lunedì 29 luglio 2019

Mulini e frantoi delle valli alpine occidentali




Giorgio Amico

Mulini e frantoi delle valli alpine occidentali

È disponibile l'ultimo numero de La Rafanhauda. la bella rivista a cura dell'Association Renaissença Occitana di Chiomonte (Valle Susa).

Il numero, monografico, è dedicato ad una ricerca sui mulini e frantoi delle valli alpine occidentali, con particolare riferimento alla realtà della valle di Susa con particolare riguardo alla Val Clarea.

Come è facile immaginare, quello dei mulini e dei frantoi ad acqua è un elemento centrale della cultura e della storia materiale fino almeno alla metà del secolo scorso.

La rivista affronta il tema da diverse angolazioni, a partire da quella linguistica con un glossario sui termini inerenti mulini e frantoi nell'occitano alpino di Chaumont.



Una serie di articoli è poi dedicata alla ricostruzione dell'attività dei mulini con particolare riguardo alle attrezzature interne e al contesto naturale in cui erano inseriti, ulteriore dimostrazione, se ce ne fosse necessità, dell'attenzione con cui le popolazione alpine curavano le risorse naturali del territorio (a partire proprio dall'acqua) da cui largamente dipendevano per la loro stessa sopravvivenza fisica.

Colpisce l'estrema cura nella scelta dei siti e il modo ingegnoso con cui pietra e legno (i materiali a disposizione) venivano utilizzati per la costruzione dei mulini e dei frantoi. Una attenzione che il fascicolo mette bene in risalto con un ricco corredo fotografico e illustrativo, da cui riprendiamo due immagini.



Ultimo, ma importante, uno studio su mulini e frantoi a Guardia Piemontese in Calabria, come si sa abitata fin dal XIII secolo da una comunità valdese (di lingua occitana) proveniente dalla Val Angrogna a causa dalle persecuzioni religiose. L'articolo mette in risalto la permanenza, pur in un contesto così diverso e lontano dai luoghi di provenienza, di tecniche e termini linguistici.

Per informazioni e richiesta copie:
larafanhauda@gmail.com


giovedì 25 luglio 2019

martedì 23 luglio 2019

Mater Matuta. Un tributo al Sacro femminino


Mater Matuta

Evento culturale straordinario all’interno della manifestazione Triora Lammas 2019.

Un tributo al Sacro femminino


L’evento costituisce la parte centrale di un progetto che attraverso la riscoperta del Sacro femminino e delle sue molteplici manifestazioni nel corso dei secoli, mira a recuperare le radici più arcaiche della nostra identità regionale ,italiana ed europea, riproponendo in forma divulgativa e artistica tematiche perlopiù circoscritte all’ambito accademico e ai cultori della materia.

L’iniziativa

Il 3 agosto a Triora, in piazza Tommaso Reggio, si tributerà attraverso le foto di Roberta Ancona , le poesie di Lucia Lo Cascio, e la conferenza di Paolo Portone un tributo a Mater Matuta , l’arcaica divinità italica:associata all’aurora , al parto e alla rinascita, spesso rappresentata assisa su un trono con un pargoletto in braccio , e i cui simboli erano una melagrana e una colomba, e a cui di recente il comune di Albenga ha voluto dedicare una statua da installare in Piazza Azzurri d’Italia. Personficazione della Grande Dea del Paleolitico e del Neolitico le cui immaginette sono state ritrovate ovunque nell’Antico continente, anche in Liguria, come testimoniano le stautuine ritrovate nel Finalese, soprattutto nella Caverna delle Arene Candide e nella Grotta Pollera (5000.4200 a.C.),


Programma della serata

– una mostra fotografica dell’artista Roberta Ancona
– un reading di poesie di Lucia Lo Cascio.

– una conferenza di Paolo Portone intitolata “In principio era la Dea. I volti del sacro femminino in Italia dall’antichità agli albori della modernità”

domenica 21 luglio 2019

Pionieri d'Oc. Gli anni Ottanta nelle valli del Viso



Nel 1986 in un'intervista Mario Rigoni Stern affermava: Vorrei farvi vedere la Val Varaita o la Val Maira in Piemonte, o certe valli della Carnia o della Val d'Aosta. Lì la vita è veramente scomparsa e non nasce più nessuno". Un libro, appena uscito da Fusta editore di Saluzzo, racconta del tentativo degli abitanti delle valli del Viso di riappropriarsi della loro lingua, della loro storia e della loro terra. Un tentativo di rinascita nel segno della lingua e della cultura occitane che qualche segnale di ripresa sta dando.Un libro da leggere per chi vuole andare oltre un approccio semplicemente "turistico" a quelle valli bellissime.


Pionieri d'Oc
Gli anni Ottanta nelle valli del Viso


Nota redazionale

Un libro che raccoglie interviste inedite e autentiche rilasciate da numerose personalità operanti in vari settori (dalla sanità all’architettura, dall’amministrazione pubblica a quella privata) che nei decenni (a partire dagli anni Settanta per arrivare a oggi) si sono battute per l’indipendenza culturale delle proprie vallate ai piedi del Monviso.

Dino Matteodo, Fredo Valla, Enrico Olivero, Rosina Peiretti e Sergio Beccio, Renato Maurino, Paolo Allemano, Bianca Rinaudo, Ines Cavalcanti, Francesco “Cecco” Dematteis sono professionisti che hanno fatto della vita l’occasione per sostenere l’indipendenza e lo sviluppo delle valli piemontesi (dalla Val Maira alla Valle Po).

Marinella raccorda i passaggi nodali di tutta la narrazione proposta di volta in volta dall’intervistato, accompagna il lettore nel contesto socio-politico di decenni che hanno visto mutare radicalmente le valli occitane piemontesi. Dagli anni Sessanta-Settanta a oggi, senza tralasciare gli strascichi lasciati dalla Seconda guerra mondiale, il racconto attraversa tutta la seconda metà del secolo scorso, con particolare attenzione agli anni ottanta: dalla contestazione del Sessantotto agli Anni di Piombo, dalla caduta del Muro di Berlino a Mani pulite. Sino alla situazione attuale: al senso che ha ancora oggi essere pionieri, imprenditore e attivisti nelle Valli del Viso.

MARINELLA PEYRACCHIA

Ha studiato architettura a Torino e Geografia Umana a Grenoble. Ma Marinella Peyracchia, nata a Melle in Valle Varaita, è soprattutto una persona appassionata di viaggi, impegnata nello sviluppo locale e «custode» della memoria della comunità delle valli del Viso.

Marinella Peyracchia Vallero
Pionieri d'Oc. Gli anni Ottanta nelle valli del Viso
Fusta editore, 2019
Euro 16.50

giovedì 18 luglio 2019

Perché una storia di Azione Comunista?



È in preparazione una storia di Azione Comunista, giornale e movimento politico attivo alla sinistra del Pci fra la metà degli anni Cinquanta e la metà del decennio successivo. Ne presentiamo una anteprima.

Giorgio Amico

Perché una storia di Azione Comunista?

Mentre sul Pci esiste una bibliografia ormai imponente, in larga parte generatasi dallo scioglimento stesso del partito e dalla fine di quella esperienza, delle dissidenze comuniste non si conosce quasi nulla. Solo il pochissimo che questi gruppi hanno raccontato sulla loro storia oltre agli studi di un ristretto gruppo di ricercatori, spesso ex militanti di quelle stesse organizzazioni, come Danilo Montaldi, Sandro Saggioro, Arturo Peregalli, Dino Erba, Diego Giachetti, Roberto Massari, Paolo Casciola e pochissimi altri. Certo, esiste una copiosa letteratura sul gruppi “extraparlamentari” del post 68, ma non c'è a tutt'oggi una storia complessiva del trotskismo in Italia, né della sinistra comunista, né delle organizzazioni che pure furono attive alla sinistra del Pci fra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta. 

Una di queste realtà poco conosciute sono i “Gruppi della sinistra comunista”, poi “Movimento della sinistra comunista”, ed il loro giornale Azione Comunista su cui esiste solo un sintetico studio di Arturo Peregalli apparso nell'ormai lontano 1980 sulla rivista “Classe” in un numero monografico dedicato alle riviste della sinistra non conformista degli anni '50 e '60. Eppure Azione Comunista fu una realtà interessante e assai controversa, ad immagine del suo creatore ed esponente di punta Giulio Seniga. Una storia molto articolata, scomponibile in due grandi periodi: il primo, dal 1954 agli inizi del 1959, si svolge interamente sotto l'egida di Giulio Seniga nell'ambito più generale delle forme, pubbliche e coperte, che la guerra fredda, allora in pieno svolgimento, prende in Italia.


Il secondo, dal 1959 al 1966, è quasi interamente nel segno di Arrigo Cervetto che progressivamente nel contesto più complessivo della ripresa delle lotte operaie conseguenza diretta del miracolo economico e della radicale trasformazione vissuta dal paese, getterà le basi della sua teoria del “Partito strategia”. Sono gli anni dell'apertura a sinistra, dell'inizio della distensione, del centrosinistra e del manifestarsi di nuove espressioni del dissenso comunista, come l'operaismo di Panzieri e dei Quaderni Rossi o il movimento filocinese.

È una storia articolata e complessa, di cui, soprattutto per la prima fase, molti aspetti restano ancora da chiarire. Una storia di ideologismi esasperati, di feroci lotte intestine e di scissioni, di figure autorevoli e di personaggi ambigui. Una storia interessante perché per molti aspetti precorre, nel bene e nel male, i percorsi di quella che sarà poi la Nuova sinistra post sessantottina. Una storia che rischia di andare persa con la scomparsa dei protagonisti di allora, ma anche della leva di quadri che questi cercarono di selezionare e formare fra la fine degli anni '50 e la metà degli anni '60.


Se vogliamo, è anche la narrazione di una serie di vite, di percorsi politici, di incontri e scontri, ma anche il racconto di una sconfitta annunciata, la storia di una battaglia che non aveva la minima prospettiva di successo, fra gruppi di qualche decina di militanti, privi di mezzi e di visibilità, ed un colosso di due milioni di iscritti, il Pci togliattiano, capace di egemonizzare larga parte della cultura italiana di allora. Una lotta che, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, pure fu combattuta, con ostinazione e con coraggio, ma soprattutto con la ferma convinzione che les mauvais jours finiront, che tempi nuovi sarebbero presto venuti e che a quello occorreva prepararsi. Millennarismo? Forse, ma anche, come nel caso di Arrigo Cervetto o Onorato Damen, una straordinaria prova di coerenza politica ed umana. Una storia, con le sue luci e anche le tante ombre, che è doveroso non dimenticare, soprattutto in tempi, come gli attuali, in cui si vivono di nuovo giorni cattivi, ma senza più le speranze, magari ingenue ma vitali, di allora.

domenica 14 luglio 2019

Raffaele K. Salinari, Che fai tu, Luna, in ciel?


    Melis, Viaggio sulla luna (1902)

Storia di viaggi fantastici a cinquant'anni dall'allunaggio.

Raffaele K. Salinari

Che fai tu, Luna, in ciel?


Fly me to the Moon, cioè fammi volare fino alla Luna… chi non conosce questo splendido brano musicale, portato al successo da The Voice Frank Sinatra nel lontano 1964, in piena Guerra Fredda e relativa corsa allo spazio? Il valore simbolico della canzone fu tale, all’epoca, da diventare la sigla della NASA nell’avventura lunare, lanciata solo un anno prima della sua morte dal Presidente Kennedy con la famosa frase: «Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili». Molti anni dopo, Quincy Jones regalerà i dischi di platino di Fly Me to the Moon al Senatore John Glenn, il primo astronauta USA, ed al Comandante dell’Apollo 11 il «first man» Neil Armstrong, e Clint Eastwood userà la canzone per la scena finale, quella sulla Luna appunto, del suo romantico Space Cowboys. Più italicamente Domenico Modugno, già nel 1962, in grande sintonia italo-americana, urlava il suo: «Selene ene haaa…com’è bello stare qua, il peso sulla Luna è la metà delle metà!».

Sono passati cinquant’anni dallo storico allunaggio del luglio 1969, da quel fatidico: «Un piccolo passo di uomo, un gande passo per l’umanità», ma il sogno di raggiungere, o semplicemente utilizzare, il nostro satellite, nasce insieme alla poesia che ne canta il fascino sugli innamorati, o adora ancora le sue ipostasi divine, perché, da sempre, l’umanità ha guardato verso l’astro a noi più vicino in modo ambivalente, com’è, d’altra parte, la natura di Selene.



L’astrologia lunare

«Perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo la Luna tu non sia trascinato a prostrarti davanti e a servirla…». Così nella Bibbia, (Deuteronomio IV, 19) si afferma la gerarchia inflessibile tra il vero ed unico Dio e l’influsso dell’astro sulla vita degli uomini. Eppure, ancora oggi, ogni inizio di anno, l’astromantica, l’antica arte di leggere negli astri gli auspici delle cose, ritorna con le rinnovate previsioni dei suoi lunari e relativi oroscopi.

L’astrologia nacque nell’antica Mesopotamia, nel regno tra i due fiumi, dove un’atmosfera straordinariamente limpida, arroventata da un sole sfolgorante, faceva apparire le masse celesti ancora più vicine e potenti. Già Diodoro siculo, nella sua Bibliotheca Historica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testimonianza: «I Caldei, che tra i Babilonesi sono i più antichi, si applicano per tutta la vita agli studi filosofici e traggono principalmente assai gloria dall’astrologia. E come molto si occupano dell’arte divinatoria, predicono le cose future, e cercano, o con le espiazioni, o con i sacrifici, o con certi incantesimi, di allontanare le cattive vicende o di farne seguire le buone. E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed interpretano i sogni ed i prodigi, e certamente vengono reputati profeti esatti».

I pianeti, in latino plànētes astéres, cioè stelle vagabonde indagati erano quelli visibili ad occhio nudo già nell’antichità, prima tra tutti la Luna, con i suoi cicli che accordano mestrui e maree: era più che naturale cercare di capire, dai suoi movimenti, cosa potesse accadere sulla Terra. Quando esattamente queste relazioni furono fissate non è dato sapere, ma certo nel 2000 a. C. a Babilonia nasce la geografia astrologica, in cui il mondo conosciuto viene diviso in quattro Paesi corrispondenti alle regioni celesti.

Generalmente benigna, e particolarmente osservata, era dunque la Luna, figura della notte che, nella metamorfosi continua delle sue manifestazioni, ben si incardinava nella mutevole vita del mondo sublunare. Anche Giove, pianeta di Marduk, onnisciente creatore del cosmo, vivificatore dei morti, veniva influenzato dalla sua vicinanza o meno con l’alone lunare.

«La venerazione del cielo stellato» dice Julius Wellhausen, noto biblista tedesco del secolo scorso «era così radicata nei Semiti, che anche per i monoteisti Ebrei rimase sempre una grande tentazione, dell’aver resistito alla quale Giobbe così si vanta: Vedendo la Luna avanzare solenne il mio cuore non ne è stato segretamente sedotto e non ho mandato baci con la mano».

Nel corso dei secoli, la relazione tra la Luna e gli affari degli uomini ha conosciuto alterne vicende. La Chiesa si è opposta per secoli all’astrologia, e poi, progressivamente, la scienza ha trasformato l’astromantica in semplice astronomia. Ultimo tra i visionari che hanno cercato d coniugare scienza e religione forse il grande Giordano Bruno, il sincretico profeta astrologo che, però, troppo lontano si era spinto a cercare la fede nella «saggezza della Madre Materia».

Leopardi, pur cantando poeticamente la Luna nel suo Canto notturno di un pastore errante per l’Asia: «Che fai tu, Luna, in ciel? dimmi, che fai silenziosa Luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli?», chiarisce il suo amaro pensiero sugli oroscopi nel celebre Dialogo tra un viaggiatore ed un venditore di Almanacchi: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?».

Ma è forse Goethe, con il suo genio tollerante di Libero Muratore e lo sguardo perspicuo per tutto ciò che humanun est a dire la parola definitiva: «La superstizione astrologica si basa sull’oscuro senso di un universo sconfinato. L’esperienza insegna che le stelle più vicine hanno un influsso decisivo sul tempo, sulla vegetazione etc… non c’è che da salire di grado in grado, sempre più in alto, e chi può dire dove questa azione cessi?».

Sì chi può dirlo? Il lunario di Frate Indovino, pubblicato dal 1945 con rubriche quali «le stelle parlano» o «vedo e prevedo», e che continua a diffondere in sei milioni di copie ogni anno le inesauribili osservazioni astrologiche dei Frati Cappuccini, non è forse ritenuto da noi tutti, credenti e non, un testo di profonda saggezza che legge negli astri il Segno dei tempi?



I viaggi sulla Luna

«Dice la storia che un tempo passato, quello in cui succedevano tante cose, reali, immaginarie o fantasiose, un uomo concepì uno sterminato progetto; scriver tutto l’universo in un libro e riempì con slancio un fitto, eccelso, immenso ed arduo manoscritto, e limò e declamò l’ultimo verso. Stava per render grazie alla fortuna, ma, alzando gli occhi, un bel disco d’argento vide nel cielo e rimase sgomento: s’era dimenticato della luna. La storia, anche se falsa, è ben ordita per dimostrare quale maleficio grava su noi che usiamo, per ufficio, trasmutare in parole questa vita… D’una luna di sangue ebbe a parlare Giovanni nel suo libro, di feroci prodigi pieno e di giubili atroci; ma vi son lune d’argento, più chiare. Pitagora col sangue (narra una leggenda) su uno specchio un dì scriveva e il riflesso di questo si leggeva dentro quell’altro specchio ch’è la luna».

Questi sono alcuni versi della poesia La luna di Borges, in cui troviamo, tra le altre cose, sia la menzione dell’archetipo del “libro universale”, declinato tante volte dall’autore in termini di Biblioteca Universale, sia uno dei tanti usi strumentali del piccolo satellite: lo specchio di Pitagora.
Già nell’antichità Luciano di Samosata, infatti, narra, nel suo La storia vera, di un viaggio sulla luna, che lui descrive come un’isola sospesa per aria, tonda e luminosa, dove trova un oggetto simile ad un grande specchio: «Vidi un’ancor più grande meraviglia nel palazzo del Re Endimione. Era un grande specchio sospeso sopra un pozzo non molto profondo. Scendendo nel pozzo si udiva tutto ciò che era detto sulla terra e guardando nello specchio vi si vedevano tutte le città e tutti i popoli come se si fosse in mezzo a loro». Qui, e siamo tra il I ed il II secolo d.C., e già appare l’idea che andare sulla Luna potesse servire a controllare ciò che accade sulla Terra.

Come ci riferisce Borges, si tramanda che nell’antichità il sapiente Pitagora avesse concepito uno specchio in grado di scrivere sulla superficie lunare: in sintesi una prima forma di comunicazione a grande distanza. L’erudito gesuita Athanasius Kircher, assemblatore di una delle più monumentali Wunderkammer del Seicento, espone questa suggestiva possibilità nel suo Nuova Criptologia, ampliando la tesi contenuta nel Magiae naturalis di G. B. Della Porta (1589), legata al leggendario specchio pitagorico.

Rafael Mirami, nella sua Compendiosa introduttione alla prima parte della specularia(1582), aveva già sostenuto che «gli specchi di Pitagora erano talmente lucidi, e fatti con sottile artificio, che egli diede occasione di credere che per vie riflesse facesse vedere nel corpo luminoso della Luna immagini di lettere».

Ma da dove origina questa storia, chi per primo descrive lo specchio di Pitagora e la sua capacità di scrittura sulla Luna? Jurgis Baltrušaits, nel suo erudito Lo specchio (1981) pone la genesi del prodigio all’interno delle Nuvole di Aristofane, in cui ad un certo punto Strepsiade replica a Socrate: «Se io assoldassi una maga tessalica e facessi scendere di notte la Luna, e poi la rinchiudessi in un astuccio tondo come uno specchio?». Alle maghe tessaliche era attribuito sia da Platone sia da Plinio questo potere di «far scendere la Luna» dal cielo. E dunque in quei tempi sembrava che l’ipotesi più probabile, non fosse andare sulla Luna ma… farla scendere sulla Terra; se la montagna non va a Maometto…

E non è forse quello che, in qualche modo, farà Galileo con l’uso del suo telescopio, anche se con l’intento di toglierle proprio quell’alone di magia che ancora impediva lo studio delle cose celesti? Ma, se nel corso del XVII secolo la scienza comincia a viaggiare verso la Luna, l’antica leggenda dell’assedio di Milano e di una trasmissione, via satellite lunare, verso Parigi rimane imbalsamata all’interno di un… lunario che narrava una storia per ogni giorno dell’anno. E così nell’edizione del 1680, il giorno 22 di giugno, si legge una ricetta pratica che titola: «Maniera per conoscere le cose assenti senza magia: bisogna scriverle a grandi lettere su uno specchio e volgerlo verso la Luna, la quale le farà conoscere in un altro specchio dove la si guarda».

Quasi un secolo prima di Galileo, Astolfo, duca d’Inghilterra, viene trasformato dalla sua amante, la maga Alcina, in una pianta di mirto. L’amico Ruggiero e la buona fata Lagostilla liberano però Astolfo dall’incantesimo; questa gli dona poi un corno dal suono spaventevole ed un magico libro che insegna a difendersi dagli incantesimi. Siamo nel Canto XVdell’Orlando Furioso, l’opera in versi pubblicata nel 1516 da Torquato Tasso. Ecco che, allora, grazie a questi oggetti preziosi Astolfo distrugge il palazzo del gigante Atlante, doma l’Ippogrifo e, dopo aver cacciato le Arpie che infestano la mensa di re Senapo, in sella alla straordinaria cavalcatura, giunge alla montagna del Purgatorio dove incontra San Giovanni, un vecchio venerabile nel viso che gli spiega la sua missione: per volere della provvidenza divina dovrà recarsi sulla Luna per ritrovare l’ampolla con il senno del paladino Orlando,impazzito d’amore, e restituire così al cavaliere la sua saggezza; in questo modo egli potrà di nuovo combattere e portare l’esercito cristiano alla vittoria contro i saraceni. Così Astolfo e San Giovanni salgono sul carro alato del profeta Elia, trainato da quattro destrier più che di fiamma rossi e indi vanno al regno della luna (Canto XXXIV, 1 -70).

Anche qui, come nel caso di Luciano di Samosata, o delle streghe tessaliche, o dello specchio di Pitagora, il viaggio sulla Luna, o il farla scendere sulla terra, è chiaramente funzionale ad uno scopo ben preciso: in questo caso alla guerra contro i saraceni.

Passano i secoli e la Luna si avvicina sempre più, non solo per via delle lenti galileiane, ma per la forza attrattiva di nuovi strumento che sembrano anticipare nell’immaginario collettivo, quello che la politica tiene più da conto, l’impresa reale: la fantascienza ed il cinema.



Giulio Verne e Georges Méliès

Dalla Terra alla Luna, titolo originale De la Terre à la Lune, trajet direct en 97 heures 20 minutes, è il famoso romanzo di fantascienza di Jules Verne, scritto del 1865, prima parte di un dittico che si chiude con Intorno alla Luna, del 1870. Il genio esoterico e visionario di Verne, Rosacruciano e Massone, anticipa con straordinaria lucidità tutti gli elementi tecnologici che poi sosterranno, effettivamente, l’impresa lunare cent’anni dopo. Prima di tutto la propulsione e le forma dell’astronave: sparata da un enorme cannone, la navicella proiettile finanziata dal Gun Club arriverà sull’astro più vicino. Qui va notato un elemento che, con gli occhi di oggi, assume una centralità decisamente profetica: il ruolo dei privati. Mentre sino a pochi anni or sono, infatti, i viaggi spaziali erano appannaggio solo delle Agenzie spaziali nazionali o Europee, oggi il mondo del business privato si affaccia con convinzione, non solo al turismo spaziale, ma alla possibilità di trasferire una parte dell’umanità, quella che ovviamente se lo potrà permettere, o in orbita, o sulla Luna. Su questo scenario i film ed i romanzi di fantascienza si sprecano, non ultime pellicole comeElysium il bellissimo Wally della Pixar.

E allora non possiamo che concludere questa piccola storia dei viaggi fantastici sulla Luna se non citando il grande Georges Méliès con il suo Viaggio nella Luna (Le Voyage dans la lune) film muto del 1902 realizzato assieme al Viaggio attraverso l’impossibile e liberamente tratto non solo sui romanzi di Jules Verne ma anche dal I primi uomini sulla Luna di H.G. Wells.

E così a cinquant’anni dall’allunaggio, cerchiamo ancora d ricordare le tante storie che ci legano alla “nostra” Luna, ma teniamoci cara la Terra, per non dover un giorno essere costretti a guardarla da lassù senza poterci tornare.

Il Manifesto/Alias – 13 luglio 2019

martedì 9 luglio 2019

1969-1974. Strategia della tensione. Quando lo Stato dichiarò guerra ai suoi cittadini.




Tre libri svelano gli ultimi misteri della cosiddetta strategia della tensione, dalle bombe falso-anarchiche dell'aprile '69 alla strage di Piazza della Loggia nel 1974, passando ovviamente per Piazza Fontana, vero cardine dell'intero processo. Coinvolti con ruoli e responsabilità diverse politici (Saragat e Rumor), generali, uomini dei servizi segreti, della polizia e dei carabinieri. Tre libri che finalmente smontano la tesi degli “apparati deviati”. “Deviati” furono semmai i giudici che coraggiosamente si ostinarono a ricercare la verità nonostante depistaggi e menzogne del potere.

(In altra epoca avremmo riportato gli articoli integralmente, oggi ne riprendiamo qualche stralcio rimandando per una lettura integrale alle fonti originarie. Non nascondiamo di farlo con disagio, come una autolimitazione che di fatto corrisponde ad una censura pesante tesa a bloccare la più ampia e libera circolazione delle informazioni).

Giorgio Amico

1969-1974. Strategia della tensione
Quando lo Stato dichiarò guerra ai suoi cittadini.

Continua la ricerca sugli anni delle stragi e sulle responsabilità politiche e degli apparati militari nella strategia della tensione che costò al Paese decine di morti.Quasi in contemporanea escono tre libri dedicati il primo alle bombe fino-anarchiche della primavera '69, vera prova generale di quanto poi in dimensioni enormemente più tragiche sarebbe avvenuto a Piazza Fontana. Libro importante perché testimonia del ruolo svolto nel fabbricare la falsa pista anarchica dal commissario Calabresi (quello che interroga Pinelli la notte che l'anarchicò morì in Questura) di cui qualcuno ha persino richiesto la beatificazione canonica.

Importante anche il secondo libro, di Benedetta Tobagi, dedicato al lungo e faticoso iter giudiziario per trovare i veri responsabili (fascisti) della strage di Piazza Fontana, storia di depistaggi operati dai servizi segreti che dovevano occultare il coinvolgimento nell'ideazione e nell'attuazione del massacro di uomini delle istituzioni militari e di sicurezza.l'autrice lo sintetizza perfettamente in un passo dell'intervista a La Repubblica (di cui più sotto riprendiamo l'introduzione di Simonetta Fiori) che riportiamo integralmente.

«Esisteva un accordo tra l’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il premier Mariano Rumor – un patto benedetto dagli Stati Uniti – per far salire la temperatura politica al fine di favorire uno spostamento a destra dell’asse politico. Una versione minimale della strategia della tensione. Ma questo patto segreto fu scavalcato dalla destra eversiva che preferì fare una fuga in avanti, protetta dai servizi nazionali e internazionali. Aldo Moro contribuì a fermare lo spostamento a destra, promettendo in cambio il silenzio, ossia l’insabbiamento della pista nera.

Infine, il terzo libro ricostruisce gli avvenimenti che precedono e seguono la strage di Piazza della Loggia del 1974. L'autore, Paolo Barbieri giustamente parla di una strage da ricondurre a quel «partito del golpe», presente nei vertici militari e in settori della classe dirigente politica, che operò in quegli anni per scardinare la democrazia nata dalla Resistenza.



Paolo Morando, Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza

“Una piccola storia ignobile della giustizia italiana, subito cancellata e rimossa. La prova generale della strategia della tensione. A cinquant’anni dai fatti, un libro-inchiesta, degno erede dei lavori di Corrado Stajano e di Camilla Cederna, rivela le verità nascoste di uno dei momenti chiave della storia repubblicana.
Milano, 25 aprile 1969: due ordigni scoppiano alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni della Stazione centrale, provocando una ventina di feriti. È il primo atto della campagna di attentati che pochi mesi dopo porterà a Piazza Fontana. L’Ufficio politico della questura, fin dalle prime ore, punta verso gli anarchici. A condurre le indagini sono il commissario Luigi Calabresi e i suoi uomini, gli stessi che si troveranno nel suo ufficio la notte della morte di Giuseppe Pinelli, nome che nell’inchiesta spunterà di continuo, come quello di Pietro Valpreda, che già qui si profila come futuro capro espiatorio. Nel giro di pochi giorni vengono arrestati tre giovani (e altrettanti nelle settimane successive) e una coppia di noti anarchici milanesi, amici dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, che pure verrà rinviato a giudizio assieme alla moglie. Due anni dopo, con un colpo di scena dietro l’altro, il processo chiarirà le dimensioni della macchinazione anti-anarchica innescata da quegli attentati. Una vicenda determinante per comprendere fino in fondo i misteri di Piazza Fontana. Un racconto serrato di una pagina nera per la giustizia italiana, da allora totalmente rimossa dalla memoria, che assume nuova luce grazie alla scoperta di documenti fin qui inediti”.

(Nota editoriale)



Benedetta Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile, Einaudi

“È stato uno dei processi più importanti della storia d’Italia. Un processo monstre per durata (complessivamente trentasei anni!) ed esito paradossale: incompiuto sul piano della giustizia – ancora ignoti i nomi degli esecutori materiali – ma più che compiuto per il Tribunale della storia che certifica la responsabilità di Freda e Ventura, esponenti di Ordine Nuovo spalleggiati dai servizi segreti. Soprattutto la strage di Piazza Fontana – con i suoi diciassette morti e novanta feriti per un ordigno esploso alla Banca dell’Agricoltura il 12 dicembre del 1969 – ha segnato uno spartiacque nella storia italiana, con una scia di segreti, fantasmi, risentimenti e violenze da cui fatichiamo a liberarci, a distanza di mezzo secolo. Alla “madre di tutte le stragi” e alla sua tormentata avventura giudiziaria Benedetta Tobagi ha dedicato quattrocento pagine, frutto di una ricchissima ricerca archivistica e di un metodo di studio che consente di rovesciare lo sguardo su quel labirinto drammatico: non più solo incubo del Paese, ma anche risveglio di energie democratiche”.

(Da: Simonetta Fiori, Piazza Fontana. Storia infinita di un processo, La Repubblica 7 giugno 2019)



Paolo Barbieri, La morte a Brescia. 28 maggio 1974, Red Star Press

“Esce ora nella ricorrenza del 45/mo anniversario della strage di Piazza della Loggia (otto morti e più di cento feriti) La morte a Brescia. 28 maggio 1974: storia di una strage fascista di Paolo Barbieri (Red Star Press, pp. 128, euro 14). Lo stesso autore, all’epoca diciottenne, era su quella piazza al momento dello scoppio della bomba. Non fu investito dall’esplosione per una pura casualità, o come scrive, per «destino o fortuna». Ma non è un libro solo di ricordi. Tutt’altro. Si ricostruiscono, infatti, le tappe che avevano preceduto la strage con lo stillicidio delle azioni violente e degli attentati, in particolare quello del 20 maggio, quando un giovane neofascista, Silvio Ferrari, era saltato per aria in Piazza del Mercato con la sua motoretta con la quale trasportava un potente ordigno per un attentato. Un episodio che aveva spinto i sindacati e il Comitato unitario antifascista a indire la manifestazione del 28 maggio. Uno sciopero generale della città «contro ogni trama fascista».
La strage di Brescia fu la «più politica di tutte le stragi» messe a segno in quegli anni. Non si volle colpire «nel mucchio» in modo indiscriminato per scatenare il panico e suscitare una richiesta d’ordine, così come era accaduto per Piazza Fontana. L’intento era di «uccidere proprio quei cittadini». Come scrisse il giudice Gian Paolo Zorzi: «convenuti per manifestare la loro protesta nei confronti dei ripetuti atti terroristici di sicura marca neofascista».
La lunghissima vicenda giudiziaria, ripercorsa minuziosamente da Paolo Barbieri, giornalista professionista per moltissimi anni all’Agenzia Ansa di Milano, si è conclusa in Cassazione il 20 giugno 2017 con la condanna all’ergastolo di due esponenti di Ordine nuovo, l’organizzazione nazifascista fondata da Pino Rauti: Maurizio Tramonte, al contempo informatore del Sid (il Servizio informazioni difesa) con il nome in codice di «Tritone», e Carlo Maria Maggi, il «reggente» nel Triveneto.
Il Sid coprì Tramonte e Maggi, pur sapendo dei loro progetti criminali e nulla fece per impedire la strage. I depistaggi furono una costante. Paolo Barbieri giustamente parla di una strage da ricondurre a quel «partito del golpe», presente nei vertici militari e in settori della classe dirigente politica, che operò in quegli anni per scardinare la democrazia nata dalla Resistenza”.

(Da: Savero Ferrari, Piazza della Loggia, il boato di una strage fascista, Il manifesto, 28.05.2019)



lunedì 8 luglio 2019

Il profumo, incanto e sortilegio




Bruciare erbe o essenze odorose è dai primordi dell'umanità aprire un canale di comunicazione con dimensioni altre e superiori. L'uso di profumi (l'incenso ad esempio) come strumento di purificazione, ma anche come segno di trasmutazione della materia. Da qui l'uso, presente in tutte le culture, di sostanza odorose nei riti religiosi, ma anche nell'alchimia, e nell'uso simbolico che ne fa Dante nella Divina Commedia.

Raffaele K. Salinari

Il profumo, incanto e sortilegio


Cosa c’è di più effimero e, al tempo stesso, più penetrante di un profumo? Quando le immagini legate ai ricordi scompaiono e la memoria rincorre vanamente una data, un luogo, un nome, quando tutto nella mente è silenzio, basta il solo il richiamo di un’essenza per rievocare il passato senza forma con la potenza del presente.

La parola profumo deriva dal latino per fumus che si riferisce al suo uso sia nelle cerimonie sacrificali verso la divinità, sia per raggiungere quello stato di estasi, di uscita da se stessi, che consente il ricongiungimento con l’Essere. Se, infatti, la luce è la manifestazione del Divino, il profumo è la quintessenza dello Spirito. Ma, poiché «ciò che è alto è come ciò che è in basso» – secondo quanto sostiene la Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto, il testo alchemico al tempo stesso più poetico e criptico – esso è anche un potente indicatore dell’Opera. E ancora, mentre il profumo, o l’essenza odorosa, sono strumenti per così dire ascensionali, cioè di elevazione verso il divino, il loro contrario, il lezzo, la puzza, i miasmi, evocano invece il mondo infero, quello della discesa verso la pura materialità senza spirito. Ecco che, allora, attraverso gli odori, vediamo emergere collegamenti ermetico-archetipici, ad esempio tra il bel Narciso e l’epicureo Farinata degli Uberti, o tra l’Opera al Nero e quella al Bianco.

La Bibbia

Un esempio fondante di uso sacrificale del profumo ci viene direttamente dallaBibbia: nel Genesi 8-21, infatti, Noè esegue, dopo il Giudizio Universale, l’ordine di Dio di sbarcare e lasciar uscire gli animali salvati «perché possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa». Il patriarca obbedisce ma, per assicurarsi che il Signore non ci ripensi, eleva un altare ed offre in sacrificio animali ed uccelli «mondati da ogni impurezza». E qui il testo biblico ci dice che «il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò che non avrebbe maledetto più il suolo a causa dell’uomo»; così, finalmente, dopo questo sacrificio, la vita poté ricominciare. Interessante notare come Dio trovi «soave» la fragranza degli animali uccisi in suo onore e che sia proprio questa sensazione olfattiva a fargli decidere in favore della permanenza della vita sulla terra. Da questa primissima testimonianza biblica, dunque, possiamo già capire il significato essenziale che nell’antichità si attribuiva al ruolo del profumo, dato che senza di esso, forse, Dio avrebbe deciso altrimenti.

Anche la classicità greca annovera molti miti che ci parlano della nascita delle essenze profumate, tutte legate, non a caso, ad una relazione essenziale, è il caso di dirlo, con i quattro elementi fondamentali: aria, acqua, terra, fuoco, cioè con una lettura alchemica e trasmutativa del loro uso. I più emblematici, a questo riguardo, sono certo quelli che descrivono la nascita dell’incenso, della mirra e del fiore di narciso.



Mirra e Incenso

Riguardo al primo, Ovidio, nelle sue Metamorfosi, narra come Il dio Sole fu il primo a sapere dell’adulterio di Venere con Marte e, indignato, lo raccontò a Vulcano, legittimo marito della dea. Questo, per coglierli in flagrante, fabbricò catene di bronzo, reti e lacci così sottili da sfuggire alla vista, poi li dispose intorno al letto e fece in modo che scattassero al minimo tocco. Una volta scoperti gli amanti, Vulcano chiamò tutti gli dei ad assistere alla scena, e questo fu motivo di chiacchiere per eoni nelle sale olimpiche. Qualche divinità, Mercurio in particolare, disse anche chiaramente che avrebbe voluto trovarsi al posto di Marte. Ma la dea decise di umiliare con un amore tragico chi l’aveva umiliata; ora, in quel tempo fuori dal tempo, il Sole era innamorato di Leucòtoe, figlia di Eurinome, la più bella ninfa che esistesse nel paese del re Orcamo. Si narra che una notte il dio entrò nella dimora della ragazza e, dopo aver mandato via le ancelle, le svelò la propria identità, possedendola con la forza. Ovidio ci dice che ella «subì la violenza senza lamentarsi». Qui entra in scena la sorella di Leucòtoe, la ninfa Clizia che, infiammata d’amore per il Sole da parte di Venere, e dunque ingelosita dell’accaduto, racconta tutto al padre che, furibondo, seppellisce viva Leucòtoe in una fossa coprendone il tumulo di macigni. Il sole cerca allora con i suoi raggi di liberare la fanciulla, ma gli sforzi non servono a niente, e così cosparge di nettare profumato la sepoltura; alcuni giorni dopo nasce un virgulto d’incenso che raggiunge il cielo e quindi il dio Sole. Clizia, a cui il Sole non volle mai avvicinarsi, presa dall’angoscia, per nove giorni non toccò cibo né acqua, non si mosse da terra ed il suo corpo iniziò ad aderire al suolo: si trasformò così in un girasole, il fiore che osserva e ammira il sole da lontano.

Qui l’incenso è l’essenza che simboleggia la mediazione tra due corpi essenziali, cioè tra l’elemento fisso e passivo per eccellenza, la terra, e quello massimamente mobile ed attivo, il fuoco, poiché, pur nella loro diversità, essi condividono la secchezza, una delle qualità degli elementi fondamentali insieme all’umidita, al calore ed al freddo. Nella visione alchemico latomistica dei quattro elementi, ognuno ha con un altro una qualità in comune: caratteristica fondamentale perché rappresenta la base della trasmutazione dell’uno nell’altro, e dunque la ciclicità della Vita. Ritroveremo più avanti la pienezza di questa immagine nelle cerimonie indù.

Anche nella storia dei Magi i doni hanno lo stesso valore simbolico archetipico: da una parte ritroviamo l’oro, cioè il Sole, il fuoco creatore, che simboleggia la regalità, l’eternità della Vita, della Zoé nella sua continuità, nell’insopprimibile ciclicità. Alla polarità opposta ecco invece la mirra: simbolo della morte e della rinascita, un’essenza con la quale si conservavano i corpi, di sapore amaro come il transito verso l’oltre tomba.

Anche la sua origine ce la racconta un mito: il brevissimo racconto dello Pseudo-Apollodoro dell’amore incestuoso tra Teia, un re assiro, e la figlia Smyrna, Mirra appunto, punita da Afrodite per la sua scarsa devozione con l’amore verso il genitore. La ragazza riesce con l’inganno a giacere col padre fino a quando egli non la scopre e la insegue per ucciderla. Smyrna fugge e gli dei la trasformano in un albero dalla resina profumata: la mirra appunto. Dopo nove mesi la pianta si apre e dal suo fusto viene alla luce il bellissimo Adone, a sua volta amato da Venere e Persefone, la cui nascita dall’albero-donna rappresenta, allo stesso modo della preziosa gommaresina, un mito di morte e resurrezione: il bel giovane morente, azzannato da un cinghiale, feconda la terra col suo sangue facendo così rinascere la primavera. Le Adonie venivano, infatti, festeggiate nell’antica Grecia in questo periodo.

Ed infine l’incenso, che bilancia gli altre due elementi; simbolo della purificazione, ovvero del percorso di una vita che vuole arrivare alla morte in modo consapevole, chiudendo un ciclo affinché se ne possa aprire un altro. La stessa visione la troviamo alla base di antiche religioni orientali come l’induismo, il buddismo ed il jainismo. Si parla di incenso già nei Veda, gli antichi testi sacri scritti nel 2200 a. C., dove se ne descrive l’impiego come vero e proprio farmaco della medicina ayurvedica. Ma l’uso religioso dell’incenso si manifesta appieno durante il rituale induista, buddista e jainista quando, durante laPuja, cioè la preghiera, viene offerto alla divinità per mostrargli devozione, per allontanare i demoni, oltre che in segno di purificazione interiore: l’incenso, bruciando, simboleggia il fuoco che trasmuta la materia in spirito.

    Eco e Narciso" (1903), di John William Waterhouse.



Narciso

Il mito di Narciso è indicativo della relazione che unisce profumo e ricongiungimento all’Origine. In questa storia troviamo come protagonisti la ninfa Eco e Narciso che, a differenza di come lo presenta Freud descrivendone la celebre nevrosi, non è un essere umano, in quanto figlio di una ninfa marina, Liriope, che significa «dagli occhi sfacciati», quelli che il figlio erediterà per guardare la sua immagine riflessa nella pozza d’acqua, e del dio del fiume Cefisio che l’aveva violentata.

Ora, rileggendo il mito, troviamo che il giovane Narciso si accosta, nel folto di un bosco, ad una pozza di acqua che Ovidio definisce incontaminata, cioè che nessun animale, umano o foglia, avevano mai toccata. Questo è un particolare importante nell’economia del mito, perché significa che siamo in presenza di un’acqua originaria, archetipica, l’acqua stessa della Creazione, la Madre delle acque, come avrebbe detto nelle Grandi Odi Paul Claudel.

Dunque siamo di fronte all’acqua come elemento essenziale, la stessa acqua di cui è composto Narciso che, osservando la sua immagine riflessa, non capisce subito il sentimento che lo accende: in realtà l’acqua dentro di lui vuole unirsi a quella fuori di lui. Il mito, allora, ci narra di un ricongiungimento mancato: “Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama: volere più distante chi amiamo!”.

La cecità di Narciso è evidente, ma questa è spiegata, in qualche modo, anche dalla sua postura originale, dal suo «sguardo orizzontale». Egli, infatti, incontra la sua immagine quando è steso sull’erba; è in quel momento che se ne invaghisce, non solo perché essa è ambigua, ma anche perché la posizione non gli consente la profondità: la sua, infatti, è una visione superficiale. E qui il mito ci porta verso una nozione iniziatica classica: il rapporto tra piano di esistenza orizzontale e quello verticale: in altre parole le due braccia nel simbolismo della croce. Guénon in questo è molto chiaro: mentre il piano orizzontale è quello sul quale il Principio creatore si riflette per generare uno specifico stato di esistenza – come un raggio verticale su di uno specchio orizzontale – l’essere contingente può, percorrendo l’esistenza in questo senso, arrivare a comprendere solo la parte determinata di se stesso e le sue relazioni con le altre forme condizionate. È il piano dei Piccoli Misteri della tradizione orfica. Il piano verticale è invece quello che bisogna risalire per il ricongiungimento col Principio, per trascendersi, e così tornare all’Origine che è anche la Meta: la realizzazione della Liberazione, i Grandi Misteri. Sintetizzando: se il piano orizzontale è analogico, quello verticale è anagogico.

Ecco allora che solo dopo essersi alzato, innalzato, Narciso coglie l’immagine nella sua reale profondità, capisce che è la sua, che si tratta cioè di acqua che vuole tornare alla sua fonte, ma è troppo tardi: l’illusione lo ha oramai totalmente in suo dominio, ne ha obnubilato la mente. Sarà solo nel morire che la comprensione si emenderà, raggiungerà il suo télos. Qui troviamo una metafora potente della nostra modernità mediatizzata: siamo irretiti da immagini superficiali di noi stessi. Come nel caso di Narciso dovremmo capire che solo raddrizzando lo sguardo torneremo sulla «retta via» dantesca, ritroveremo cioè il senso autentico dell’esistenza, la sua profondità, la sua Origine. Ed infatti il mito di Narciso, che Freud aveva ridotto ad un disturbo del singolo, è diventato oggi la cifra di una società massificata in cui troppi individui sono come distaccati dalla realtà di se stessi: siamo una civiltà narcisistica non tanto perché innamorati della nostra stessa immagine, ma perché la serviamo senza scrupoli, incapaci, per colpa di questa totalizzante soggezione, di vivere un’autentica relazione con quell’Acqua da cui tutti veniamo, ed alla quale tutti aneliamo a tornare.

Ma il mito va letto sino in fondo per trovare questa via. Ecco che allora gli dei pietosi trasformano il bel giovane nel fiore che porta il suo nome: il narciso essenza dell’oblio di se stessi, da cui il termine narcosi. E qui la narcosi è intesa come abbandono della coscienza razionale e lucida, per entrare nella rêverie ad occhi aperti. Per trasmutarsi Narciso entra trasognato nella sua materia per farsi sognareda essa. Certo a questa particolarità dell’immaginazione poetica si riferisce Shakespeare quando, nella Tempesta (atto IV), fa dire al mago Prospero: «Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni».

E allora, nell’ultimo viaggio, Narciso, il reveur della materia acqua, non rincorre solo un impossibile «narcisistico» amore per se stesso, ma un vero desiderio di ricongiungimento col Mondo attraverso l’essenza acquorea della sua natura. Ed in questo ricongiungimento totale e totalizzante la sua solitudine, invero sdoppiata, si ricompone, poiché, nella stessa immagine, convivono sia la madre che la ninfa Eco, riflesso aereo di quello acquoreo. Eco non è una ninfa lontana: vive infatti sul fondo della sorgente. Eco è dunque incessantemente con Narciso. È lui, ha la sua voce ed il suo viso: ciò che è in alto è come ciò che è in basso. Sarà allora trasportandoci in questo stato narcotico che il fiore del narciso ci consentirà di silenziare l’Ego-Eco, cioè quella parte ridondante del nostro essere che, secondo tutte le tradizioni sapienziali, va abbandonata se si vuole raggiungere la conoscenza.



Inferno, Paradiso e Grande Opera

La summa della relazione tra potere discendente ed ascendente degli odori è decisamente laCommedia dantesca. Il primo compare ovviamente nell‘Inferno, il secondo nel Paradiso. Per quanto riguarda quelli legati al mondo infero, nei Canti X e XI, ad esempio, dedicati agli eretici, Dante fa del fetore una componente centrale delle sue terzine. Qui il Poeta utilizza un’analogia tra la sgradevolezza dei miasmi e la gravità delle pene: tanto più aumentano le seconde, tanto più si fa sentire il puzzo che l’abisso infernale esala. È una sorta di legge del contrappasso olfattivo quella che Dante utilizza nella Commedia, una componente aromatica della formula V.I.T.R.I.O.L.: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, cioè visita la tua terra interiore e rettificandoti otterrai la pietra occulta, cioè la verità di te stesso. È questa la ricerca che spinge Dante ad avventurarsi nel suo viaggio, non a caso prima discendente, poi ascendente verso il Motore Immobile, ed è anche una indicazione chiara delle natura esoterica della Commedia.

Anche Fulcanelli nel Mistero delle cattedrali, ci parla dell’odore che individua le fasi dell’Opera: «La Terra è nera, l’Acqua è bianca; l’aria più si avvicina al Sole e più ingiallisce; l’etere è rosso. La morte è nera, la vita è piena di luce… Ora l’odore di un morto non è forse molesto all’odorato? Così l’odore fetido di cui parlano gli Alchimisti indica la fissazione; al contrario l’odore gradevole indica la volatilità, perché essa si avvicina alla vita ed al calore».

La stessa progressione nauseabonda si evidenzia chiaramente nel passaggio dal Canto IX. v. 31, quando dice: “Questa palude che ‘l gran puzzo spira”, al XI. v. 5: “Del puzzo che ‘l profondo abisso gitta”, per arrivare infine, nel XXIX. v. 50 al: “Tal era quivi, e tal puzzo n’usciva” tanto che, una volta cessato il dialogo con Farinata, i due viaggiatori sono costretti a ripararsi dietro il coperchio della tomba di Papa Anastasio II, “Traviato da Fotino fuori della diritta via della vera fede”, cercando così di scappare da un odore che li aggrediva quasi avesse una sua corporeità fisica.

Ma il puzzo che emana da questa tomba è oltremodo insopportabile, tristo fiato lo chiama Dante, perché Anastasio II, pontefice, forse, dal 496 al 498, era considerato da lui un eretico peggiore di Farinata, un semplice nobile e non il successore di Pietro. Se Dante non ha perdonato l’ateismo di Farinata e Cavalcante, come potrebbe perdonare quello di un Papa che del Cristo vedeva solo l’umanità? Era infatti il monofisismo la sua eresia, nel tentativo di ricomporre il primo scisma tra Oriente ed Occidente.

La natura, ed anche il senso, dei profumi, cambia decisamente nel Paradiso, in cui presso la Candida Rosa dei beati, nel Canto XXX, Beatrice conduce Dante verso il Primo Mobile. Sappiamo, perché ce lo fa capire magistralmente Borges nei suoi Nove saggi danteschi, che la Commedia altro non è che un tributo alla bellezza di Beatrice, la donna-angelo di Dante che, in quanto iniziato alla Confraternita dei Fedeli d’Amore, di impronta neoplatonica, vedeva nella donna angelicata il veicolo verso la Divinità:Beatrice, mentre egli taceva pur volendo parlare, lo conduce al centro della Rosa Eterna, che «emana un profumo di lode al sole che fa sempre primavera». Qui il vortice dei beati sembra come «inebriato da li odori»: immagine somma dell’essenza che giunge, finalmente al Divino per fumus.

Il Manifesto/Alias – 6 luglio 2019

domenica 7 luglio 2019

8. I Liberi “Accettati” Massoni e la nascita della Gran Loggia d'Inghilterra



Nella prima metà del Seicento la corporazione muratoria inglese è in piena crisi. In cerca di protezioni i Liberi Muratori “accettano” nelle logge personaggi influenti del mondo “profano”. Sono i primi massoni “non operativi”. Alla fine del secolo i “non operativi” sono ormai la stragrande maggioranza dei membri delle logge. Nel 1717 quattro legge londinesi “non operative” fondano la Gran loggia d'Inghilterra dando vita alla Massoneria moderna.

Giorgio Amico

I Liberi “Accettati” Massoni

Come abbiamo visto, se già nel Medioevo non era infrequente la presenza di ecclesiastici nelle corporazioni, ora con il declino delle associazioni di mestiere diventa sempre più grande il numero dei Massoni cosiddetti “accettati”, cioè di quei “fratelli” ricevuti nell'Ordine anche senza le caratteristiche professionali richieste dagli statuti.

Soprattutto in Inghilterra, mentre cala il numero degli autentici operai, entrano a far parte delle Logge esponenti della borghesia e della nobiltà. Già nella seconda metà del XVII secolo la Libera Muratoria perde così la sua caratteristica di associazione di mestiere per trasformarsi poco a poco in una associazione culturale e filantropica.

Nella più antica raccolta di verbali massonici esistente, relativa alla Loggia “Mary's Chapel” di Edimburgo e risalente al 1598, troviamo la prima iniziazione di un «non operativo», sir John Boswell di Auchinleck, in data 1600.53

Ma è a partire dal 1620 che il fenomeno prende dimensioni consistenti, fino a diventare una vera e propria moda, come scrive il dottor Robert Plot nel suo libro “The History of Staffordshire”, pubblicato nel 1686:

«Tutte le persone di più alto rango amavano farsi membri di questa associazione ormai sparsa in tutta l'Inghilterra, essendo ormai di moda farsi iniziare».

Fra i primi “non operativi” accettati nella Massoneria spicca la figura di Elias Ashmole, uno dei maggiori scienziati del XVII secolo, ricevuto il 16 ottobre 1646 nella Loggia di Warrington nel Lancashire e ritenuto dagli studiosi un membro influente della fratellanza rosacruciana.

L'appartenenza dell'Ashmole alla Massoneria sembra confermare l'esistenza di stretti rapporti fra Liberi Muratori e Rosa Croce. Esula totalmente dai fini di questo nostro breve lavoro tentare una precisa definizione di una questione tanto dibattuta. Non possiamo, tuttavia, esimerci dal citare qui la singolare poesia “Muses Threnodie” di un certo Henry Adamson, pubblicata adEedinburgo nel 1638. Il poema, letterariamente insignificante, è diventato famoso fra gli studiosi di cose massoniche per due versi che riproduciamo testualmente:

For we be brethren of the Rosie Crosse;
We have the Mason word and second sight...

Perché noi siamo Fratelli della Rosa Croce;
Abbiamo la Parola massonica e la seconda visione...54

        La taverna dove nel 1717 fu fondata la Gran Loggia d'Inghilterra

Verso la fine del secolo il passaggio dalla Massoneria “operativa” a quella “speculativa” si può dire in gran parte concluso. Così nel 1670 ad Aberdeen, nel nord della Scozia, su 59 membri di Loggia solo 14 erano muratori o carpentieri; tutti gli altri “fratelli” erano “speculativi”, esercitanti in genere professioni intellettuali (medici, insegnanti, religiosi). Analoga situazione troviamo ad Hangoot, sempre in Scozia, dove nel 1702 la locale loggia era composta ormai quasi esclusivamente da “non operativi”.55

Con i nuovi membri “accettati" entrano nella fratellanza muratoria anche le lotte e gli intrighi della politica. L'inghiltera di quegli anni è travagliata dall'aspra contesa fra il sovrano ed il Parlamento e, successivamente, fra gli Stuart (cattolici) e gli Orange (protestanti). In tale contesto le «società segrete diventavano punti di riunione per i vinti, i quali se ne servono per i loro intrighi».56

Questo processo è agevolato dal fatto che, nonostante nel 1688, gli Stuart con la detronizzazione di Giacomo II vengano cacciati dal potere, la Libera Muratoria inglese resta cattolica e stuardista.

Gran maestro è infatti Christopher Wren, professore di matematica e di astronomia, architetto responsabile dei lavori della Cattedrale di St. Paul, il quale nel 1693 riconferma l'obbligo per la Massoneria di restare «fedele a Dio e alla Santa Chiesa». Obbligo ulteriormente ribadito dagli statuti emanati nel 1704 dalla Loggia di York.

Gli anni che seguono vedono l'istituzione muratoria, ormai completamente “speculativa”, diventare terreno di scontro fra gli opposti schieramenti politico-religiosi. Scrive il Francovich:

«Ai primi del secolo XVIII, da parte dei seguaci degli Hannover, per lo più protestanti o deisti, si cerca di reagire a questo stato di cose e di strappare il controllo delle logge agli stuardisti, opponendo alla massoneria giacobita una massoneria hannoveriana. Se presta a tale impresa l'esistenza in Londra di una serie di logge che avevano perduto ogni carattere operativo […] vivacchiando alla meno peggio[...] Furono appunto quattro di queste logge che, per iniziativa di alcuni dirigenti hannoveriani si fusero de dettero vita il 24 giugno del 1717 durante la solennità massonica di San Giovanni Battista – alla Gran Loggia di Londra. La gran loggia si assunse subito l'incarico di unificare i regolamenti della massoneria e si può dire che da questo momento i semplici artigiani sparirono dalle assemblee e la massoneria cessò di essere una corporazione di maestri d'opera per diventare un corpo puramente speculativo». 57

(Da: G. Amico, Dalla Massoneria di mestiere alla Gran Loggia d'Inghilterra, CSI, Ars Graphica, Savona 1980)

53. Cfr. Eugenn Lehnnoff, Il Libero Muratore, Bastogi, Livorno 1976, p. 41-42.
54. cfr. F.A. Yates, L'Illuminismo dei Rosa Croce, Einaudi, Torino 1976, p. 243 e sgg.
55. Cfr. E. Lennhoff, cit., p. 42.
56. Cfr. B. Fay, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII, Einaudi, Torino 1939, p.100.
57. Cfr. C. Francovich,Storia della Massoneria in Italia, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 11-12.


Una precisazione è doverosa: in questi quasi 40 anni la ricerca storica sulle origini della Massoneria ha fatto passi da gigante, il testo è quindi da considerarsi datato, come peraltro dimostrano i testi citati, i più recenti dei quali sono degli anni '70.

8. Fine





sabato 6 luglio 2019

7. Il declino delle corporazioni e la nascita del mondo moderno


    Clusone. Oratorio dei Disciplini. Trionfo della morte.

Il declino del mondo medievale e l'affermarsi del mondo moderno portano con sé la fine della istituzione corporativa. All'artigiano che conosce i segreti del mestiere, si contrappone il borghese che conosce i segreti del capitale. È una battaglia persa in partenza che pone le premesse, come vedremo nel prossimo capitolo, del passaggio in Inghilterra dalla Massoneria di mestiere medievale a quella filosofica moderna.

Giorgio Amico

Il declino delle corporazioni e la nascita del mondo moderno

Il fiorire del gotico segna il periodo di massimo splendore dell'associazione muratoria, per due secoli la corporazione vede crescere il proprio prestigio e le proprie fortune, poi con i primi segni della grave crisi che incombe sull'Europa, inizia improvviso il declino.

Nei primi anni del XIV secolo l'ondata espansiva dell'economia medievale iniziata con il Mille si arresta bruscamente. Il commercio ristagna, l'industria declina, l'incremento demografico si blocca, le città si spopolano nuovamente.

Il continente è devastato da spaventose catastrofi naturali e dalla terribile guerra dei Cent'anni che, protrattasi dal 1339 al 1459, mette in ginocchio i due paesi più prosperi: Francia ed Inghilterra.

La carestia che per tre anni, dal 1315 al 1317, devasta l'Europa, la peste nera, arrivata dall'Asia, che infuria dal 1347 al 1250 con virulenza inaudita, cancellano d'un colpo oltre un terzo dell'intera popolazione europea.

Passato l'incubo delle guerre e delle pestilenze, ne rimangono le tragiche conseguenze: bande di briganti terrorizzano le campagne, la fame del il freddo fanno strage degli abitanti delle città, ovunque dilaga la violenza.

È il mondo desolato che François Villon descrive in un pugno di versi:

En ce temps que j'ai dit devant,
Sur le Noël, morte saison
Que le loups se vivent de vent
Et qu'on se tient en sa maison
Pour le frimas, pres du tison...

In quel tempo che ho detto avanti,
Verso il Natale, morta stagione,
Quando i lupi vivono di vento
E ognuno in casa, in un cantone
Sta per il gelo, presso un tizzone... 46



La crisi del mondo tradizionale, giunto ormai al culmine della sua parabola, segna la nascita di un ampio antagonismo sociale. Scrive il Pirenne:

«Verso la fine del secolo il proletariato cominciò a formarsi anche all'interno di quelle piccole corporazioni artigiane, la cui organizzazione era diretta alla difesa dell'indipendenza economia dei membri. Tra i maestri artigiani e gli apprendisti e i compagni, che lavoravano alle loro dipendenze, l'intesa era durata finché fu possibile ottenere facilmente la qualifica di maestro. Ma dal giorno in cui, con l'arresto dell'incremento demografico, gli artigiani si videro costretti a rinunciare a sviluppare ulteriormente la loro produzione l'ascesa verso tale qualifica era diventata sempre più difficile. La tendenza a riservarla alle famiglie che già la detenevano si manifestò con ogni genere di disposizioni: prolungamento dell'apprendistato, aumento della tassa per ottenere il titolo di maestro, obbligo di eseguire un “capolavoro” a garanzia delle capacità dell'aspirante. In breve, ogni corporazione artigiana si trasformò in un gruppo egoista di padroni decisi a trasmettere ai figli o ai generi la clientela ormai numericamente ristretta delle loro piccole botteghe. Non c'è da stupirsi, quindi, se fin dalla metà del XIV secolo, tra gli apprendisti e specialmente tra i lavoranti che vedevano sfumare la possibilità di migliorare la propria condizione, affiorò uno scontento che si manifestò con scioperi e richieste di aumento salariale e infine con la lotta per partecipare insieme con i maestri al governo della corporazione è...]. L'identità di interessi e rivendicazioni che legava tra loro i lavoranti, fece presto sorgere fra di loro associazioni di mutuo soccorso e difesa, che si estesero a molte città. Si tratta dei compagnonnages o gesellenverbande, che apparvero dapprima in Francia e un poco più tardi in Germania, e il cui scopo fu quello di fornire lavoro ai membri e proteggerli contro lo sfruttamento dei maestri». 47

Nel 1420 il compagnonaggio appare in Francia ormai nettamente definito, In una ordinanza di Carlo VII ai compagni calzolai di Troyes si parla di

«Molti Compagni e operai del detto mestiere, di molte lingue e nazioni, che vanno e vengono per le città per apprendere, conoscere e sapere gli uni degli altri». 48

È da questa drammatica lacerazione del tessuto sociale medievale che, crediamo abbia avuto origine la leggenda di Hiram, maestro architetto del tempio di Salomone, assassinato da tre apprendisti gelosi. La leggenda, sconosciuta nell'antichità, riflette infatti la consapevolezza di una dualità maestro-apprendista, contrapposta al mito del Maestro simbolo di unità e di ordine. 49



Verso la metà del secolo le menti più acute della Libera Muratoria compresero che occorreva al più presto rilanciare l'associazione. Nel 1459 si svolse, sotto la protezione dell'imperatore Massimiliano, raffigurato in una incisione commemorativa dell'avvenimento con le insegne di maestro architetto, l'Assemblea Generale di Ratisbona della corporazione degli scalpellini e tagliatori di pietre della Germania.

Nel congresso, a cui parteciparono 19 maestri, venne deciso di redigere una nuova costituzione dell'associazione e di nominare Gran Maestro l'architetto del cantiere principale del Duomo di Strasburgo., Jost Dotzinger di Worms. Nonostante tutti questi sforzi, il corso della storia non poteva più essere deviato.

La ripresa delle corporazioni non fu di lunga durata. Le corporazioni edili perdettero via via i loro privilegi e per la maggior parte furono sciolte nel XVII secolo. A questo declino non fu estranea la rottura dell'unità culturale e religiosa d'Europa dovuta alla Riforma.

Nel 1495, ad esempio, nella fino allora tranquilla Inghilterra si registrò un brutale attacco alla Massoneria. Enrico VIII, accentratore e tirannico, sospettando che nelle confraternite si annidassero, proteggendosi con il velo del segreto oppositori e cospiratori cattolici, per sventare ogni possibile minaccia al suo potere, emanò un editto col quale si vietava ogni associazione fondata su riti e segni di riconoscimenti segreti.

Anche in Francia il clima non era più favorevole alle società iniziatiche: nel luglio del 1500 il Parlamento di Parigi vietò severamente ogni riunione di massoni sotto pena della confisca dei beni e del decadimento delle rispettive qualifiche professionali. 50

Di fronte alle persecuzioni della Chiesa e dei sovrani, le organizzazioni massoniche e compagnoniche furono costrette, per non interrompere i loro lavori, ad entrare in una specie di clandestinità e a celarsi sotto l'insospettabile facciata di innocue associazioni religiose.

In Inghilterra nel 1509 nasce la “Gilda dei costruttori” sotto il patrocinio di San Giovanni e la protezione della Chiesa. A Parigi, nel corso del XVII secolo opera una “Confraternita di san Giuseppe dei Compagni carpentieri”, con sede presso la chiesa dei canonici regolari al Faubourg Saint-Germain.

La natura religiosa dell'associazione copre il mantenimento delle pratiche segrete del compagnonaggio, allora proibite, come testimonia un'immagine sacra della Confraternita. L'illustrazione, risalente al 1677, rappresenta San Giuseppe al lavoro, la Vergine seduta e Gesù fanciullo impugnante un compasso. Ai lati panoplie d'utensili, fra i quali spiccano un compasso ed una squadra incrociati. 51



Se queste misure ebbero una qualche efficacia concreta, le condanne ecclesiastiche e le angherie dei despoti, poco o nulla valsero nei confronti della ben più grave insidia rappresentata dal nuovo spirito, emanazione dell'allora nascente borghesia, che a partire dal secolo XVI diede mano all'affossamento delle strutture politiche, culturali, religiose della società medievale. L'autunno del Medioevo recava inevitabilmente con sé il declino irreversibile dell'istituzione corporativa.

«Il commercio – scrive lo Jacq – si erge contro l'artigianato e comincia a prevalere su esso. Oramai non vi sono più “artefici” e “operativi”, bensì semplici “operai”, cioè persone considerate dei poveri diavoli senza intelligenza e che formano il più basso strato della società». 52

(Da: G. Amico, Dalla Massoneria di mestiere alla Gran Loggia d'Inghilterra, CSI, Ars Graphica, Savona 1980)

46. Cfr. François Villon, Poesie, feltrinelli, Milano 1966, p.3.
47. Cfr. Henri Pirenne, Storia economica e sociale del Medioevo, Garzanti, Milano 1967, p. 226.
48. Cfr. Geoges Allary, Le Compagnonnage, Métiers d'art, Paris 1978, p.19.
49. Cfr. J.C. Pichon, L'altra storia, Rosada, Torino 1972, p. 249.
50. Cfr. C. Jacq, La Massoneria. Storia e iniziazione, Mursia, Milano 1978, p. 113.
51. Cfr. Geoges Allary, cit., p. 24-25.
52. Cfr. C. Jacq, cit., p. 113-114.

Una precisazione è doverosa: in questi quasi 40 anni la ricerca storica sulle origini della Massoneria ha fatto passi da gigante, il testo è quindi da considerarsi datato, come peraltro dimostrano i testi citati, i più recenti dei quali sono degli anni '70.

7. Continua