sabato 30 novembre 2019
martedì 26 novembre 2019
Vivere in un mondo e sognarne un altro. Alias: Aleph di Raffaele K. Salinari
Recentemente Raffaele
K. Salinari ha presentato a Savona il suo libro Alias: Aleph.
Riportiamo l'introduzione all'incontro.
Giorgio Amico
Vivere in un mondo e
sognarne un altro
La modernità
capitalistica in cui abbiamo la ventura di vivere si connota, per
usare il titolo di una fortunata opera di René Guénon, come il
regno della quantità a partire da una onnipervasiva presenza delle
merci. È il mondo del molteplice, della progressiva frammentazione
di tutto ciò che prima rappresentava comunque un'unità, della
separazione dell'uomo da se stesso e dunque dagli altri uomini e
dalla natura.
Si vive in un eterno
presente, connotato da un consumo ipertrofico e compulsivo, in una eterna illusoria primavera che rifiuta l'idea stessa della malattia,
dell'invecchiamento e della morte. L'avvento del mondo moderno con il
suo razionalismo esasperato e il suo culto della tecnica e della
scienza segna una perdita profonda di significato:
“Quanto più si è
sviluppata la coscienza scientifica – annota Jung in uno dei suoi
ultimi scritti – tanto più il mondo si è disumanizzato. L'uomo si
sente isolato nel cosmo, perché non è più inserito nella natura e
ha perduto la sua «identità inconscia» emotiva con i fenomeni
naturali (…) Nessuna voce giunge più all'uomo da pietre, piante o
animali, né l'uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il
suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno
quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico
sprigionava. Questa perdita enorme è compensata solo dai simboli dei
sogni. Essi ci ripropongono la nostra natura originaria, con i suoi
istinti e il suo particolare pensiero”.
Concetto ripreso e
sviluppato da Raffaele Salinari che evidenzia il carattere di vera e
propria sofferenza psichica causata da questa radicale trasformazione
del vivere e del sentire:
"La ricerca di
livelli sempre più nevrotici di sicurezza fisica individuale è
degenerata in una insicurezza generalizzata, e questo ha prodotto una
tecnologia sempre più energivora ed aggressiva; la dipendenza da ciò
che di fatto non controlliamo - le reti globali sfuggono alla
gestione del singolo - sono la fonte maggiore di instabilità
profonda, sia per le singole persone, sia per l'umanità intera.
In definitiva, il
decadimento del sacro dal nostro orizzonte immaginale, e il
conseguente svuotamento simbolico dei suoi gesti, genera a sua volta
una visionarietà «perturbata» delle relazioni natura/cultura che
mette a repentaglio il nostro stesso equilibrio psichico, ammorbato
dalla volontà di affermazione prometeica e di sottrazione all'ordine
superiore delle cose".
È un passo di
Alias:Aleph , volume in cui l'autore (medico, docente universitario,
scrittore, attivista nel campo della tutela dei diritti umani)
raccoglie una corposa serie di scritti apparsi negli anni scorsi sul
supplemento culturale de il manifesto e ispirati dal famoso racconto
di Borges, preso a simbolo della condizione umana e di possibili
percorsi di liberazione da questo stato di estrema alienazione
simbolizzati dalla ricerca dei luoghi dove si manifesta l'Aleph,
prima lettera dell'alfabeto ebraico e dunque simbolo di quell'unità
primordiale di tutto ciò che esiste che, come la tradizione ci
insegna, è compito di ogni uomo tentare di ricomporre.
Tema di tutti gli scritti,
che riuniti in volume manifestano a pieno la loro organicità quasi a
ricomporre un ideale percorso di ricerca, è il ritorno a questa unità
primordiale, la ricerca instancabile della "parola perduta"
del mito hiramico che, tradotta nel nostro linguaggio moderno,
significa superamento della frammentazione del mondo fenomenico e
dunque attribuzione di senso e significato alla nostra stessa
esistenza individuale.
Leggere questo libro è
compiere un viaggio simile al volo mistico dello sciamano alla
ricerca dell'anima perduta, fondamento della guarigione della
malattia del vivere in tutte le sue manifestazioni comprese quelle
fisiologiche. Un percorso verso il centro del labirinto degli stati
molteplici dell'essere che, come ci ricorda Dante nella Commedia,
che di questo tratta, non porta fuori dal mondo, ma rendendoci
pienamente umani ci avvicina all'altro, ci rende veramente capaci di
compassione, cioè di sentire la sofferenza degli altri come nostra.
E allora, ai tanti luoghi
alefici raccontati con estrema maestria dall'autore noi ci
permettiamo di aggiungere Lampedusa, oggi la porta cardine della
ri/scoperta dell'altro come parte essenziale della nostra stessa
esistenza di uomini capaci di "virtute e canoscenza" o, come dice una tradizione di cui ci sentiamo profondamente parte, "liberi e di buoni costumi".
Raffaele K. Salinari
Alias: Aleph. Mundus
imaginalis borgesianus
Punto Rosso, 2017
venerdì 22 novembre 2019
Azione Comunista da Seniga a Cervetto (1954-1966)
E' in dirittura d'arrivo il libro "Azione comunista da Seniga a Cervetto (1954-1966)" che ricostruisce per la prima volta in modo dettagliato il caso Seniga (il dirigente dell'apparato parallelo del PCI fuggito nel 1954 con documenti e fondi "neri" del partito) e la successiva nascita del giornale Azione comunista e poi del Movimento della Sinistra Comunista. Del MSC, il più consistente gruppo a sinistra del PCI prima del 1968, non esisteva a tutt'oggi una storia organica,salvo un sintetico saggio uscito nel 1980 sulla rivista "Classe".
Il libro ricostruisce nei dettagli l'attività di Seniga dal 1954 alla sua espulsione dal Movimento della SC nel 1959, attività connotata da forti elementi di ambiguità, come dimostrano i rapporti continuativi con il capo dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, Umberto D'Amato, incaricato del contrasto "coperto" al Partito comunista e il cui nome si ritrova in tutti i casi più oscuri della strategia della tensione a partire dalla strage di Piazza Fontana.
La seconda parte del volume è invece dedicata a ricostruire l'azione del savonese Arrigo Cervetto, già fondatore ed esponente di primo piano dei Gruppi Anarchici d'Azione Proletaria, che dagli inizi del 1959 si adopera attivamente, insieme al dirigente operaio genovese Lorenzo Parodi, a trasformare il Movimento della Sinistra Comunista in un partito leninista saldamente organizzato su una coerente linea strategica antistalinista.
Il volume si conclude con la ricostruzione nei dettagli della scissione del 1965 che darà vita da un lato alla nascita del giornale Lotta comunista e del gruppo omonimo diretto da Cervetto e Parodi e dall'altro della effimera Federazione marxista-leninista d'Italia destinata a una breve e travagliata esistenza.
Il volume di 350 pagine, sarà disponibile nelle librerie dal gennaio 2020, ma può già da ora essere richiesto direttamente all'Editore al seguente indirizzo: erre.emme@enjoy.it
giovedì 21 novembre 2019
Un anno di svolta. La polemica Secchia-Togliatti del 1953
È in via di editing il volume "Azione comunista da Seniga a
Cervetto (1954-1966)" che ricostruisce la storia del Movimento
della Sinistra Comunista dai suoi esordi nel 1954 alla crisi definitiva del
1965 conseguente alla rottura fra la componente leninista di Cervetto
e Parodi (da cui prenderà poi vita l'attuale Lotta comunista) e la
frazione maoista di Raimondi e Bazzanella (che diventerà poi
l'effimera Federazione marxista-leninista d'Italia). Del libro, la
cui uscita è prevista a breve, proponiamo l'incipit.
Giorgio Amico
Il 1953, un anno di
svolta
Come
si scriveva una volta nei romanzi d'appendice, la storia che andiamo
a raccontare ha inizio nel 1953, vero anno di svolta, in cui lo
scontro in corso in URSS sul dopo Stalin si trasferisce nel PCI fra
gli “operaisti” che vedono ancora nella fabbrica il centro delle
contraddizioni su cui fare leva per il cambiamento radicale della
società italiana e i “rinnovatori”, ormai votati ad una tattica
incentrata sul Parlamento, incamminati non senza tentennamenti sul
lungo e accidentato percorso destinato a inserirli a pieno titolo
nelle istituzioni democratiche repubblicane. È,
per metterla sul personale,
lo scontro fra Secchia e Togliatti che prende la forma, sul modello
di ciò che sta accadendo in URSS, di una battaglia senza esclusione
di colpi per una autentica direzione collegiale del partito che di
fatto liquidi l'egemonia fin qui incontrastata del “Migliore”.
Nella particolarità italiana, sono i “duri” del
partito, gli uomini dell'apparato parallelo, a chiedere un deciso
cambiamento democratico nei metodi di direzione politica al vertice
del partito. Una situazione che un osservatore attento come Danilo
Montaldi definirà paradossale.
Pensando di interpretare
il nuovo clima che si respira a Mosca, dove si parla di “direzione
collegiale” come risposta ai problemi del post stalinismo, Secchia
coglie l'occasione per uscire allo scoperto e chiedere un profondo
rinnovamento della vita interna del partito.
Aspettative
condivise dal suo principale collaboratore, Giulio Seniga,
ex-partigiano e responsabile del settore più delicato dell'apparato
parallelo del PCI, quello incaricato di gestire “case sicure” in
cui occultare fondi e documenti che devono restare segreti.Durissima
la risposta di Togliatti, delegata al fido D'Onofrio, che non lascia
spazio a mediazioni, svolta in un linguaggio cifrato comprensibile
solo dagli iniziati. Una polemica
indiretta,
cifrata, ed è difficile dire quanto sia compresa non solo dalla
base, ma dagli stessi quadri intermedi del partito; sta di fatto che
il conflitto fra Togliatti e Secchia, per quanto sotterraneo, si
inasprisce e si avvia a un punto di non ritorno.
Una
polemica fra ostinati sognatori della lotta armata, tanto per citare
il (brutto) libro di Miriam Mafai e ormai convinti democratici
sostenitori di un socialismo senza filo spinato? Assolutamente no,
come nota già nel 1967 Marcello Flores per cui:
L'operaismo
di Secchia si traduce puramente in un rafforzamento del partito, in
una maggiore attenzione organizzativa all'interno dei luoghi di
produzione; mai in una diversa concezione dell'unità di classe,
degli obiettivi, delle forme di lotta, delle alleanze sul terreno
sociale […]. Se la linea democratico-nazionale di Togliatti si
presenta come una strategia difensiva che non considera le condizioni
reali adatte ad una politica offensiva sul terreno di classe e non
prefigura, quindi, nel breve periodo, che una massimizzazione della
propria forza e della propria presenza nella società, le ipotesi
organizzativo-massimalistiche di Secchia accentuano e codificano
ancora di più questo carattere difensivo; certo una difesa più
dura, più intransigente, ma anche una sostanziale sfiducia nella
possibilità delle masse di innescare un processo alternativo.
In
realtà, siamo in presenza di un contrasto non sulla strategia
complessiva del partito, ma sulla tattica, di una accentuazione
massimalistica e operaistica del togliattismo, cioè della forma
storicamente assunta dallo stalinismo nel movimento operaio italiano.
Una versione più dura e militante della via italiana al socialismo
che non va al di là dei limiti ben definiti di questa, ma che
proprio per la durezza, soprattutto verbale, usata può apparire
accattivante per chi è stanco di attendere una ora x che non arriva
mai. Che quello fra Secchia e Togliatti sia un contrasto tutto
interno alla stessa ipotesi strategica non lo rende tuttavia meno
aspro. La risposta di Togliatti alla fronda secchiana sarà
durissima con l'obiettivo per nulla celato di fare il vuoto attorno
al numero due del partito. Uno dopo l'altro saltano i segretari
federali, dirigenti, come Alberganti a Milano, legati a Secchia da un
rapporto personale di fedeltà risalente agli anni della cospirazione
antifascista o della guerra partigiana. Già nel 1953 viene rimesso
in discussione il monopolio dell'organizzazione da parte di Secchia
e insieme a questo il ruolo egemonico finora svolta dai quadri
formatisi nei tempi dell'emigrazione e poi della lotta armata. Nel
rapporto al Comitato Centrale del 7 dicembre 1953 Togliatti chiude la
questione, prima facendo suo il tema della direzione collegiale e
poi portando l'affondo finale contro i «secchiani», visti come un
peso morto, un ostacolo sulla via del necessario rinnovamento del
partito.
Il
PCI ha riassorbito la botta del 1948 ed è all'apice della sua forza
organizzata; 2.145.000 iscritti, di cui 160.000 i nuovi reclutati.
Eppure per i comunisti il momento è particolarmente difficile. È
in pieno svolgimento una violenta campagna anticomunista che utilizza
ogni mezzo, lecito e illecito, per ridurre il peso del Partito nel
paese e spazzarne via la la presenza nelle fabbriche. Sono gli anni
delle provocazioni anticomuniste di Pace
e Libertà,
il movimento finanziato dalla CIA e coordinato dalla stessa
ambasciata americana a Roma. La guerra fredda è in pieno svolgimento
e l'Italia, per la sua stessa collocazione geografica al centro del
Mediterraneo, ne rappresenta uno dei principali fronti. Nel suo
libro-testamento, Il
sarto di Ulm,
Lucio Magri offre una efficace rappresentazione di questa
particolarità italiana:
Il
Italia la nuova guerra fredda si trascinò più a lungo e, nel
'54-'55, ebbe anzi un ritorno di fiamma. Il governo Scelba-Saragat
ripropose le pratiche della repressione poliziesca (nello stesso
giorno della sua nascita ci furono quattro morti durante una
manifestazione a Mussomeli), e si aggiunse l'esclusione per legge dei
comunisti da ogni posto di rilievo nella pubblica amministrazione;
licenziamenti, e punizioni nelle fabbriche per ragioni politiche
divennero ancor più sistematici; la censura diretta o nascosta ai
danni delle attività culturali fu più stringente; una prima e
ancora limitata ondata di assunzioni al lavoro dell'industria fu
politicamente discriminatoria; le divisioni aspre tra le
confederazioni, e l'influenza della Coldiretti e della Federconsorzi
accentuavano le difficoltà delle lotte sociali. Infine era
cresciuto, anziché attenuarsi, l'intervento diretto dell'ambasciata
americana: l'affacciarsi di un eventuale allargamento dell'alleanza
di governo al Partito socialista era visto con preoccupazione ed
esigeva una ancor più netta discriminazione dei comunisti.
Pace
e Libertà è in prima
fila in questa azione, attraverso la produzione di materiali,
volantini, documenti, lettere, che vengono poi massicciamente diffusi
fra i militanti comunisti, utilizzando schedari segreti e del tutto
illegali che contengono migliaia di nomi e indirizzi. L'obiettivo è
far sentire sotto tiro i comunisti, soprattutto quelli che lavorano
in fabbrica o nell'amministrazione pubblica, esposti alle
rappresaglie delle direzioni aziendali. È solo uno dei tanti
tasselli della strategia della «guerra psicologica» al comunismo
programmata nella riunione del 14 maggio 1952 del comitato dei capi
di stato maggiore degli eserciti della NATO e nota con il nome in
codice Demagnetize.
Una
campagna a tutto campo che coinvolge in ruoli non secondari anche
esponenti della sinistra non comunista, come Saragat e il suo
partito, sindacalisti “liberi” di CISL e UIL, uomini dal passato
torbido come Ignazio Silone, transfughi della guerra fredda come
Eugenio Reale, riviste come “Critica Sociale” del socialista di
destra Faravelli. Il tutto in nome dei valori della democrazia e
dell'Occidente minacciati dall'espansionismo sovietico.
Un dato che occorre sempre tenere ben presente quando si affronta a
qualunque titolo la politica italiana degli anni Cinquanta. È
in questo contesto che si colloca e trova alimento il caso Seniga.
martedì 19 novembre 2019
Segni dei tempi: la rottura del nesso storia-politica
Riprendiamo dalla
pagina Fb di un caro amico alcune riflessioni sul rapporto fra
politica e cultura che consideriamo di grande interesse e uno stimolo
importante ad una approfondita (e non emozionale) riflessione critica
sullo stato attuale delle cose.
Marco Bellonotto
La rottura del nesso
storia-politica: un segno della decadenza del mondo occidentale?
Ogni volta che esce un
romanzo di Walter Veltroni (questo "Assassinio a Villa Borghese"
deve essere il terzo o il quarto) mi tornano in mente le parole di un
articolo di Giovanni De Luna, storico contemporaneista
dell'Universita' di Torino, pubblicato su "La Stampa" ormai
molti anni fa: "Amendola e Togliatti scrivevano libri di storia,
Veltroni e Franceschini scrivono romanzi".
Il senso
dell'affermazione non risiede in un confronto letterario. E neppure
si intende sfottere Veltroni o rimpiangere Amendola e i suoi tempi.
La riflessione che fece De Luna, uno degli studiosi più attenti ai
mutamenti del suo mestiere nel corso degli ultimi decenni, è come lo
studio e la conoscenza della storia siano diventati marginali (per
non dire inesistenti) per la quasi totalità della classe politica
italiana e, inoltre, come la rottura del nesso storia-politica (nella
cultura occidentale la storia ha nutrito la politica fin dai tempi di
Tucidide) abbia portato conseguenze di indebolimento della capacità
di analisi, mancanza della dimensione comparativa, superficialità
ecc.
Non solo nelle classi
dirigenti: il processo si è esteso provocando (insieme ad altri
fattori naturalmente, e in primis l'uso pervasivo dei media, vecchi e
nuovi) una desertificazione di quegli spazi pubblici dove la politica
veniva praticata dai cittadini (argomento a cui De Luna ha dedicato
un saggio perspicace, "Una politica senza religione").
Si potrà obiettare che
la concezione che Togliatti e Amendola avevano della storia era
rigidamente orientata in senso marxista; ma i libri erano, per quelle
generazioni, uno strumento per conoscere e cercare di migliorare la
società, la vita, il futuro ("Questo è vero studio, e studio
che rende, anche per comprendere meglio le posizioni generali. Ma
richiede attenzione, applicazione, pazienza, sforzo, disciplina - e
ore e ore di lavoro ", ancora Togliatti; ma questa affermazione
l'avrebbero potuta sottoscrivere Moro, Fanfani, La Malfa...) e non un
mezzo per essere chiamato "scrittore" o "intellettuale"
durante le interviste; non un orpello decorativo abilmente (?)
collocato dallo staff della comunicazione (Renzi che si fa
fotografare con una copia de "L'arte di correre" di
Murakami).
giovedì 14 novembre 2019
LILIANA LANZARDO FRA STORIA E ROMANZO
LILIANA LANZARDO FRA STORIA E
ROMANZO
Venerdì 15 novembre alle ore 17 nella sede della Società ligure di storia patria (Palazzo Ducale, piazza Matteotti 9, Genova) sarà presentato il libro di Lilliana Lanzardo, "Eugenio e le sue due madri" (Neos edizioni), all'incontro parteciperanno, con l'autrice, Luca Borzani, Giuliano Galletta, Carlo Bitossi.
Negli anni Settanta, la
memoria delle vicende vissute da civili e militari durante la Seconda
Guerra Mondiale diventa, per Eugenio, il punto di partenza per
riscoprire sua madre tra le figure femminili della sua vita e
conoscere se stesso.
Eugenio, giovane pediatra, si trova ad affrontare la morte improvvisa di Anna, sua vitalissima mentore nella professione e che lui considera una seconda madre. La donna gli ha lasciato un plico di lettere scambiate con il soldato diventato poi suo marito, ma Eugenio scopre che quella corrispondenza è in realtà di un’altra ragazza, Elisa. Lo sconcerto davanti a questa rivelazione lo induce a una ricerca per chiarire le relazioni fra le figure fondamentali della sua infanzia. Compaiono così Helga, sua madre, risoluta tedesca antinazista; suo padre, ex socialista deluso e prigioniero di guerra; la fidanzata Ilaria, che sta lavorando a una tesi femminista sulle donne e la guerra; e la famiglia di Anna. Ma cosa sta davvero cercando Eugenio? Semplicemente se stesso: comprendendo quanto gli eventi storici abbiano condizionato il comportamento delle persone a lui vicine troverà infine una serena consapevolezza di sé.
L’autrice mette su carta tutta la sua esperienza nel racconto orale della guerra, regalando ai lettori un testo narrativo pregno di esperienze concrete, capaci di condurlo in un viaggio corale e intimo, alla ricerca del vero senso dell’appartenenza.
LILIANA GUAZZO LANZARDO è
nata a La Spezia nel 1938. Sin da giovanissima ha partecipato
all’attività politica nell’Usi e dal 1959 nell’intervento del
gruppo e rivista Quaderni rossi, a Torino, ove vive tuttora. Ha
insegnato all’Università di Torino, Milano e Trieste Metodologie
sociologiche e Metodologia della ricerca storica. Nelle sue numerose
ricerche sulla classe operaia e i partiti, sul lavoro industriale,
sui ceti sociali, le ostetriche, sulla storia fotografica del lavoro,
si è avvalsa delle fonti orali e delle immagini. Ha pubblicato
questi suoi studi con Einaudi, Franco Angeli, Editori Riuniti,
Feltrinelli. Concluso il periodo di insegnamento, pur continuando a
occuparsi di storia orale e fotografia, si è dedicata alla narrativa
(Non è il mare il mio nemico, edito da Mursia), alla scrittura di
racconti per l’infanzia con illustrazioni ad acquarello e alla
scultura in ceramica, conseguendo premi in Italia e all’estero.
Alla morte del marito Dario Lanzardo ne ha riordinato il ricco
deposito fotografico, ora presso l’Archivio Storico di Torino, dopo
aver pubblicato con Seb27 la biografia corredata da immagini dal
titolo Il racconto fotografico di Dario Lanzardo.
Raffaele K. Salinari, Quattro colonne
Il simbolismo della
colonna, asse portante del cosmo, è presente in tutte le tradizioni.
Raffaele Salinari, che martedì 19 novembre incontrerà alle 18.00
alla libreria Ubik di Savona amici e lettori, ce ne presenta
quattro esempi affascinanti.
Raffaele
K. Salinari
Quattro
colonne
Dagli albori dell’Arte
architettonica, i cui fondamenti esoterici nascono col tempo stesso
dell’umanità, la colonna è stata la struttura portante per
antonomasia. Molto più che altre componenti architravi, ogive,
trabeazioni essa rappresenta infatti l’elevazione e, al tempo
stesso, la forza, la stabilità e la bellezza, caratteristiche che la
rendono centrale nella simbologia delle costruzioni sacre, basti
pensare solo alle due grandi colonne, Jakin e Boaz, descritte nella
Bibbia all’ingresso del Tempio di Salomone. Oggi ritroviamo queste
stesse colonne, il cui nome significa rispettivamente «stabilità»
e «forza», all’ingresso di ogni Tempio della Libera Muratoria,
ispirata da quella stessa Arte che permette all’umanità di
costruire il proprio Tempio interiore a modello di quello cosmico il
cui ordinatore è, per questa tradizione, Il Grande Architetto
dell’Universo.
La colonna assomma il sé dunque tutta una serie di significati metaforici che la pongono al centro dei miti fondativi in culture di ogni tempo e civilizzazione: quelle di Ercole, erette dall’eroe come finis terrae col monito non plus ultra ad intimare di non oltrepassare il termine del mondo conosciuto, o le fragili e colorate colonne dei templi scintoisti che si rivolgono come preghiere alla Grande Dea Amaterasu, divinità solare da cui discendono tutte le cose. Nelle Americhe precolombiane troviamo invece il Totem, colonna identitaria che ipostatizza tutto il complesso sistema delle relazioni che intercorrono tra le componenti di uno stesso bioma.
Nei capitelli delle colonne si nascondono spesso i più reconditi segreti; Marius Schneider scoprì le sottili corrispondenze tra i canti sacri e le figure effigiate su quelli romanici di San Cugat, di Gerona, di Ripoll. A saperle ascoltare forse tutte le colonne dei luoghi consacrati cantano ancora la musica delle Sfere Celesti. Ma, nella verticalità della colonna, il principio ascensionale verso il divino è forse sancito plasticamente dalle storie dei monaci stiliti, come San Simeone, che visse all’altezza di ben sedici metri per tutta la vita. Tanti altri esempi sarebbero possibili, ma quello che a noi particolarmente qui interessa non è tanto cosa una colonna può sostenere o raffigurare, quanto ciò che essa può celare.
LA COLONNA ALEFICA DI
BORGES
Molte sono le storie che narrano di qualcosa contenuto all’interno di una colonna e che dunque propongono un altro aspetto dei suoi significati simbolici: la colonna come scrigno, forziere affatto speciale per materiali o immateriali che solo al suo interno possono, e devono, restare celati e protetti, protetti perché celati, celati perché protetti, fino a quando il momento arriva e la pietra può aprirsi per liberare il suo contenuto. La colonna è allora una sorta di clessidra di pietra all’interno della quale il tempo scorre misticamente, invisibile, silenzioso e segreto, sino al suo destino.
Un esempio di permanenza misteriosa ed occulta lo troviamo nel racconto l’Aleph di J.L. Borges, in cui il Maestro argentino sostiene che «i fedeli che si recano alla moschea Amr, al Cairo, sanno bene che l’universo è racchiuso nell’interno di una delle colonne di pietra che circondano il cortile centrale. Nessuno, certo, può vederlo, ma chi accosta l’orecchio alla superficie afferma di percepire, dopo un po’, il suo incessante rumore. Esiste questo Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto quando vidi tutte le cose e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa per l’oblio». Qui l’aura alefica è generata dalla presenza di una colonna affatto uguale alle altre in cui, però, è racchiuso il misterioso punto attraverso il quale è possibile vedere tutti i luoghi del cosmo da tutte le prospettive, senza sovrapposizioni, ed in tutti i tempi, passati presenti e futuri, contemporaneamente: questo è l’Aleph. È allora la natura stessa del colonnato, i suoi rimandi specchiali, ipnotici, le alternanze di luce ed ombra che si moltiplicano all’indefinito come i tasti bianche e neri di un immenso pianoforte, a chiamarci verso la scomparsa della nostra stessa ombra, risucchiata dal vortice di quella emanata da una delle colonne. Provare per credere, il gioco è tanto straniante, ovunque venga fatto, da evocare l’Aleph: il centro percettivo in cui tra noi ed il mondo non vi è più nessuna differenza, là dove il singolo torna al Tutto.
Anche nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna, dentro una delle colonne che sorreggono il mosaico dell’adorazione dei Magi, vi è celato un Aleph. Osservandola da una certa prospettiva si vede, infatti, come la figura di una entità alata, pronta a dischiudere, a chi sospende l’incredulità, come suggeriva Samuel Taylor Coleridge, il mistero dell’Uno: «trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fede poetica». La fede poetica dunque, nucleo di ogni conoscenza senza dogmi, racchiusa in una colonna.
LA COLONNA ALCHEMICA
Siamo verso il 1600, nella chiesa di Erfurt, in Germania, avviene qualcosa che nei secoli ci è stato tramandato da diverse fonti: attraverso la breccia aperta da un fulmine improvviso, sarebbero usciti da una colonna i manoscritti dell’alchimista Basilio Valentino. Nell’opera di J.J. Mangeti Bibliotheca Chemica Curiosa, edita a Ginevra nel 1702, ne troviamo a pagina 47 del primo volume la descrizione in latino: «per ictum fulminis columna Templi Erfurtensis ‚ in cuius medio diffracto scriptum, delituerat» cioè un fulmine, rompendo una colonna del tempio di Erfurt, rivelò degli scritti nascosti.
Il brano è tratto dalla biografia di Basilio Valentino, per gli studiosi dell‘Arte Regia in realtà uno pseudonimo legato a due opere fondamentali: Azoth e le Dodici chiavi. Fulcanelli, probabilmente
l’ultimo alchimista contemporaneo che abbia avuto la possibilità di operare in diretta continuità con i Maestri del passato, chiarisce nel suo Le dimore filosofali, come «il nome Basilio Valentino unisce il greco Basileus, cioè re, al latino Valens, cioè valente, al fine di suggerire il sorprendente potere della Pietra Filosofale». La stessa interpretazione la troviamo nell’Edipo chimico di Leibniz, dal quale probabilmente Fulcanelli ha tratto la sua.
Il XVII secolo è particolarmente importante per l’espansione dell’Alchimia: Spinoza stesso ci dice dell’oro scaturito da una trasmutazione ad opera della «polvere di proiezione» lasciata al suo amico Johann Friedrich Schweitzer, detto Helvetius, noto medico olandese, da un misterioso personaggio.
Il Seicento è anche segnato dai manifesti rosacruciani: nel 1614, infatti, era comparso a Kassel l’opuscolo anonimo Fama fraternitatis Rosae Crucis, che raccontando la vita di Christian Rosenkreuz (Cristiano Rosacroce), poneva le basi per una ulteriore tappa di quella Tradizione che, attraverso il simbolo dell’Ordine, una croce con al centro una sola rosa rossa, rimanda a quella conoscenza d’ordine cosmologico che può essere raggiunta attraverso l’ermetismo cristiano.
Ma ciò che simboleggia meglio l’opera di Basilio Valentino è forse proprio l’episodio della colonna: perché la storia dell’Alchimia ci tramanda questo avvenimento come fondamentale nella comprensione dei suoi segreti? Ebbene in Azoth, che come sottotitolo porta «L’occulta opera aurea dei filosofi», troviamo l’acronimo V.I.T.R.I.O L.: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, cioè visita l’interno della terra e rettificando troverai la pietra nascosta. La scritta compare su tre immagini che, secondo l’interpretazione degli adepti, riassumono sotto forma simbolico-allegorica tutte le fasi dell’Opera.
L’acronimo si trova ancora nel Gabinetto di Riflessione delle Logge Muratorie nel quale il profano neofita, letteralmente pianta nuova, viene invitato a meditare le sue scelte prima di essere eventualmente iniziato. Anche Dante, che aveva perso la «retta via», nell’affrontare la salita del Purgatorio per ritrovarla, si descrive come «rifatto sì come piante novelle, rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salir alle stelle».
Ecco allora che il lavoro interiore, il visitare la propria terra dove questa simboleggia anche le scorie del corpo e della mente che bisogna conoscere per potersi così rettificare, tornare cioè sulla «retta via», corrisponde all’opera di dissoluzione e coagulazione degli elementi che cuociono nel crogiolo alchemico. Se il lavoro dentro e fuori di noi sarà costante, meditato, umile, ispirato dagli alti valori dell’Uguaglianza, della Fratellanze e della Libertà, ecco infine che si mostrerà, come i manoscritti usciti dalla colonna di pietra, l’Occultum Lapidem, la pietra della Salvezza, metafora di una individualità libera dal giogo delle passioni ed aperta verso la conoscenza delle cose ultime.
LE RELIQUIE DI SAN MARCO
E LA SPADA DI SAN VENCESLAO
Una colonna scissa miracolosamente la troviamo anche nella storia delle reliquie di San Marco. Sappiamo che furono due mercanti veneziani, Rustico da Torcello e Bono da Malamocco, che ne trafugarono le spoglie ad Alessandria e, celatele in una cesta contenente carne di maiale, impura per i musulmani, le riportarono in laguna, sua destinazione finale. L’Evangelista, infatti, era già stato a Venezia: giunto a Roma assieme a Pietro, viene da lui inviato ad Aquileia dove converte Ermagora che sarà così il primo vescovo della città. Dopo quest’opera apostolica Marco parte per Alessandria d’Egitto, ma viene costretto da una tempesta ad approdare alle «isole realtine», il nucleo della nascente Venezia, oggi in corrispondenza del ponte di Rialto. Addormentatosi viene visitato in sogno da un angelo che lo saluta con la nota frase «Pax tibi Marce, evangelista meus», e gli promette che in quell’isola avrebbe riposato fino al Giorno del Giudizio; giunto ad Alessandria ne diviene vescovo e subisce il martirio il 25 aprile del 78. È dunque da questa città che i due mercanti trafugano le sue reliquie nel 829.
L’onore, e l’onere, di poter ospitare le spoglie del Santo legato alla sua fondazione, spinse la Serenissima a costruire la chiesa omonima per consentirne la venerazione. Nel 1063 ebbero così inizio i lavori della Basilica di San Marco che subì, però, un incendio devastante, dovuto a moti politici, tanto che l’edificio dovette essere ricostruito. Nel 1094 la chiesa era finalmente pronta per essere consacrata a Dio e a San Marco. Purtroppo, in questa circostanza, si scoprì che la teca contenente le spoglie era scomparsa. Grande cordoglio e sgomento, ma il Doge Pietro Orseolo decise che la cerimonia restasse fissata, cosi che il 25 giugno del 1098, giorno della consacrazione, accadde
il miracolo tramandato in diverse versioni negli annali e nei racconti di Venezia. La prima ci narra di un braccio che, rompendo una colonna, indicò quella dentro la quale erano racchiuse le reliquie, un’altra che da una colonna apparve l’immagine stessa del Santo. Ma noi preferiamo quella del Fratello Giacomo Casanova che, nelle sue Memorie, ci dice: «Nel momento culminante della celebrazione eucaristica, sulla colonna contenente i sacri reperti, apparve l’immagine del Leone alato, simbolo marciano. Subito venne scissa la colonna indicata e miracolosamente le reliquie riapparvero. E così la Serenissima salutò San Todaro, primo protettore della città, per affidare le sue fortune e il suo orgoglio all’Evangelista dal Leone alato il cui libro aperto significa pace, chiuso, guerra».
Anche nella magica Praga, la città del Golem, che ancora oggi vaga di notte per le stradine strette di Stare Mesto, la città vecchia splendidamente descritta nell’omonimo libro di Angelo Maria Ripellino, è una delle colonne del ponte Carlo a custodire la spada invincibile di San Venceslao. Piantata originariamente in uno dei pilastri del ponte, ad un certo momento scomparve, forse trafugata da dei bambini, spiriti innocenti e vicini alla Fonte della Vita, custodi, da allora, delle fortune della città; oppure, dice un’altra versione della leggenda, inglobata all’interno della stessa colonna, custodita nello scrigno di pietra in attesa del momento in cui, se mai ce ne fosse bisogno, un eroe possa estrarla dalla sua vagina di pietra e brandirla: una Excalibur totalmente immersa nella roccia.
Quattro colonne, quattro
storie, come i numeri che compongono la mistica tetraktis pitagorica.
Da: Alias, 24, novembre
2018
martedì 19 novembre
ore 18.00
libreria Ubik, Savona
mercoledì 13 novembre 2019
L'immagine dell'Africa nei fumetti e nei libri per l'infanzia
Giorgio
Amico
L'immagine
dell'Africa nei fumetti e nei libri per l'infanzia
L'immagine
dell'Africa spiega il filosofo ed epistemologo Valentin-Yves Mudimbe
nel suo L’invenzione dell’Africa, del 1988 ma tradotto in
italiano solo nel 2007 si è andata costruendo a partire dal
Cinquecento in modo sempre più articolato a mano e mano che la
colonizzazione del continente andava progredendo.
L’avventura
coloniale è giustificata con la superiorità dell’Occidente, prima
in nome della religione, poi dall'Ottocento in nome della scienza che
sancisce l’“inferiorità” delle popolazioni – o delle
“razze”, come si diceva allora – al di fuori del continente
europeo, rimaste ad uno stadio arretrato della scala evolutiva.La
colonizzazione viene dunque giustificata con una presunta “missione
civilizzatrice” verso i popoli africani.
Esploratori,
missionari, archeologi, antropologi, viaggiatori testimoniano di
immensi territori selvaggi, abitati da persone “primitive”e
spesso feroci. il tutto a formare un immaginario collettivo che
giustifica la colonizzazione come atto di civilizzazione.
Nel
1899 in una poesia, Il fardello dell'uomo bianco, Rudyard
Kipling presenta l'espansionismo coloniale come un dovere
dell'Occidente e in particolare dell'Inghilterra vittoriana e nello
stesso tempo fissa lo stereotipo dell'africano:
Raccogli
il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esilio
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini.
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esilio
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini.
Metà
demoni e metà bambini: questa fino agli anni '60 del Novecento
l'immagine che l'europeo ha dell'africano.
Rudyard Kipling
In
Italia in epoca coloniale ci fu una vasta produzione di letteratura
per l’infanzia, di fumetti, di figurine finalizzate alla
costruzione di una identità bianca definibile proprio in opposizione
all’alterità dei popoli colonizzati. Da notare che il paese si era
da poco unificato e , come scrisse il D'Azeglio, occorreva "fare
gli Italiani", ossia costruire le basi di un'identita comune e
condivisa. l'immagine stereotipata e negativa dell'africano come "altro" fu un momento fondamentale di questo processo,
secondo una schema bipolare elementare:
Africano-Italiano
incivile-civile
inferiore-superiore
ignorante-
istruito
stupido-intelligente
passivo-attivo
superstizioso-razionale
L'Italia
post-risorgimentale è un paese (e un popolo) in costruzione.
L'immagine stereotipata e negativa dell'altro contribuisce alla
formazione di un'immagine positiva di sé, fatta di umanità, civiltà e
potenza. Vengono mitizzate figure di esploratori o
missionari. A tutto questo si unisce una particolare visione del
colonialismo: crudele e legato a motivazioni economiche quello
inglese o francese; umano e civilizzatore quello nostrano. Insomma fin
dagli inizi il colonialismo italiano si regge sul mito degli
"italiani brava gente".
Emilio Salgari nel 1895
scrive alcuni raccontini per un periodico L’Innocenza. giornale
illustrato per bambini, pubblicato a Torino dagli editori
cattolici Speirani. Vediamone due estratti:
Il
primo estratto ha per titolo “Nel centro dell’Africa” :
Quantunque
siate piccini, avrete udito più volte parlare dell’Africa, di quel
grande continente che è abitato dai negri, dai leoni, dai
coccodrilli e dai grandi elefanti ; anzi sono certo che avrete veduto
più volte quegli uomini color cioccolatta [sic], coi capelli lanosi,
gli occhi grandi e le labbra grosse e rosse come ciliegie. Di quei
negri, molti ve ne sono di buoni, ma tanti sono assai cattivi e non
possono vedere gli uomini bianchi, sicché, se uno di noi si reca nei
loro paesi, viene ucciso o fatto prigioniero.
Il
secondo estratto ha per titolo “I Bambarras” :
Chi
saranno mai questi tipi fuliginosi [sic] e così stravaganti con
quelle capigliature foggiate a corna ? Quale parte del mondo
abiteranno ? […]Volete sapere chi sono ? Negri Bambarras. […]
Appartengono alla razza dei Negri, ma sono ancor più brutti di
quelli che si vedono talvolta anche da noi ; hanno le labbra più
grosse più sporgenti, il naso nero schiacciato, ma più largo, gli
occhi più grandi ; sono però in generale meno cattivi. (1)
Nei
libri di testo – a partire dall’esordio coloniale negli anni
Ottanta dell’Ottocento – le imprese coloniali vengono presentate
alla luce della presunta civiltà inferiore degli africani.
Onnipresente il tema dell'esistenza di razze diverse poste a diversi
livelli sulla scala dell'evoluzione. Una costante dei libri di
geografia fino almeno alla fine degli anni '60.
Il
fascismo esaspera questi concetti ponendoli alla base della
formazione delle nuove generazioni. Nel "Secondo libro del
fascista" destinato all'indottrinamento razziale degli
scolari si possono leggere frasi su “L’evidente inferiorità di
alcune razze, e specialmente di quella che si è convenuto di
chiamare negroide...”; e affermazioni perentorie sulla missione
civilizzatrice della "razza ariana": “La razza ariana ha
la missione di civilizzare il mondo, e di farne incessantemente
progredire la civiltà”.
Insomma,
la versione riveduta e corretta del fardello dell'uomo bianco del
vecchio Kipling.
Fin
dagli inizi del secolo il fumetto (appena importato dagli stati
uniti) si rivela il mezzo fondamentale per l'estrema facilità di
lettura e al contempo la grande varietà di piani interpretativi che
presenta. Strumento apparentemente semplice, può diventare (grazie
alla forza delle immagini) un sofisticato mezzo di comunicazione di
massa.
Altro
mezzo importante è costruzione delle sale coloniali dei musei e
delle mostre missionarie che venivano visitate in massa dalle scuole,
soprattutto quelle elementari: tutte le esposizioni erano disposte
per far risaltare il primato italiano e la supremazia razziale
bianca. Su imitazione degli "zoo umani" francesi di inizio
secolo la grande esposizione che si tiene a Torino nel 1911 presenta
ai visitatori una immagine dell'Africa selvaggia e primitiva proprio
allo scopo di far risaltare per contrasto la civiltà e lo sviluppo
di un'Italia in realtà arretratissima, dove, ad esempio,
l'analfabetismo, soprattutto nelle campagne del Sud, era ancora un
fenomeno di massa.
Nascono
i fumetti con Bilbolbul
La
celebre la frase di Hearst rivolta agli autori di fumetti: E’ il
padre che compra il giornale. I bambini non vedranno mai i vostri
disegni se i disegni non richiameranno prima la sua vista” viene
ripresa in pieno da i “Corriere dei Piccoli” nato nel 1908 come
supplemento per i bambini abbinato alla “Domenica del Corriere”,
l’edizione domenicale del “Corriere della Sera” che introduce
i fumetti americani, ma adattandoli alla realtà italiana e
fornendoli di nomi nostrani (come poi avverrà con i fumetti Disney.
Felix The Cat diventa Mio Mao, Jiggs and Maggie Arcibaldo e
Petronilla. Soprattutto, vengono eliminati dai fumetti i “fumetti”,
le nuvolette (balloons) con le parole che i personaggi dicono o
pensano, che vengono sostituite da filastrocche collocate sotto ogni
immagine. Il successo di pubblico del “Corrierino” è enorme
raggiungendo in breve le 800.000 mila copie vendute.
Sul
"Corrierino" appare la prima rappresentazione
dell'africano, naturalmente rivolgendosi ad un pubblico di bambini, è
un bambino. E’ una rappresentazione caricaturale, derisoria. Nasce
così, nel dicembre del 1908, il negretto Bilbolbul, protagonista di
avventure ridicole destinate inevitabilmente a finir male ambientate
in un Africa assolutamente stereotipata:, fatta di capanne, palme e
leoni.
Quattro
anni più tardi, all'epoca dell'impresa di Libia, il “Corriere dei
Piccoli” diventa il canale di una prima mobilitazione dell’infanzia
in chiave nazional-patriottica, quando sulle sue pagine compaiono le
avventure di un baldo bersagliere, Gian Saetta, alle prese con arabi
che hanno le stesse caratteristiche dell'africano: feroci, ma
infantili e dunque facilmente catturabili.
Negli
anni venti il fumetto spopola e il regime se ne appropria,
intuendone, come per il cinema, lo straordinario potenziale di
propaganda. Nel febbraio del 1923 esce in edicola “Il Balilla”,
giornalino a fumetti che si pone in concorrenza con “Il Corriere
dei Piccoli” al quale si ispira nella grafica. Anche il mondo
cattolico partecipa a questa gara alla conquista dell'infanzia: negli
stessi anni esce “Il Giornalino” di ispirazione cattolica.
Il
primo settimanale italiano a fumetti è “Jumbo“, che dal dicembre
1932 pubblica storie a puntate. Il 31 dicembre dello stesso anno,
Nerbini pubblica il primo numero di “Topolino“. Lo stesso Nerbini
lancia nel 1934 il settimanale di grande successo “L’Avventuroso“,
che per primo elimina le didascalie a favore delle nuvolette
(balloons), e ospita nei suoi fumetti quasi esclusivamente eroi
americani subito popolarissimi: Flash Gordon, Mandrake, l’Uomo
mascherato. Un mese dopo esce “L’Audace“, anch’esso di
provenienza americana. Escono poi “Il Monello” (dal 1933),
“L’Intrepido“ (dal 1935),e e “Il Vittorioso”, settimanale
di orientamento cattolico pubblicato ininterrottamente dal 1937 al
1966, venduto nelle parrocchie e promosso dall’Azione Cattolica.
Una diffusione di massa, tanto che nel 1939 i giornali a fumetti
arrivano a vendere fino a 1.900.000 copie
Pochi
giorni dopo avere emanato le leggi razziali antisemite del
17.11.1938), il 26.11.1938 il regime fascista, con una Ordinanza del
MinCulPop, proibisce la pubblicazione dei fumetti americani, “eccetto
Topolino”: eccezione, sembra, dettata personalmente da Mussolini.
I
fumetti americani rafforzano lo stereotipo del nero incapace di azione
autonoma, al massimo fedele collaboratore dell'eroe bianco a cui
fornisce la forza delle sue braccia.
E'
il caso di Lothar il servo negro di Mandrake. O dei pigmei della
giungla che hanno come capo l'uomo mascherato che essi credono
immortale.
Il
belga Tin Tin non è da meno. Tin Tin in Congo è una vera e propria
antologia di luoghi comuni a sfondo razzista.
Ma
il più razzista di tutti è Walt Disney che raccoglie e amplifica
tutti gli stereotipi razziali in voga negli USA. Esemplare è il caso
dei corvi nel film Dumbo (1937) presentati come sfaccendati
negri e il cui capo si chiama Jim
Crow, l'epitteto ingiurioso con cui veniva definito il
regime di segregazione razziale in vigore negli Stati del Sud fino
alle leggi antisegregazione degli anni '60 del Novecento. E anche
l'integerrimo Topolino non è da meno.
Da
non dimenticare, infine, come il mondo cattolico con Il Vittorioso e
varie pubblicazioni missionarie si adegui in pieno alle direttive del
regime soprattutto sul tema dell'opera civilizzatrice svolta in
Africa.
Conquista
dell'Etiopia e leggi razziali
La
guerra di Etiopia presentata come guerra civilizzatrice contro un
regime feudale è un popolo ancora semibarbaro dà ulteriore impulso
alla diffusione di questi stereotipi e prepara le leggi razziali e la
campagna antiebraica dl 1938 assuefacendo la popolazione a partire
dai più piccoli all'idea che esistano razze inferiori dai
comportamenti pericolosi e che dunque occorre tenere sotto controllo.
Il
“Libro della Quinta Classe”, il cosiddetto sussidiario per
la scuola elementare unico per tutte le scuole d’Italia nell'
edizione del 1940 accomuna africani ed ebrei nel concetto di razza
inferiore. Il passaggio è dato come automatico:
"Ma
fra i nuovi conquistatori si era mescolata la razza giudaica,
disseminata lungo le rive del Golfo Persico e sulle coste dell’Arabia,
dispersa poi lontano dalla Patria d’origine, quasi per maledizione
di Dio, e astutamente infiltratasi nelle patrie degli Ariani. Essa
aveva inoculato nei popoli nordici uno spirito nuovo fatto di
mercantilismo e di sete di guadagno, uno spirito che mirava
unicamente ad accaparrarsi le maggiori ricchezze della terra.
L’Italia di Mussolini, erede della gloriosa civiltà romana, non
poteva rimanere inerte di fronte a questa associazione di interessi
affaristici, seminatrice di discordie, nemica di ogni idealità. Roma
reagì con prontezza e provvide a preservare la nobile stirpe
italiana da ogni pericolo di contaminazione ebraica e di altre razze
inferiori.
Dopo
la conquista dell’Impero venne bandita, ad esempio, una severa
crociata contro il pericolo della mescolanza fra la nostra razza e
quella africana (meticciato).
I
popoli superiori non devono avere vincoli di sangue con i popoli
assoggettati, per non venir meno ad un’alta missione di civiltà,
per non subire menomazioni di prestigio e per non porre in pericolo
la purezza della propria razza".
Sui
manuali scolastici e sui fumetti viene esaltato l'eroismo del sodato
italiano e la viltà degli etiopi presentati come infidi e traditori.
Significative sono le cartoline per i soldati che apertamente
rivendicano le atrocità che si stanno commettendo dall'uso dei gas
agli stupri di massa.
La
letteratura per l'infanzia. due casi emblematici
Anche
l'editoria per l'infanzia riprende e diffonde questa immagine
dell'Africa che alterna secondo i casi lo stereotipo. esemplare è la
storia di Pik Badaluk, edizione nel 1944 di un libro per
l'infanzia uscito in Germania nel 1921 e ispirato al modello del
Little Black Sambo americano. Il libro uscito a Trieste presenta un
bambino decisamente stupido, destinato, come il vecchio Bilbolbul di
inizio secolo, a scatenare l'ilarità del lettore più piccolo. Il
disegno è elementare, i personaggi sono tutti con grandi occhi a
palla e grosse bocche sempre spalancate, a sottolineare la mancanza
di intelletto e dunque di individualità dell'africano.
Il
libro ha numerosissime ristampe, fino all'edizione rilegata dal 2014
(che festeggia i 70 anni), anche se nelle ultime edizioni l'editore
si è premurato di porre una premessa (fatto unico nei libri per
l'infanzia) in cui si difende da ogni possibile accusa di razzismo.
La fortuna italiana di Pik Badaluk è emblematica di come con
l'avvento dell'Italia repubblicana, democratica ed antifascista,
l'atteggiamento verso l'Africa e l'africano non cambi, ma continui a
ripetere sostanzialmente gli stessi stereotipi razzisti. Come
dimostra La storia del negretto della Disney del 1949 che
riprende parzialmente l'edizione americana interamente tesa a
rivalutare nostalgicamente l'epoca delle piantagioni, quando i negri
sapevano stare al loro posto.
L'Africa
nei fumetti del dopoguerra
Nel
dopoguerra riprende la pubblicazione dei fumetti americani a partire
da Topolino che rimane profondamente imbevuto di una visione
razzista del confronto con l'africano. Un esempio è Paperino
e i ribelli del Rif del 1954 in cui l'assimilazione
dell' arabo con ilk "negro" è presentata senza vergogna.
Nel
dopoguerra riprendono anche le celebrazioni, in chiave retorica e
patriottica, delle imprese degli esploratori, e dei missionari,
italiani da parte soprattutto riviste di ambiente cattolico come il
Giornalino, il Vittorioso, Il Piccolo Missionario, che non disdegnano
storie più laiche ma sempre connotate dallo stereotipo dell'africano
selvaggio e crudele.
Queste
storie testimoniano della mancanza di una riflessione critica sulla
storia coloniale italiana che viene ripresa in piena continuità con
il taglio che aveva avuto in epoca fascista. Così alla metà degli
anni cinquanta appare nelle edicole l’albo
L’eroe del Giuba
“storia di ardente patriottismo e di sublime sacrificio”
destinata
ad esaltare l'opera dell'esploratore Bottego, vittima della barbarie
primordiale degli africani. Celebrazione ripresa ancora nel 1960
da Il Giornalino, settimanale della Pia Società San Paolo, con una
storia a puntate intitolata Il
Frengi Capitano
e, sempre nello stesso anno, da il settimanale Lo
Scolaro, con una biografia a fumetti intitolata Vittorio Bottego,
ristampata addirittura ancora nel 1969.
Dunque
per il fumetto e l'editoria italiana sembra che con la fine della
guerra e la caduta del regime non sia cambiato nulla per quanto
riguarda l'Africa e gli africani e questo nonostante ci si stia
avvicinando al 1960 anno in cui ben 17 paesi africani raggiunsero
l'indipendenza. Gli africani continuano ad essere presentati come
selvaggi e primitivi.Solo Il pioniere, giornalino dell'associazione
para-scoutistica del PCI, cerca di dare una lettura diversa della
questione africana a partire dalla tratta e dall'oppressione
coloniale, ma sempre parlando di francesi e inglesi e mai di italiani
che anche a sinistra rimangono "brava gente".
Anche
il cinema contribuisce a consolidare lo stereotipo dell'africano
primitivo con l'anello al naso come dimostra Totò
truffa del 1962 e la
televisione con la trasmissione di grande successo (in onda dal 1957
ai primi anni '60) L'amico
degli animali dove
il protagonista Angelo Lombardi in tenuta da cacciatore bianco,
accompagnato dalla scimmia Cita, è coadiuvato da un fedele servo
indigeno, Andalu (un ex ascaro somalo) che non pronuncia mai una sola
parola e si limita con la sua presenza a mettere in risalto la
centralità della figura dell'uomo bianco presentato come portatore
di cultura..
Le
raccolte di figurine
Negli
anni '50 ampia fortuna hanno le raccolte di figurine di argomento
storico e geografico, spesso legate alla vendita dei giornalini a
fumetti. Anche in questo caso non ci si discosta dagli stereotipi
correnti. Così nell' album Enciclopedia tascabile Torelli del
1951 leggiamo che l'africano vive
"Ancora
in uno stato primitivo, non solo ci sono tribù dell'interno che non
sono mai venute in contatto con l'uomo bianco, ma che vivono ancora
una vita simile a quella dei nostri più antichi antenati" e in
Razze umane del
1956, traduzione di una collezione spagnola apparsa l'anno
precedente. raccolta di 288 figurine a colori delle "razze"
e dei popoli del mondo gli africani sono definiti di costumi
"barbari", "infantili" e dotati di "scarsa
immaginazione":
"I
negri sino poco civilizzati e generalmente vivono in uno stato
primitivo... la loro indolenza e superstizione sono dovuti al loro
arretrato stato di civilizzazione, come è chiaramente dimostrato
dalle loro capanne, dalla loro frequente mancanza di abiti"
Ancora
nel 1968 la raccolta Naturama ampiamente usa il termine razze e gli
stereotipi sugli africani primitivi e perfino cannibali.
Nostalgie
coloniali
Forte
ancora nell'Italia degli anni Cinquanta è il rimpianto per la
perdita delle colonie. Ancora una volta si distingue il «Corriere
dei piccoli» che, su ispirazione del suo direttore Giovanni Mosca,
pubblicò una serie di servizi dedicati alla Somalia. Il 15 febbraio
1953, in una pagina intitolata Il
tricolore in Somalia, si può leggere un'accorata
esaltazione del ruolo civilizzatore del colonialismo italiano:
«Vicino
alle caserme è stato costruito un campo, dove abitano le famiglie di
questi soldati, le loro mogli e i loro bambini, ai quali il papà
torna dopo la lezione o dopo aver terminato il servizio. Così i
figli dei cammellieri e dei pastori, da noi civilizzati e resi
coscienti dei veri principi umani, resteranno padroni della loro
terra e la difenderanno da ogni nemico interno ed esterno. Ma non
potranno certamente dimenticare i bianchi che furono loro compagni e
fratelli e forse nelle notti di luna, mentre nelle foreste si
sentiranno gli urli delle belve, questi soldati, quando saranno
vecchi, racconteranno ai loro nipoti gli atti di bontà e di eroismo
di molti uomini bianchi, che erano venuti lì, a portare civiltà e
benessere. E li rimpiangeranno».
Esaltazione,
patriottica e fascistoide, ripresa nel 1958 con Il
tamburino dell’Amba Alagi, lunga storia apparsa per
quasi un anno sempre sul "Corrierino".
I
libri di testo
Fino
a tutti gli anni '60 anche i manuali di storia e di geografia
continuano nella sostanza a dare l'immagine positiva e benefica del
colonialismo italiano che era già stata della scuola fascista. "Il
mancato dibattito sulla decolonizzazione, avviata invece in altri
paesi, porta gli autori dei manuali nostrani a scivolare verso una
dimensione meno eroica, per un verso mantenendo vivo il mito degli
italiani brava gente, alacri lavoratori e vittime casomai di
decisioni altrui, specie sotto Mussolini; per un altro tacendone i
misfatti."(2)
"L’Italia
non fu assente dall’opera di colonizzazione europea nel mondo,
opera benefica perché metteva barbare popolazioni in contatto con
norme di vita progredite", così in un testo di storia per i
licei ancora nel 1953 veniva presentato il colonialismo italiano.
Lo
stesso accade nella scuola elementare dove addirittura si continua a
parlare di "razze". Nel Sussidiario Italia, classe V,
L'Italia editrice, Roma, 1948. nel paragrafo: Le
razze umane e la loro civiltà, con il sottotitolo prudente Vari tipi
della stessa umanità compaiono le foto del viso e del busto
di cinque rappresentanti delle “razze”: il rappresentante di
quella bianca è al primo posto sorridente, ripreso di tre quarti con
giacca e cravatta mentre il rappresentante della “razza negra” è
ripreso seminudo e di profilo nella tipica posa spersonalizzante
dell'antropologia fisica o della fotografia criminale. Nelle brevi
didascalie si legge:
“1°
Razza bianca o caucasica, che è la più civile e la più sparsa nel
mondo”.
E
più oltre
“Le
popolazioni indigene […] appartengono alla razza negra, che è la
più arretrata in fatto di civiltà. Tra esse ve ne sono addirittura
alcune, come i Boscimani e i Niam Niam, ancora selvaggi che sono
piccoli e brutti e scarsamente intelligenti”.
Nello
stesso sussidiario, nell'edizione per la classe terza, si legge:
“in
regioni coperte da grandi foreste abitano i popoli di 'razza negra',
ancora in gran parte incivili, che vanno quasi nudi e dimorano in
povere capanne dette 'tucul' o in ricoveri fatti di frascame, situati
fra i rami degli alberi, per sfuggire al morso di giganteschi
serpenti e alla ferocia delle belve”.
Basterebbero
queste citazioni per capire il senso profondo della Scuola di
Barbiana prima e delle lotte studentesche del 68 degli anni
successivi per una scuola diversa, veramente democratica e formativa,
capace di confrontarsi criticamente con il presente e la storia.
Lotte che investono la società e la parte più avanzata del corpo
insegnante. Ne è testimonianza la grande campagna degli anni '70 per
l'abolizione dei libri di testo. Nel 1972 nell'ambito di questa
campagna contro l'obbligatorietà dei libri di testo, Umberto Eco
pubblica un pamphlet I pampini bugiardi che inizia così:
Alle
soglie della loro vita culturale, iniziando l'esperienza difficile ed
esaltante della lettura, i nostri figli si trovano a dover affrontare
i libri di testo delle scuole elementari. (...) Fare un processo al
libro di lettura implica uno sforzo di straniamento: richiede che si
legga e rilegga una pagina in cui si diffondono idee che siamo
abituati a considerare « normali » e « buone » e che ci
chiediamo: ma è proprio così? condizionati come siamo dai nostri
antichi libri di lettura, leggere i nuovi significa aver la capacità
e il coraggio di dire: « il re è nudo ». Un atto di chiarezza che,
diversamente che nella fiaba di Andersen, il bambino non può fare.
(...)
I
libri di lettura parlano dei poveri, del lavoro, degli eroi e della
Patria, della importanza e serietà della scuola, della varietà di
razze e popoli che abitano la terra, della famiglia, della religione,
della vita civica, della storia umana, della lingua italiana, della
scienza (...)
Questa
antologia tende invece a mostrare, con la pura evidenza della
citazione commentata al minimo che questi problemi sono
presentati in modo falso, risibile, grottesco... Che attraverso di
essi il ragazzo viene educato a una realtà inesistente... (...)
I
libri di testo dicono insomma delle bugie, educano il ragazzo a una
falsa realtà, gli riempiono la testa di luoghi comuni (...)
Questa
antologia tende invece a mostrare, con la pura evidenza della
citazione commentata al minimo che questi problemi sono presentati in
modo falso, risibile, grottesco... Che attraverso di essi il ragazzo
viene educato a una realtà inesistente... Che quando i problemi, e
la risposta che ne viene fornita, concernono la vita reale, essi sono
posti e risolti in modo da educare un piccolo schiavo, preparato ad
accettare il sopruso, la sofferenza, l’ingiustizia, e a
dichiararsene soddisfatto". (3)
A
metà degli anni Settanta pareva una battaglia vinta e che sulla
storia reale della presenza italiana in Africa fosse ormai, grazie
anche a opere come quelle di Del Boca. stata fatta piena chiarezza. I
cori razzisti negli stadi, i deliri degli odiatori da tastiera uniti
alla propaganda interessata e violenta di alcune forze politiche
contro "l'invasione" africana e una presunta strategia di
"sostituzione etnica, dimostrano invece il persistere nel
profondo dell'inconscio collettivo di larga parte della popolazione
italiana dei peggiori stereotipi sull'africano, vissuto non come uomo
concreto in carne e ossa, ma simbolica minaccia in grado di
concretizzare paure e frustrazioni che una società in crisi come la
nostra non cessa di produrre.
1.
Paola Irene Galli Mastrodonato, « Da Rider Haggard a Salgari :
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ligne], 16-1 | 2018
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3.
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Novembre
2019