione e di consenso, di avventurismo bellicoso e di ristrutturazione economica statalista e corporativa, di pacificazione sociale e di violenza eversiva. Con un ritorno, in tal modo, fuori contesto a queste diverse prospettive interpretative, di volta in volta riesumate nelle loro tonalità divergenti, utilizzate a sostenere strumentalmente le posizioni proposte dalle varie parti ideologiche e partitiche nelle contingenze del presente.

A simile modalità non poteva, dunque, sottrarsi l’odierno tempo di così profondi e, per tanti versi, inediti mutamenti nei rapporti tra “politica” e cittadini, di tensioni sociali esplose a seguito di una crisi economica in grado di mutare gli stessi tradizionali equilibri geopolitici, di una globalizzazione alle cui implicazioni dirompenti popoli ed individui non erano in alcun modo preparati, mentre l’“invasione” tecnologica trasforma giorno dopo giorno condizioni di lavoro, abitudini di vita, relazioni interpersonali.

Intende, dunque, proporsi per questo confronto sul riemergere, nella attuale realtà italiana, di comportamenti e di propositi ispirati dal fascismo, il lavoro di Alberto De Bernardi, dal titolo quanto mai esplicito nella sua finalità conoscitiva, di Fascismo e antifascismo.

E netta ed immediata è per l’autore - richiamandosi alla migliore lezione dei maestri sull’irreversibilità della storia - l’avversione all’utilizzo della definizione di fascista al di fuori dei suoi propri limiti temporali, evitando in tal modo di proporlo quale stereotipo rappresentativo di tutti i movimenti reazionari, oppressivi, illiberali, cui opporre un ugualmente indistinto antifascismo espressione di tutti gli aneliti di libertà, di emancipazione, di progresso civile. Così evitando ugualmente di ricorrere ad un uso evocativo e simbolico della storia, più scorciatoia politica dall’indubbia forza emotiva che leva di effettiva comprensione di un presente alla ricerca, invece, di aggiornati strumenti in grado di battersi con efficacia contro possibili nuove stagioni di oscurantismi e di autoritarismi.

Nessun dubbio nell’autore che l’attuale dilagante crisi degli Stati nazionali, soffocati nei loro tradizionali equilibri democratici e di tutela, ad un tempo, di libertà e sviluppo sociale dal prepotere dei mercati, ben poco abbia a che spartire con quanto accadde in Europa al termine della Prima guerra mondiale. Allora fu proprio lo Stato, reso invasivo dalle esigenze belliche, ad imporsi come ente totalizzante posto alla guida in modo organico delle comunità di individui privati di identità, destinate con la forza a perseguire gli obbiettivi indicati da nuovi gruppi dirigenti fortemente ideologizzati e politicizzati.

Uno Stato totale che fu fascismo, da un lato del continente e comunismo dall’altro, che De Bernardi segue passo passo fino all’oggi nel suo evolversi dettato dal fluire della storia, proponendo via via interpretazioni spesso stimolanti, anche se sovente destinate a suscitare dibattiti e dissensi, sempre però ispirate dal generoso assunto che occorra tenere fermo l’auspicio del realizzarsi di una democrazia inclusiva e partecipata, custode delle libertà individuali e collettive, non meno che attenta allo sviluppo e all’emancipazione sociali.


Fascismo e antifascismo.
Storia, memoria e culture politiche
Alberto De Bernardi
Donzelli, Roma, pagg. 168, € 17

Il Sole – 20 gennaio 2019

giovedì 24 gennaio 2019

Roma 2019. Quinto Punto della Situazione



SESTA GODANO 2014
LIVORNO 2015
PARIGI 2016
COSIO D’ARROSCIA 2017

ROMA 26 gennaio 2019
Quinto Punto della Situazione

sabato 19 gennaio 2019

Quando Bordiga mandò al diavolo i Servizi USA



Qualche mese dopo la morte di Bordiga nell'estate del 1970 Critica sociale, rivista socialista riformista, pubblica un ricordo del rivoluzionario napoletano. L'autore è l'italo-americano Vanni Montana, sindacalista e collaboratore dei servizi segreti americani. L'articolo è importante perchè  testimonia di come Bordiga rifiutasse sdegnosamente nel 1944 ogni contatto con i Servizi USA che intendevano utilizzarlo in funzione anti-togliattiana.


Vanni B. Montana

Ricordo di Amadeo Bordiga


Al ritorno da una breve vacanza, trovo la notizia che la morte ha colto, nella residenza di Formia, Amadeo Bordiga. Aveva 81 anni. Sicuro, Bordiga fu il vero fondatore del partito comunista in Italia, nel teatro San Marco di Livorno, febbraio del 1921. La gioventù socialista, nella schiacciante maggioranza, con in testa il suo vero figlio politico di quel tempo, Giuseppe Berti, lo seguì al canto dell'Internazionale e gli fornì il più entusiastico, direi fanatico sostegno.

Mi sono chiesto sovente, perchè Bordiga, uomo tutto di un pezzo, ingegnere che aveva «matematicizzato» il marxismo più ortodosso, negazione di ogni atteggiamento poetico, romantico, sentimentale, fosse riuscito, in quel tempo, a farsi seguire fanaticamente dalla gioventù socialista, diventata poi, in gran parte, comunista, del Partito Comunista d'Italia.

Forse la spiegazione la diede, a me curioso giovanetto, il Prof. Antonio Graziadei, rinomato marxista di quel tempo: «Bordiga ha il difetto di essere un uomo serio in un popolo ricco di buffoni e di ciarlatani»

Potrei aggiungere, forse, che la chiarezza matematica, e nel contempo massiccia e schiacciante, delle sue tesi, offrivano ai giovani le soluzioni semplicistiche e finalistiche da cui, per loro natura, erano più facilmente attratti.

Bordiga, superato l'astensionismo elettorale del periodo precedente al congresso di Livorno e che gli procurò le critiche di Lenin, ritenne che la rivoluzione non poteva che essere vicina, inevitabile, che il capitalismo italiano non sarebbe riuscito a cavarsela dai sommovimenti di quell'immediato dopoguerra, e che, data la favorevole situazione obbiettiva (la situazione definitivamente rivoluzionaria), per evitare che tutto finisse nel caos, nella fine della civiltà, occorreva approntare la condizione soggettiva, cioè la formazione immediata di un partito comunista, che rompesse con ogni forma di opportunismo politico e sindacale. I giovani erano abbagliati, e per un momento anche chi scrive ne subì un certo incanto.

Preso, tutto preso nel suo «matematicismo» marxista, Bordiga, con le sue Tesi al Secondo Congresso della Terza Internazionale, che fece sostenere da Umberto Terracini, allora suo fedelissimo seguace, sfidò Lenin e Zinoviev, e da quel momento i suoi contrasti con Mosca non si attenuarono, anzi aumentarono di asprezza. Mosca iniziò la manovra sotterranea volta a minargli la base, per corrompergli, non solo ideologicamente, uno dopo l'altro i più fidi collaboratori, fra cui il Berti, uomo e studioso preparatissimo, forse e senza forse più di Togliatti, e da costui perciò a poco a poco declassato in questo ultimo dopoguerra, nella gerarchia suprema del partito comunista italiano. Il partito aveva assunto questo nome dopo che nel congresso clandestino di Lione Bordiga era stato espulso (mi pare che egli allora fosse in carcere in Italia) e dopo che un gruppo di irriducibili bordighiani emigrati in Francia, fra cui il Prof. Michele Pappalardi, il veemente e coraggioso operaio metallurgico toscano Bibbi, ed altri erano stati violentemente aggredito e poi, secondo una loro accusa, denunciati dai nuovi gerarchi del partito alla polizia francese ed espulsi dalla Francia. In tal modo la riorganizzazione strutturale del partito ed il suo asservimento alla politica di Mosca potè continuare senza troppi disturbi bordighiani.

Indubbiamente, l'analisi fatta da Bordiga (ed anche, del resto, da Lenin) che il capitalismo non sarebbe riuscito a risollevarsi dalla crisi del 1921, era errata. Quando il Partito Comunista d'Italia venne fondato, creando la «condizione soggettiva» si era già entrati in una situazione controrivoluzionaria, che trovava la classe operaia italiana sulla difensiva, le sue camere del lavoro, leghe e cooperative, dirette da socialisti e non da comunisti, venivano distrutte col ferro e col fuoco, per cui la scissione di Livorno non trovò né giustificazione storica né successo politico.

Tutto preso nel suo puro matematicismo marxista, Bordiga, alla vigilia dell'ottobre 1922, proprio pochi giorni prima della marcia su Roma, dichiarava che il fascismo non avrebbe preso il potere, perchè il capitalismo gli ... preferiva la democrazia. Quando arrivò a Mosca la notizia che il re  aveva reso possibile il successo della marcia su Roma chiamando al governo Mussolini, Zinoviev cercò di prendersi la «rivincita ideologica» su Bordiga, definendolo «un poteau télégraphique» senza fili e aggiungendo: «Se non fossimo sicuri della sincerità di Bordiga, dovremmo pensare ad un suo tradimento».

Bordiga (al centro) nel primo dopoguerra

Un po' più tardi, Bordiga, nettamente sfidò Mosca, dichiarando che il Partito Comunista d'Italia non avrebbe mai rinunciato al suo diritto di manifestare le proprie vedute anche in dissenso con Mosca. Questo fu il principio della sua fine in quanto capo del partito.

In retrospettiva si potrebbe dire che se Bordiga non fosse finito in carcere e se il Partito Comunista d'Italia non fosse stato sciolto dalla dittatura mussoliniana, Mosca non sarebbe riuscita, come è riuscita poi, ad asservire il comunismo italiano alla sua politica. Il dissenso fra un partito comunista d'Italia, diretto da Bordiga, e il Cremlino sarebbe probabilmente aumentato fino alla rottura. D'accordo sono con coloro i quali dicono che in un certo senso Bordiga fu un precursore del dissenso maoista e del recente dissenso italiano del gruppo del «Manifesto».

Tutti i giornali italiani si occupano in questi giorni di Amadeo Bordiga, figlio napoletano di un alto funzionario piemontese e di una contessa Amidei che volle battezzarlo appunto col nome di Amadeo e non Amedeo come tanti scrivono credendolo più corretto.. Certo Bordiga, figura di assoluta integrità, per ripetere quel che una volta mi disse Graziadei, resta nella storia del comunismo italiano col ... difetto dell' «uomo serio fra tanti buffoni e ciarlatani».

Nell'agosto del 1944, trovandomi a Roma con Antonini poco dopo l'ingresso degli americani - la città era al buio, affamata - una curiosità suscitata dai ricordi giovanili mi fece cercare Amadeo Bordiga.

Un giovane socialista di gran nome, mi disse: «Vuoi vederlo? Te lo faccio vedere». E così lo incontrai. Era rimasto lo stesso del 1921, però con l'aspetto fisico molto meno teso di allora. Non volle nessun aiuto, neanche un caffè. Si ricordava di me, di un articolo che verso il 1921 avevo scritto sull'occupazione, da me capeggiata, del feudo Zafferana nelle vicinanze di Mazara del Vallo in Sicilia. La moglie, Ortensia, della famiglia di Corso Bovio, era sofferente; me lo disse una sua sorella ed a questa, sperando che raggiungesse Ortensia, diedi un po' di quel che Sheba Strunsky, dell'International Rescue Committee, mi aveva consegnato per aiutare qualche bisognoso.


Critica Sociale n. 16-17, 5 settembre 1970



Nota

Giovanni Buscemi nacque a Mazara del Vallo in provincia di Trapani il 12 febbraio del 1902; aderì giovanissimo al PSI e poi, dalla fondazione, al P.C.d'I.; divenne, dopo un arresto nel 1923, confidente della polizia fascista. Alla fine degli anni venti emigrò negli Stati Uniti dove assunse il nome di Vanni B. Montana; successivamente divenne un importante dirigente dei sindacati americani. Intervenne costantemente nelle vicende politiche italiane dalla scissione sindacale del 1948 a tutti gli anni Sessanta. Figura chiave della politica anticomunista svolta in Italia dal Dipartimento di Stato e dai Servizi USA. Morirà a New York il 3 novembre 1991.
Sulla figura di Vanni B. Montana un interessante saggio di Angela Torelli : "La doppia vita di un antifascista italo-americano. Vanni Montana da informatore della polizia italiana ad agente dell'OSS" (in: Nuova storia contemporanea, n. 1, 2004, pp. 81-94).
Nell'articolo  è presente un evidente errore: Bordiga non fu espulso dal partito nel 1926 ma nel 1930.

(In ricordo di Sandro Saggioro e di Avanti Barbari!)

venerdì 18 gennaio 2019

Quando Picasso dipinse l'orrore. Guernica



Pensata per il padiglione della Repubblica spagnola all'Expo Universale di Parigi del 1937, l'opera di Picasso è diventata il simbolo della resistenza alla violenza cieca del fascismo e agli orrori della guerra.

Giorgio Amico

Guernica

Il 26 aprile 1937 una squadriglia di 24 aerei (21 tedeschi e tre italiani) rade al suolo la città di Guernica che non è un obiettivo militare, ma rappresenta la capitale storica del popolo basco e dunque il cuore della resistenza all'oppressione e al fascismo. E' il primo bombardamento sistematico di un obiettivo civile e inaugura un nuovo tipo di guerra, che i nazisti applicheranno poi su larga scala due anni più tardi sulle città inglesi, mirante a terrorizzare la popolazione civile, a spezzare la volontà di resistenza di un popolo con l'annientamento pianificato minuziosamente di chi si oppone.

Le foto di Guernica distrutta fanno il giro del mondo. Pablo Picasso, che vive a Parigi, ne è immediatamente informato dalla sua compagna Dora Maar. E' lei a spingerlo a fare qualcosa, perchè qualcosa si deve fare, non si può rimanere inerti a guardare ciò che il fascismo fa in terra di Spagna.


“Il segreto di Guernica è una donna. - scrive una giornalista ricostruendo quell'episodio - C'era lei, quei giorni. è scesa lei in strada il pomeriggio del primo maggio del '37 a comprare Ce soir. Ha visto lei per prima, salendo fino all' ultimo piano le scale dell' atelier di rue des Grands Agustins, la foto in bianco e nero di prima pagina: «Immagine della città di Guernica in fiamme». è lei che gli ha detto: «Guarda». Lui stava conversando con un amico, lei si è avvicinata, ha messo tra i due il giornale e ha detto solo questo: guarda”.

La risposta di Picasso sarà Guernica, la grande tela che denuncia gli orrori e la ferocia della guerra di Spagna. Fin da subito l'artista è consapevole della portata politica del suo lavoro:

"La guerra di Spagna – dichiarerà - è la battaglia della reazione contro il popolo, contro la libertà. Tutta la mia vita è stata una lotta continua contro la reazione e la morte dell'arte. In Guernica, e in tutte le mie opere recenti esprimo chiaramente il mio odio per la casta militare che ha fatto naufragare la Spagna in un oceano di dolore e di morte".

In quegli stessi giorni si apre a Parigi la grande esposizione universale che vede la partecipazione dei principali paesi del mondo. Sono gli anni del Fronte Popolare e l'Expo diventa immediatamente occasione di contrasto politico. La destra vede nell'esposizione il segno della propaganda “giudaico-massonica”. Nel suo libello antisemita Bagattelle per un massacro Céline la definisce “La grande giuderia 1937” e aggiunge: “Tutti quelli che espongono sono ebrei. Tutto quello che comanda, che dirige, che ordina, architetti, grandi ingegneri, direttori, incaricati, tutti ebrei, o mezzi ebrei, o peggio andare massoni. Occorre che la Francia intera venga ad ammirare il genio ebraico. Occorre che la Francia intera si eserciti a morire per gli ebrei”.


Ed in effetti l'Expo del 1937 diventa una grande vetrina propagandistica, ma per i regimi totalitari. All'ingresso due grandi padiglioni si contrappongono l'uno all'altro a segnare anche visivamente il contrasto fra due ideologie e due potenze: quello tedesco costruito da Albert Speer e quello sovietico. Entrambi nel segno del gigantismo marziale, segno della potenza dei regimi nazista e staliniano, ideologicamente opposti, ma esteticamente identici.

Proprio nell’anno 1937 sia la Germania nazista che l’Unione Sovietica di Stalin avevano intensificato la repressione nei confronti dell’arte «decadente». A Monaco i nazisti allestirono quella che sarcasticamente è stata definita la più bella mostra di arte contemporanea e che Goebbels decise di battezzare come Mostra dell’arte degenerata : oltre 650 opere confiscate, da Otto Dix a Paul Klee, da Kandinskij a Piet Mondrian, da Oskar Kokoschka a Max Ernst, allo stesso Picasso, espressione dello spirito «ebraico», «prodotto di menti malate» e antitedesco. Sempre nel 1937 Stalin metteva al bando, come antisovietico e antipopolare l’astrattismo di Kandinskij.

Anche la Spagna partecipa all'Expo trasformando il suo padiglione in una denuncia dei crimini del fascismo. Max Aub, che ne è il curatore, chiama due artisti ad affrescarlo. Sono Mirò e Picasso, entrambi catalani, entrambi antifascisti convinti.

Joan Mirò crea un grande murales di cinque metri per quattro composto di sei pannelli e rappresentante un mietitore radicato nella terra come un albero che in una mano impugna una falce e alza l'altra verso il cielo ad accarezzare una stella. Un'opera visionaria e bellissima di cui rimangono solo le foto scattate allora perchè non se ne trovano più tracce dopo la chiusura dell'Expo e lo smantellamento dei padiglioni.


El segador (il mietitore) incarna il sogno di una Spagna che lotta accanitamente per la libertà e per un avvenire che sia fatto di pane (il grano mietuto), ma anche di rose: l'arte, la cultura, la bellezza a disposizione del popolo (la stella). L'opera si richiama anche direttamente all'indipendentismo catalano perchè Els segadors (I mietitori) è anche il titolo dell'inno nazionale catalano che riprende un antico canto popolare nato in occasione della grande rivolta antispagnola dei contadini catalani del 1622.

Diversa l'impostazione di Picasso. Guernica, che dipingerà in pochissimi giorni (l'inaugurazione del padiglione sarà il 25 maggio), vuole essere un grido di denuncia della guerra, una luce che si accende e rivela la brutalità e l'orrore dell'aggressione fascista alla democrazia spagnola. Picasso pensa l'opera, che prende una intera parete del piano terra del padiglione, come una sorta di sacra rappresentazione, strutturata secondo i canoni dell'arte sacra medievale, come un polittico composto di tre fasce verticali, due laterali più strette, simmetriche, contenenti a sinistra il toro ( simbolo di violenza e bestialità) e a destra un uomo in una casa in fiamme che tende le mani al cielo rappresentato in un urlo senza voce. Le due parti estreme fanno da quinta a quella centrale, più larga, ove è ammassato il maggior numero di personaggi, qui la composizione si organizza su una struttura “a frontone” ispirato ai templi greci che converge verso la lampada a esplicitare lo scopo dell'opera: fare luce sull'orrore.

All’estrema sinistra una madre lancia al cielo il suo grido straziante mentre stringe fra le mani il cadavere del figlio. Picasso lo definirà un riferimento esplicito alla pietà di Michelangelo. Al vertice un cavallo ferito, simbolo del popolo spagnolo, nitrisce dolorosamente protendendo verso l’alto una lingua aguzza come una scheggia di vetro. Sopra di lui una lampada che illumina la scena e rende evidente ciò che sta accadendo. Da una finestra una figura femminile sporge una lampada. E' un omaggio e una dedica a Dora Maar che per prima ha aperto gli occhi del pittore sull'orrore di Guernica e ad insistere perchè si prendesse posizione. Ovunque sono morte e distruzione, sottolineate da un disegno duro e quasi tagliente. All’angolo inferiore destro una donna in ginocchio tende le braccia al cielo. Al suolo, tra le macerie, si assiste all’orrore dei cadaveri straziati.


Esattamente al centro del dipinto una mano serra ancora una spada spezzata, da cui germoglia un fiore: è l'unico segno di speranza, ma da il senso profondo dell'opera. Occorre far luce sull'orrore, squarciare le tenebre che coprono la violenza e la vogliono rendere invisibile e impunita. Solo così può risorgere dalle rovine e dalla morte il fiore della libertà e della pace. Questo è il compito dell'artista: fare luce, rappresentare l'indicibile, lasciare aperta una via alla speranza.

“Io – affermerà anni più tardi Picasso - non ho mai considerato la pittura come un’arte di puro piacere, di distrazione. Io ho voluto con il disegno e col colore, dato che sono le mie armi, penetrare sempre più nella coscienza degli uomini e del mondo, affinché questa coscienza ci liberi ogni giorno di più”.

mercoledì 16 gennaio 2019

Cesare Battisti. Un'occasione mancata



L'arresto e poi l'arrivo in Italia di Cesare Battisti, esibito dal governo come un trofeo di caccia, ha scatenato sui media una canea di reazioni scomposte, insulti e volgarità che testimoniano per l'ennesima volta il livello di imbarbarimento raggiunto da questo paese, l'odio diffuso, la voglia di giustizia sommaria, l'analfabetismo di massa. Poteva essere l'occasione per una riflessione su un periodo tragico della nostra storia, per un bilancio storico e politico di ciò che accadde. Si è preferito ancora una volta parlare alla pancia della gente. Lo hanno fatto i giornali che invece hanno sbattuto il mostro in prima pagina, lo ha fatto il governo che ha cercato di fare cassa sull'evento, lo hanno fatto migliaia di idioti che non hanno perso occasione di esibire il loro analfabetismo sui social. Quanto a noi, pensiamo che la lotta armata da tempo non sia più affare della politica, ma materia di indagine per gli storici, che quella guerra civile a bassa intensità sia finita da più di trent'anni, che si debba una volta per tutte elaborare il lutto per ciò che di tragico accadde allora e finalmente voltare pagina. Il testo che proponiamo, un'intervista a Renato Curcio del 1993, dimostra che già molto tempo fa questa opera di superamento poteva essere fatta. Per chi (personaggio pubblico o semplice cittadino) lincia in piazza il nemico catturato solo disprezzo. A loro si addice la frase di un cattivo maestro: Lasciamo che i morti seppelliscano i morti”.

Antonio Gnoli

C' eravamo tanto armati

Dal fondo della disperazione, del silenzio, della sconfitta a lungo rimeditata dietro le sbarre del carcere, Renato Curcio sembra riaffiorato a una nuova vita civile. Da circa sei mesi è sottoposto a un regime di semilibertà. Orari da caserma: esce da Rebibbia alle sette del mattino; dalle otto e trenta alle diciannove e trenta lavora nella cooperativa editoriale da lui fondata e diretta. Ha il vincolo di farsi trovare in casa editrice, da dove può assentarsi solo per il pranzo. Alle ventuno e trenta ha l' obbligo di rientrare in carcere. Vado a trovare Curcio nella sede di Sensibili alle foglie, è il nome che ha scelto per la sua casa editrice. L' appartamentino, piuttosto anonimo, è al terzo piano di un palazzo sito nel cuore di Testaccio, un antico e glorioso quartiere romano. L' ex brigatista è schietto, gentile, fisicamente non diverso da come appare in fotografia: occhi grandi e malinconici, barba rada e bianca, il naso pronunciato. Ha ripreso a fumare. Lo fa con discrezione. Dalla piazza sottostante si alzano le voci e un odore di pane appena cotto. Testaccio è anche questo: un mondo in un mondo più grande, un paese in una città che ha conservato le sue regole, i suoi volti, il suo dialetto. E' un' autenticità senza mistero. Qui Curcio ha ricominciato a vivere. Sono da lui per farmi raccontare di una nuova iniziativa editoriale. Con un ristretto gruppo di lavoro, i cui componenti hanno quasi tutti fatto l' esperienza del carcere, ha condotto una ricerca sulla lotta armata in Italia. Vent' anni di terrorismo, 1969-1989, infilati in un racconto sociologico, fitto di date, cifre, grafici, che Sensibili alle foglie pubblicherà prossimamente. Dice:

"Mi sono reso conto che attorno a questa esperienza della lotta armata c' era un gran parlare legato alle esigenze di cronaca, ai processi ancora in corso, ai personaggi di questa vicenda. Noi stessi che quella esperienza abbiamo vissuto faticavamo a riconoscerne i contorni. L' idea allora è stata di riesaminare tutti i processi dal ' 69 all' 89 fatti con l' imputazione di banda armata o di associazione sovversiva. Abbiamo esaminato gli elenchi nominali degli imputati di primo, secondo e terzo grado; abbiamo ricostruito la loro storia essenziale: data e luogo di nascita, studio o lavoro svolti al momento dell' inquisizione, l' anno di inquisizione, l' organizzazione per cui sono stati inquisiti, città di inquisizione. Questo materiale ci ha offerto la possibilità di fare una serie di elaborazioni molto interessanti. Anzitutto stabilire quante persone sono state inquisite per banda armata nel corso di vent' anni".

Seimila inquisiti A quanto ammonta il numero di inquisiti?

"La rilevazione è arrivata a circa cinquemila persone. Con gli ultimi processi, che stiamo raccogliendo, il calcolo definitivo dovrebbe essere intorno alle seimila persone. Abbiamo ulteriormente scomposto questo quadro per famiglie e organizzazioni inquisite".

Famiglie?

"Sì, nel senso che le organizzazioni inquisite sono circa centoventi, anche se spesso formate da gruppi molto piccoli di venti o trenta persone. Molti di questi gruppi discendevano da famiglie più grandi. L' area Br ad esempio ha subito a un certo punto vari processi di scissione, Prima Linea ha dato origine a differenti formazioni. C' era poi la famiglia anarco-comunista la cui organizzazione principale è stata Azione Rivoluzionaria. Un' altra famiglia è quella che ha preceduto anche le Br ed era formata dai Gap Feltrinelli e dalla 22 Ottobre, due organizzazioni che fra il ' 69 e la morte di Feltrinelli hanno funzionato da cerniera tra la vecchia cultura resistenziale e le nuove forme di lotta. Infine c' è la famiglia dell' Autonomia le cui organizzazioni pur non avendo fatto scelte forti di lotta armata, sono state inquisite per fenomeni laterali. E' stato molto interessante vedere le differenze di studi, di età, di lavoro fra un' organizzazione e un' altra. E su questo si è chiusa la prima parte del lavoro.

"La seconda parte della ricerca è stata dedicata alla descrizione delle organizzazioni: la loro data di nascita, i loro antecedenti culturali,l' area e il luogo di provenienza, le iniziative che ne hanno caratterizzato la vita, i personaggi salienti, i convegni interni, le regioni in cui ciascuna ha operato, la documentazione che hanno prodotto, la bibliografia esistente. "Infine c' è la terza e ultima sezione che riguarda sia le persone morte che appartenevano a queste organizzazioni sia quelle morte a causa di esse. Di ciascuna di queste persone abbiamo dato un profilo sintetico: una rapida biografia e una descrizione di testimonianze e documentari dell' evento in cui esse hanno trovato la morte".

Immagino avrete fatto un calcolo definitivo dei morti per mano dei terroristi.

"Sono centoventotto morti. Fra questi c' è anche una donna. Sono vittime su cui vi è una certezza documentaria sia perché sono state rivendicate da un' organizzazione e sia anche perché su di esse c' è stato un pronunciamento definitivo della magistratura"

Vuol dire che esistono delle morti incerte?

"Ci sono ventuno persone che sono molto probabilmente cadute sotto i colpi della lotta armata ma rispetto alle quali l' attività giudiziaria non è ancora giunta a definire con esatezza un colpevole".

Nel caso del commissario Calabresi, ad esempio, come vi siete comportati?

"Abbiamo inserito la sua morte fra gli incerti, cioè fra quelle persone che verosimilmente sono morte nel contesto di questo fenomeno, ma rispetto alle quali non è stato possibile in modo definitivo e con chiarezza attribuirle a una precisa responsabilità".

La morte della Cagol E dell' area armata?

"I morti sono stati sessantadue, fra cui sei donne".

Dietro queste aride cifre si nasconde un dolore immenso provocato alle persone che hanno visto improvvisamente spezzata la vita dei loro cari, dei loro amici. Lei Curcio che cosa ha provato, che cosa prova, di fronte a questo evento?

"La morte ci lega all' esperienza del tragico. Per quanto mi riguarda l' ho vissuta forse in modo contraddittorio. Pensavo, allora, per quanto tragico fosse l' incontro con essa, andasse per così dire riassorbito nell' idea del mutamento. Fosse cioè un prezzo che si potesse pagare in nome del cambiamento sociale. La verità è che io ho incontrato la morte il giorno in cui è morta mia moglie Margherita".

Che anno era?

"Era il 5 giugno del 1975. Quell' esperienza esistenziale mi fece accorgere che non c' era prezzo che valesse la sofferenza che un tale incontro ti procura. Ma poi dicevo:è capitato a me, ma poteva capitare ad altri. Era una forma di razionalizzazione, di difesa. Ho meditato a lungo su questa esperienza".

Per giungere a quali conclusioni?

"L' incontro con la morte ridetermina sul piano del valore ogni atto della tua vita. Vorrei portare un esempio. Il mese scorso per un incidente ho rischiato di perdere per i successivi tre anni lo stato di semilibertà. Il mese in cui sono stato nuovamente rinchiuso per me è equivalso a una esperienza di morte di fronte alla quale c' era il mio nuovo lavoro, le persone che incontro, gli affetti dati e ricevuti, insomma la vita. E allora non ho potuto non ripensare ai cinque mesi vissuti in semilibertà con uno sguardo nuovo, distinguendo quello che è stato veramente importante da ciò che in fondo era trascurabile".

Questa vostra ricerca che vi apprestate a pubblicare l' avete chiamata "Progetto memoria". Si tratta di un resoconto impietoso e freddo di quei lunghi e atroci vent' anni,che lei in parte ha vissuto fuori e molto in carcere. Vent' anni finiti per voi, per lei, in una sconfitta. Mi chiedo se nella riflessione che farete, se in questo appello alla memoria ci sarà spazio anche per questo.

"Credo non sarà facile elaborare una riflessione sulla sconfitta che non è stata solo quella di un' organizzazione, o di una esperienza, ma è tipica di una cultura. Dico questo senza la pretesa di voler sminuire le mie responsabilità. Ma sono convinto che sia giunto a compimento una cultura del Novecento, che ha avuto antecedenti storici lontani e che in qualche modo è stata presente nel fenomeno della lotta armata. Ecco,quella culturà lì oggi non c' è più, è morta".

Sia più preciso, a quale cultura lei si riferisce?

"A quella linea che è nata con la rivoluzione bolscevica e che ha avuto al suo interno vari sviluppi. La mia generazione politica è cresciuta con l' idea del comunismo come rivoluzione. Che poi interpretasse bene o male questo pensiero fa parte di una certa storia interna al movimento. Ma ci tengo a dire che l' elaborazione di una sconfitta è un fenomeno che chiama in causa uno sguardo molto più profondo di quello che ha utilizzato per esempio la sinistra rivoluzionaria. Il dibattito, poniamo, che le Br e Potere Operaio avviarono in quegli anni sul fatto se in Italia si vivesse una fase insurrezionale o di guerriglia, è stato letteralmente spazzato via. Leggere quegli anni, venirne a capo, significa andare oltre quelle circostanze specifiche, significa ripensare l' idea stessa di mutamento sociale".

Che cosa vuol dire per lei oggi il mutamento sociale,la trasformazione?

"E' qualcosa che sta dentro il mio lavoro. Negli ultimi anni ho fatto una scelta ben definita: ho preso atto della sconfitta politica e al contempo di una sconfitta molto più grande che riguarda gli apparati culturali che erano dietro certe scelte politiche. Per questo la mia è stata una scelta di discontinuità con il passato".

Una rottura per collocarsi dove?

"Per collocarmi nell' ambiente che conosco meglio e che riguarda parte della società reclusa. Che vuol dire non solo il carcere, ma anche quella esperienza della reclusione che nasce dal manicomio, dalla malattia, dall' afflizione. E' un mondo fatto di gente che ho frequentato per molti anni, soprattutto epistolarmente, e del quale ho seguito la storia. Se avrò qualcosa di nuovo da dire, sarà a partire da qui".

Lei insomma non immagina più per sé un futuro politico?

"Sono passati troppi anni da che sono stato tagliato fuori dalla politica. Oltretutto ne sono uscito perché quando all' interno di un certo contesto sei stato sconfitto, non puoi far finta di niente e passare ad un altro contesto politico. C' è chi lo fa. Non io. Prendo atto di quella esperienza su cui posso dire ancora delle cose. Però mi sento ancora una persona viva. E nella vita uno non può solo conoscere la sconfitta, ma deve cercare percorsi nuovi per andare avanti. Mettere in piedi questa cooperativa editoriale per me è stata una sfida. I nostri libri affrontano i problemi della reclusione, dell' handicap, dell' aids, dell' immigrazione. Ecco, oggi rifletto su questi mutamenti che avvengono nella società italiana in modo meno politico, meno globale, ma non per questo meno impegnativo"

Nella vostra ricerca non avete preso in considerazione il terrorismo di destra.Perché?

"Fondamentalmente per una ragione economica. Dal punto di vista del reperimento delle fonti non ci sarebbero stati problemi".

Che entità ha avuto il fenomeno del terrorismo di destra rispetto a quello di sinistra?

"Direi millecinquecento persone inquisite rispetto alle seimila della sinistra".

All' inizio di questa intervista lei Curcio mi aveva pregato di non chiederle nulla che riguardasse le recenti vicende sul caso Moro, le dichiarazioni della Faranda su chi ha sparato. Rispetto il suo desiderio. Ma può almeno dirci perché non intende parlarne?

"Perché non ho niente da dire, perché non sono stato parte in causa, se non per quel disegno simbolico di appartenenza alle Br. E poi non mi sento come quei grilli parlanti autorizzati a discettare di qualunque cosa. Sono una persona che ha pagato il suo debito con la società. Sono una persona reale, vivente che lavora per guadagnarsi la vita".

La Repubblica – 9 novembre 1993

giovedì 10 gennaio 2019

Le donne liguri. Storia di uno stereotipo etnico



I Greci guardarono con una certa ammirazione agli antichi Liguri e in particolare alla forza di carattere delle donne. Ma non tutto è così semplice come sembra.

Giorgio Amico

Le donne liguri. Storia di uno stereotipo etnico

I testi classici forniscono elementi sufficienti per connotare fisicamente e caratterialmente gli antichi Liguri. Diodoro Siculo descrive una razza di individui

"tenaci e rudi, piccoli di statura, asciutti, nervosi... Costoro abitano una terra sassosa e del tutto sterile e trascorrono un'esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le vessazioni sostenuti nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta di alberi, alcuni di costoro per l'intera giornata, abbattono gli alberi, forniti di scuri affilati e pesanti, altri, avendo avuto l'incarico di lavorare la terra, non fanno altro che estrarre pietre... A causa del continuo lavoro fisico e della scarsezza di cibo, si mantengono nel corpo forti e vigorosi. In queste fatiche hanno le donne come aiuto, abituate a lavorare nel medesimo modo degli uomini. Vivendo di conseguenza sulle montagne coperte di neve ed essendo soliti affrontare dislivelli incredibili sono forti e muscolosi nei corpi... Trascorrono la notte nei campi, raramente in qualche semplice podere o capanna, più spesso in cavità della roccia o in caverne naturali... Generalmente le donne di questi luoghi sono forti come gli uomini e questi come le belve... essi sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle condizioni della vita non scevre di pericolo"

Diodoro Siculo, vissuto probabilmente fra il 90 e il 27 aC, raccoglie e sistematizza quanto scritto da almeno cinque secoli, a partire dalla fondazione di Massalia (Marsiglia) e dunque dai primi contatti stabili fra Greci e Liguri. Il testo riportato testimonia di come i Greci guardino ai Liguri con una evidente ammirazione, mista a un certo stupore per la condizione emancipata delle donne. Una ammirazione fondata sulla visione mitica di un popolo selvaggio, ma capace di preservare quella purezza di costumi che in origine era stata anche dei Greci. Un mito ricorrente nella storia che ritroveremo dopo la scoperta delle Americhe e il contatto con nuovi popoli nei testi impegnati dei filosofi, vedi Rousseau, ma anche in romanzi come il “Robinson Crosue” dell'inglese De Foe.

In questa situazione il rischio di cadere nello stereotipo è sempre presente, anche se nel caso dei Liguri, a differenza di quelli attuali sugli immigrati “brutti, sporchi e cattivi”, lo stereotipo ha valenza largamente positiva. Questa trasformazione del dato della conoscenza in stereotipo è evidente nel caso delle donne liguri.



Tutto nasce dal racconto di Posidonio, filosofo e geografo greco vissuto all'incirca tra il 135 e il 50 aC, che viaggiò a lungo nel Mediterraneo e soggiornò tra l'altro a Massalia. Nel racconto che il filosofo fa del suo soggiorno massaliota egli riporta ciò che ha sentito da un certo Carmoleonte, suo amico carissimo e cittadino ricco e importante.

"Per coltivare la terra – racconta Carmoleonte - avevo preso a giornata sia uomini che donne. Durante il lavoro una delle donne, colta dai dolori del parto, si allontanò dal gruppo e in disparte partorì. Ritornò subito dopo al lavoro, per non perdere il compenso, dopo aver lavato il neonato ad una fonte e avvolto in una pezza portatolo al riparo a casa.".

E' poco più di un aneddoto che rivela come l'estrema povertà dei Liguri avesse colpito la sensibilità di Posidonio. Sembrerebbe una cosa di poco conto, una piccola annotazione all'interno di un'opera ben più complessa sul mondo mediterraneo, ma parecchio tempo dopo, questo racconto viene ripreso proprio da quel Diodoro Siculo di cui abbiamo parlato in apertura, che ne cambia radicalmente il senso. Infatti Diodoro lo riprende, lo arricchisce di particolari e lo presenta come una testimonianza diretta:

"Gli abitanti sono resistentissimi alla fatiche e, per il continuo esercizio fisico, vigorosi; giacché ben lontani dall'indolenza generata dalle dissolutezze, sono sciolti nei movimenti ed eccellenti per vigore negli scontri di guerra. Generalmente gli abitanti della regione all'intorno, abituati continuamente a sostenere travagli, e richiedendo la terra molta cura, usarono fare partecipi anche le donne delle fatiche connesse al lavoro.
E lavorando uomini e donne a giornata, fianco a fianco, accadeva ad una donna un fatto particolare e paradossale secondo la nostra mentalità.
Infatti essendo incinta e lavorando con gli uomini, presa dalle doglie, raggiunse alcuni cespugli senza turbarsi; in questi diede alla luce il figlio e, avendolo avvolto con fronde lo nascose lì, mentre lei, riunitasi a quelli che continuavano a lavorare, sopportò con essi la medesima fatica, senza accennare nulla dell'accaduto.
Ed essendo venuto noto il fatto per il pianto del bimbo, in nessun modo il sovrintendente la poteva convincere a sospendere il lavoro; né costei desistette dalla faticosa occupazione finché il datore di lavoro, preso da pietà, datole il compenso pattuito la esonerò."


Dunque un semplice aneddoto riportato si trasforma nel giro di qualche decennio in una precisa e dettagliata annotazione antropologica frutto dell'osservazione diretta. Ma non è finita, perchè in un testo dello Pseudo-Aristotele, di datazione incerta ma sicuramente di molto posteriore, il dato è riportato come generale:

“Si dice che anche questo sia caratteristico presso di loro: le donne partoriscono mentre lavorano e, dopo aver lavato con l’acqua il bambino, subito zappano, scavano e fanno gli altri lavori che avrebbero dovuto fare anche se non avessero partorito”.

Dunque un fatto in origine descritto come individuale diventa progressivamente caratteristica comune di un popolo e poi assunto come tale nell'immaginario collettivo. Il racconto di Posidonio diventato dato antropologico certo è una dimostrazione perfetta di come nasca e si fissi uno stereotipo etnico. Un'utile lezione anche per l'oggi, anzi soprattutto per l'oggi. E di questo dobbiamo essere grati a quell'antica e sconosciuta contadina massaliota.