martedì 31 marzo 2020

Antonio Gramsci a Savona. Il biennio rosso e l'occupazione delle fabbriche




Giorgio Amico

Antonio Gramsci a Savona

Seconda parte. Il biennio rosso e l'occupazione delle fabbriche

All'indomani del termine delle ostilità, dopo tre anni di sacrifici e umiliazioni, la classe operaia, pesantemente colpita dalla crisi di riconversione dell'industria, esplode in un irrefrenabile moto di lotte rivendicative. Si tratta generalmente di agitazioni di carattere economico, dovute al continuo crescere del costo della vita, spesso del tutto spontanee, ma che testimoniano inequivocabilmente del fermentare di una situazione rivoluzionaria.
Nel gennaio 1919 entrano in lotta i metallurgici per la conquista delle otto ore lavorative, subito seguiti dagli elettrici, dai postelegrafonici e dai ferrovieri. A febbraio è la volta dei marittimi che chiedono il rispetto dei patti di lavoro e la regolamentazione degli organici. Di fronte alla resistenza padronale le agitazioni si vanno presto moltiplicando, assumendo sempre più un aperto carattere politico.
La celebrazione del 1° Maggio offre l'occasione di una prima straordinaria prova di forza da parte del proletariato. A Savona e in tutti i centri di una qualche importanza del Circondario gli operai manifestano compatti con bandiere e striscioni inneggianti a Lenin, alla Russia dei soviet, alla dittatura del proletariato.
Alla fine di giugno, caduto il ministero Orlando, Francesco Saverio Nitti si appresta a formare il nuovo governo in un clima di agitazioni sempre più serrate, mentre i prezzi salgono incessantemente soprattutto per quanto riguarda i generi di prima necessità.
Ai primi di luglio gravi incidenti scoppiano a La Spezia nel corso di una manifestazione sindacale contro il carovita. La lotta si estende immediatamente a tutta la regione con manifestazioni che assumono aspetti apertamente insurrezionali. Savona è l'epicentro delle manifestazioni più dure: la folla saccheggia i negozi e si scontro con carabinieri e guardie regie costringendole ad una precipitosa ritirata nelle caserme. Alla sera del 7 luglio tutta la città è nelle mani dei rivoltosi.

La Camera del Lavoro costituisce immediatamente un Comitato d'Agitazione composto da Antonio Gamalero, segretario della CdL, Francesco Sivori, segretario della FIOM, Pietro De Martini, presidente della Commissione Esecutiva della CdL, Andrea Aglietto, Orlando Pierucci e G.B. Terzani, tutti membri della stessa CE. Viene organizzata una "Guardia Rossa" allo scopo di evitare altri saccheggi e di requisire viveri e altri generi di prima necessità da distribuire alla popolazione a prezzo politico. Squadre di operai armati pattugliano le strade e le piazze garantendo l'ordine.

"Abbiamo a Savona il Soviet con in Russia - scrive un giornale cittadino - il quale dirige le funzioni , per ora, del piccolo commercio. sia come si vuole, bisogna convenire che la locale CdL, ha assunto in questi momenti una posizione di comando che le spettava in conseguenza del pietosissimo fallimento della borghesia cittadina". (6)

Pochi giorni più tardi si svolge massicciamente compatto lo sciopero generale di solidarietà con le repubbliche sovietiche russa e ungherese; gli operai protestano contro l'intervento militare dell'Italia che ha inviato in Russia un corpo di spedizione, in realtà più simbolico che reale, in aiuto alle armate controrivoluzionarie dei Bianchi.

Ai primi di agosto ha inizio il grande sciopero degli operai metallurgici per i minimi di paga che gli industriali liguri non vogliono riconoscere nella misura già concordata dal padronato torinese. Anche in questa occasione salta immediatamente agli occhi il rapporto diretto fra Savona e Torino e la sua classe operaia, vera avanguardia del proletariato italiano.
L'agitazione durerà ben sessanta giorni, procedendo ordinata e compatta in tutte le fabbriche, fino ai primi giorni di ottobre quando verrà raggiunta una soluzione di compromesso contestata, tuttavia, da una parte dei lavoratori delle fabbriche di Savona e Vado Ligure, quelli più in contatto con i compagni torinesi.
negli stessi giorni, a dimostrazione di come la collera operaia stia crescendo, viene devastato in pieno centro di Savona il Caffè Chianale, elegante ritrovo della borghesia cittadina, diventato luogo di raccolta di ufficiali, smobilitati e no, e dei nazionalisti che lo hanno trasformato in un vero e proprio centro di propaganda dell'avventura fiumana di Gabriele D'Annunzio e dei suoi legionari.

Nel mese di novembre si svolgono le elezioni politiche, per la prima volta con il sistema proporzionale. Il Partito Socialista ottiene un grande successo, incrementando notevolmente i propri consensi. Rispetto alla precedenti consultazioni del 1913, infatti, il PSI passa in Liguria dal 15,9 al 33,2% diventando il primo partito e inviando alla Camera una nutrita pattuglia di sei deputati. A Savona i socialisti superano i 6.000 voti, nel Circondario oltre 10.000.
Il PSI vive un esaltante periodo di ascesa, ma il partito è travagliato da una profonda crisi interna che lo rende di fatto incapace di comprendere a fondo la portata degli avvenimenti in corso e di indicare alle masse una chiara e univoca linea d'azione. Pur con questi limiti, la vittoria elettorale socialista ha l'effetto di spingere ulteriormente in avanti la combattività operaia.
Il 5 novembre nel corso di un'assemblea, tenuta presso la Camera del Lavoro, dopo un'ampia discussione viene approvato all'unanimità un ordine del giorno in cui, dopo aver espresso "voti fervidissimi che il proletariato russo riesca a salvare la Repubblica Comunista dal formidabile attacco del capitalismo internazionale", si esprime la più totale solidarietà e si auspica che "il proletariato internazionale sappia provvedere colla sua azione alla salvezza della Repubblica comunista che sarà presto la repubblica di tutti i produttori".

L'anno si chiude con l'inizio della lotta dei ferrovieri e degli operai delle centrali elettriche. Lo sciopero degli elettrici ha serie ripercussioni in quanto, interrompendo le forniture di energia agli impianti, provoca la paralisi dell'intero apparato industriale. In molte fabbriche le direzioni sospendono la produzione e mettono in mobilità i dipendenti. Si tratta nei fatti di una vera e propria serrata allo scopo evidente di dividere i lavoratori e spezzarne lo slancio unitario. La manovra fallisce, la classe reagisce ancora una volta compattamente: gli operai metallurgici e siderurgici chiedono l'integrale retribuzione delle giornate non lavorate. Il rifiuto padronale scatena una nuova, esaltante, ondata di lotte.

Le agitazioni continuano anche nel 1920 con intensità e ampiezza non minori di quelle del 1919. Se nel 1919 si erano contati 26 scioperi, tutti pienamente riusciti, nel 1920 saranno 72, il punto più alto del dopoguerra.
Il 20 gennaio scendono in sciopero i ferrovieri, mentre il 19 marzo l'introduzione dell'ora legale da luogo ad una clamorosa iniziativa di protesta da parte degli operai della Servettaz Basevi. Precedendo di ben due settimane il famoso sciopero "delle lancette" alla FIAT di Torino, gli operai scendono in sciopero e costringono la direzione a venire a patti. Diretto è in questa occasione il contatto con il gruppo de "l'Ordine Nuovo".
Ma non sono tutte rose e fiori. Gli ordinovisti devono confrontarsi duramente all'interno del sindacato con gli esponenti socialisti moderati. Nei primi mesi del 1920 si accende tra "l'Ordine Nuovo" e l'organo della Confederazione Generale del Lavoro "Battaglie sindacali" una dura polemica sul ruolo e le funzioni dei consigli di fabbrica. La polemica si estende rapidamente all'intero movimento operaio e diventa occasione di confronto anche a Savona. Così a marzo sul settimanale dei socialisti savonesi "Bandiera Rossa" Gaetano Barbareschi sostiene con vigore la necessità che "il Consiglio di fabbrica, che nella società comunista sarà l'ente direttivo della fabbrica stessa, eve oggi invece essere l'ente dirigente l'organizzazione operaia della stessa fabbrica... Bisogna insomma prepararsi a sostituire, ove esiste, l'opera del dirigente proprietario". Sono le tesi di Gramsci sul ruolo dirigente dei produttori.

A maggio viene rinnovata la Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro. La nuova Commissione risulta interamente composta da operai. determinanti sono i rappresentanti dei metallurgici, ben tre, mentre un rappresentante ciascuno contano le categorie dei siderurgici, dei petrolieri, dei chimici, degli edili, dei portuali, dei ferrovieri, dei panettieri e dei calzolai.
Alla fine del mese si tiene a Genova il Congresso nazionale della FIOM. Mel corso della relazione introduttiva il segretario generale Bruno Buozzi critica duramente l'esperienza torinese dei consigli di fabbrica definendola immatura e confusa. Sarà la FIOM di Savona, controllata da militanti vicini alle posizioni ordinoviste, a contrapporsi frontalmente alla segreteria nazionale presentando un ordine del giorno in cui si propone la generalizzazione dell'esperienza torinese:

"Il congresso, sentita la relazione del Comitato Centrale e dei rappresentanti di Torino in merito all'ultimo movimento, deplora che il CC non abbia estesa ed intensificata in Italia la preparazione, onde arginare l'offensiva degli industriali, e considerata la grandiosità dei postulati in gioco in quella battaglia, deplora che il proletariato d'Italia non sia stato chiamato a dare la solidarietà più completa ai Compagni di Torino".

La mozione, che raccoglie più di un quarto dei voti congressuali, non passa, ma evidenzia come una larga parte della classe operaia savonese sia ormai saldamente conquistata alla coerente posizione di classe propugnata da Antonio Gramsci e dal gruppo de "l'Ordine Nuovo" nei confronti sia del riformismo sindacale che dell'impotente massimalismo socialista, estremista a parole e moderato nei fatti.

In città e nel circondario intanto la tensione non accenna a calare. la sera del 2 agosto a Millesimo nel corso di un banalissimo alterco i carabinieri aprono il fuoco contro un gruppo di giovani che cantano in piazza canzoni rivoluzionarie, uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. Il giorno dopo a Savona si svolge una manifestazione di protesta al termine della quale un capitano degli arditi spara contro gli operai uccidendone due. La folla inferocita devasta il Caffè Chianale e i bagni Wanda al Prolungamento a mare, noto luogo di divertimento della buona borghesia cittadina.

Procede intanto la vertenza dei metallurgici per un consistente recupero salariale a fronte dell'incessante aumento del costo della vita che costringe molte famiglie operaie pressoché alla fame. Le discussioni si protraggono per tutto il mese di agosto senza apprezzabili risultati. Il 30 agosto a Milano l'associazione degli industriali proclama la serrata, gli operai rispondono con l'occupazione delle fabbriche.
L'occupazione armata degli stabilimenti rappresenta il punto più alto raggiunto dalla lotta di classe nel primo dopoguerra. La situazione è ormai apertamente insurrezionale, ma accortamente il governo Giolitti evita di intervenire, evitando così lo scontro diretto fra proletariato e Stato, ma contando soprattutto sull'opera di freno della direzione ultrariformista della Confederazione Generale del Lavoro e sulla manifesta indisponibilità, nonostante i proclami incendiari, della dirigenza massimalista del Partito Socialista di mettersi a capo del movimento per garantirgli uno sbocco politico, iniziando al contempo un lavoro di propaganda all'interno di un esercito formato da soldati di leva nella quasi totalità di ordine operaia e contadina.
Anche nel Savonese le fabbriche sono presidiate armi alla mano dagli operai che le trasformano in veri e propri fortilizi proletari in previsione di un attacco che non verrà. Ovunque si costituiscono i consigli di fabbrica che non si limitano a gestire gli impianti e a mandare avanti la produzione, ma acquisiscono sempre più apertamente una caratterizzazione rivoluzionaria di organi di contropotere. Ma gli operai restano chiusi nelle fabbriche e non portano la lotta fuori. L'occupazione dura per l'intero mese di settembre, ma alla fine, lasciato a se stesso dall'ignavia dei capi riformisti e privo di sbocchi, il movimento rifluisce. La lezione sarà assimilata dalla borghesia che si mette alacremente all'opera per organizzare una guardia bianca, quelle squadracce fasciste che, diversamente dai socialisti che si erano chiusi in trincea, inizieranno una guerra di movimento contro le organizzazioni operaie e contadine, raccogliendo le forze per colpire Leghe bracciantili, Camere del Lavoro, Comuni rossi e poi ritirarsi dopo aver fatto terra bruciata. Una tattica spregiudicata e innovativa che porterà nell'arco di un anno al rovesciamento dei rapporti di forza militari e politici e poi nel 1922 alla marcia su Roma.

La sconfitta manifesta dalla classe operaia con il fallimento del movimento delle occupazioni precipita la crisi del Partito Socialista. All'interno della sezione savonese si fa strada la convinzione dell'insufficienza della direzione massimalista e si intensifica l'azione della componente rivoluzionaria ormai maggioranza. Gli elementi riformisti vengono esclusi dalla lista per le elezioni amministrative previste per il mese di novembre, mentre il programma elettorale recisamente afferma che i socialisti "non terranno calcolo alcuno dei limiti assegnati dalle attuali leggi borghesi, persuasi che le illegalità di oggi costituiscono la legalità del domani".
Il giorno delle elezioni il Comune viene conquistato con una larghissima maggioranza e il 6 novembre viene eletto nuovo sindaco Mario Accomasso, operaio metallurgico, esponente di primo piano della Frazione comunista del PSI, già partecipante all'insurrezione spartachista di Berlino (7), mentre la Giunta è composta da un gruppo di operai massimalisti e comunisti.

6. "L'indipendente" 19 luglio 1919.
7. Mario Accomasso. Astigiano, operaio metallurgico, diserta dopo i moti dell'agosto 1917 a Torino. rifugiatosi in Svizzera, svolge un'intensa attività internazionalista collaborando con Francesco Misiano. Espulso dalla Svizzera, passa in Germania dove partecipa ai moti spartachisti di Berlino. Arrestato, sconta 15 mesi di carcere. Figura centrale del movimento comunista savonese, muore in circostanze mai chiarite nel 1924, probabilmente assassinato dai fascisti.

2. Continua

lunedì 30 marzo 2020

Antonio Gramsci e la nascita del Partito comunista a Savona

    Copertina dell'edizione originale


Nel 1921 nasceva il Partito Comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale Comunista. Savona, allora significativo polo industriale, ne fu una delle prime roccaforti. La cosa è nota, meno conosciuto il ruolo svolto da Antonio Gramsci e dal gruppo torinese de "l'Ordine Nuovo" in questa vicenda. Iniziamo a pubblicare la prima parte di un lavoro che, nonostante i quasi trent'anni trascorsi dalla sua pubblicazione, riteniamo ancora di un qualche interesse.

Giorgio Amico

Gramsci a Savona

Prima parte. Il dopoguerra

La città di Savona e il suo circondario conoscono negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale un periodo di intenso sviluppo industriale. (1)
Nonostante ciò, l'organizzazione sindacale è debole o, come nel caso di portuali e marittimi, si caratterizza per un accentuato corporativismo.
Altrettanto debole è il peso politico e organizzativo del Partito Socialista che, interamente dedito a una politica tutta elettoralistica e fondata sul compromesso e sui cosiddetti "blocchi popolari", alleanze di forze spurie finalizzate al mero esercizio del potere locale, non riesce ad esercitare una reale funzione di guida di una classe operaia tutto sommato di recente formazione.

"L'organizzazione socialista - scrive nel 1912 Giacinto Menotti Serrati - è in condizioni deplorevoli. Lunghi anni di inattività ne hanno atrofizzato le energie e indebolita la compagine. Si è troppo lasciato fare ai capeggiatori, si sono curati troppo i successi personali e troppo si è creduto nell'esclusiva efficacia delle agitazioni elettoralistiche, nelle combinazioni e nei commerci fra il partito nostro ed i partiti affini o sedicenti tali". (2)

Con un sindacato egemonizzato dai riformisti ed un partito in mano a piccoli gruppi di notabili locali il movimento operaio e socialista non esprime che un'assai debole consistenza organizzativa. Nel 1914 gli iscritti alla Confederazione Generale del Lavoro non superano i 1500, mentre il partito conta poco più di un centinaio di iscritti.
Non stupisce che in tali condizioni l'opposizione alla guerra resti limitata a pochi proclami della Camera del Lavoro e del Partito. Di fronte ad una martellante campagna interventista a settembre 1914 si iniziano a manifestare le prime divergenze sulla posizione che i socialisti devono tenere nei confronti della guerra. A Savona la maggioranza è per il mantenimento della neutralità assoluta, ma un piccolo gruppo di riformisti chiede che l'Italia scenda in guerra senza indugi a fianco della Francia e dell'Inghilterra. Il dissenso si allarga dopo la scelta interventista di Mussolini, allora direttore dell'Avanti!, molto seguito soprattutto dai giovani socialisti. Anche a Savona il partito procede a numerose espulsioni, così come numerose sono le dimissioni soprattutto fra intellettuali, molti dei quali aderenti alla Massoneria, e studenti. Una delle figure storiche del partito, l'avvocato Giuseppe Garibaldi, invia a Mussolini, appena uscito dal PSI, una lettera di caldo appoggio a nome di una non trascurabile parte dei socialisti savonesi.

Le conseguenze della guerra

Se per le masse popolari la guerra ha significato soprattutto lutti e miseria (3), per il capitalismo italiano lo sforzo bellico rappresenta una potente sferzata di energia, una spinta alla concentrazione e alla modernizzazione dell'apparato produttivo e Savona non fa eccezione.

"Savona progredisce - nota compiaciuto il principale organo di stampa della borghesia cittadina - con la fondazione di nuovi istituti che ne dimostrano la sempre crescente potenzialità economica. Savona è ormai un importante centro di affari e di produzione; è tra le principali piazze commerciali e marittime d'Italia". (4)

La guerra innesca processi economici e sociali di enorme portata che modificano radicalmente i tradizionali assetti di classe. se prima della guerra la classe operaia risultava frammentata in una molteplicità di piccole fabbriche e divisa al proprio interno da interessi corporativi, ora è il proletariato industriale concentrato in un pugno di grandi imprese che domina la scena, trascinandosi dietro tutte le altre categorie. La Siderurgica (poi ILVA) occupa oltre 5.000 operai, la vetreria Viglienzoni quasi 2.000, la Servettaz Basevi circa 400, la Balbontin 200. A Vado Ligure si è andato costituendo un complesso industriale metallurgico e chimico di tutto rispetto: la Westinghouse occupa 2.000 operai, la Società Anonima Carboni Fossili 200, la Italo-Americana Petroli 500, la Ferrotaie 1.000. Nella Valle Bormida il complesso di fabbriche di munizioni della SIPE occupa negli stabilimenti di Ferrania e Cengio quasi 5.000 operai. Dai 1.500 iscritti del 1914 la Camera del Lavoro di Savona passa ad organizzare nel 1920 oltre 20.000 lavoratori che supereranno i 25.000 nel 1921.

Il malcontento e la delusione dei proletari smobilitati, l'odio verso i borghesi che hanno voluto l'intervento e sulla guerra si sono ulteriormente arricchiti, Il precipitare delle condizioni di vita e di lavoro, la miseria crescente, la mancanza di lavoro dopo la smobilitazione dei soldati al fronte, la corruzione e l'inefficienza dello Stato: tutto porta a radicalizzare sempre di più la situazione e a spingere alla lotta le masse operaie che, trascinate dall'esaltante esempio dell'Ottobre russo, aspirano ad un nuovo e più giusto ordine sociale.

"Fare come in Russia: chi non lavora non mangia" diventa la parola d'ordine di masse non ancora del tutto giunte ad una complessiva visione politica delle cose, ma già istintivamente consapevoli che l'unica soluzione consiste nel radicale cambiamento dell'assetto sociale borghese. Già al Congresso Nazionale della FIOM, svoltosi a Roma nella prima settimana di novembre 1918, i due delegati savonesi, gli operai della Siderurgica De Martini e Verniani, votano a favore della mozione rivoluzionaria presentata da Repossi, Montagnana e Tasca, tutti e tre futuri dirigenti comunisti.

Il Partito Socialista, che solo si era opposto alla guerra anche se non senza ambiguità, incanala l'ondata di piena della collera proletaria: in massa gli operai aderiscono al partito, abbandonano quei riformisti che dal 1914 avevano fatto incessantemente propaganda per la guerra. (5)
Nelle fabbriche, tra i militanti più attivi incomincia a circolare una nuova rivista socialista che da poco esce a Torino e che incita alla formazione dei consigli di fabbrica e all'autogoverno dei produttori. Nelle sezioni socialiste e nella Camera del Lavoro riecheggiano con sempre maggiore frequenza i nomi di Antonio Gramsci e de "l'Ordine Nuovo".
Il gruppo torinese de "l'Ordine Nuovo" segue infatti da tempo, visti gli storici legami fra le due città, con particolare interesse la situazione savonese e già dai primi mesi del 1919 sono stati allacciati regolari contatti finalizzati alla creazione alla Siderurgica e più in generale nei principali stabilimenti del Savonese di Consigli di fabbrica sul modello torinese.

 1. Fino alla metà degli anni venti la Liguria era amministrativamente divisa nelle province di Genova (con i circondari di Genova, Chiavari, La Spezia, Savona e Albenga) e Porto Maurizio (con i circondari di Porto Maurizio e Sanremo).
2. "Il Diritto" di Savona, 7 settembre 1912
3. La "grande guerra" costa al popolo italiano oltre 700 mila caduti, mezzo milione di invalidi e mutilati, oltre ad un altro mezzo milione di morti per l'epidemia di "spagnola" la cui disastrosa diffusione fu largamente favorita dalle condizioni di denutrizione in cui la guerra aveva gettato le masse proletarie.
4. "L'Indipendente", 26 ottobre 1918.
5. Emblematica è la figura di Giuseppe Canepa, deputato e direttore del quotidiano socialista "Il Lavoro" di Genova, principale esponente del riformismo in liguria. Canepa fu prima sottosegretario all'agricoltura e poi commissario agli approvvigionamenti.


1. Continua


"Erba e Fucile". La controcultura underground va alla guerra




Riletti per voi: Underground: a pugno chiuso! di Andrea Valcarenghi

Giorgio Amico

"Erba e Fucile". La controcultura underground va alla guerra

Il 15 novembre 1966 esce a Milano il primo numero di Mondo Beat, giornale underground che si rifà all'esperienza dei beatnicks americani e dei provos olandesi. Sulla sua scia si formano immediatamente gruppi a Roma e in altre parti d'Italia. Nella capitale a dare solidità al movimento sono Marco Pannella e gli attivisti del Partito Radicale, affascinati da quella stramba umanità fatta di marginali, anarchici, vagabondi e proto-tossici.

Gli abiti stravaganti e i capelli lunghi sono i segni distintivi del movimento. "I capelli lunghi - scrive Valcarenghi - sono una comunicazione, servono per riconoscersi, per dimostrare il nostro odio verso quello che rappresentavano i capelli corti, l'ordine borghese, i colletti bianchi".

A marzo '67 Mondo Beat si trasforma in una rivista a stampa, diffusa in tutta Italia nel circuito delle librerie Feltrinelli.

Con le prime agitazioni studentesche, il movimenta si inserisce nelle lotte degli studenti e poi nelle occupazioni delle Università milanesi, la Statale e la Cattolica, assumendo progressivamente con un adeguamento inevitabile allo spirito del tempo una caratterizzazione maoista. Ma di un maoismo particolare, ironico e non privo di manifestazioni dissacranti a partire dall'immagine di un Presidente Mao capellone e alternativo che non disdegna tra uno slogan e l'altro anche di farsi un a canna.

Nel 1970 Mondo Beat diventa Re Nudo. A dicembre Milano è tappezzata di scritte con re Nudo seguito da un punto interrogativo. I milanesi non capiscono cosa significhi, che senso abbia. La cosa fa scalpore. Il lancio perfetto per il nuovo giornale che già al primo numero a Milano supera le ottomila copie vendute.

"Nel 71 - scrive Valcarenghi - l'underground esplode anche in Italia. I gruppi rivoluzionari non sono in grado di dare una risposta al problema del superamento della scissione fra attività politica e vita privata".

Re Nudo, tutto sesso liberato droga e musica, cerca di spostare un movimento rivoluzionario che coinvolge centinaia di migliaia di giovani da un terreno astrattamente politico alla contestazione della vita quotidiana in tutti i suoi aspetti. Il privato diventa politico. È quello che su un altro versante sta tentando di fare con la pratica della autocoscienza il nascente movimento femminista.

Re Nudo punta sul fumo, sulla musica, sul sesso liberato secondo la lezione reichiana, ma riflette comunque anche l'incupirsi dei tempi, la strategia della tensione e lo squadrismo nero, le tentazioni di una risposta armata.

"Tutto il potere al popolo" e "Erba e Fucile" diventano gli slogan di Re Nudo. Come per i gruppi della Nuova sinistra è l'inizio del declino. Lo capisce benissimo Pannella che nell'introduzione, ferocemente polemica, al libro di Valcarenghi, ammonisce:

"Fare dell'erba un segno positivo e definitivo di raccordo e di speranza comuni mi par poco e sbagliato. Né basta, penso, aggiungervi come puntello il vostro 'fucile' (...) armi suicide per chi speri ragionevolmente di poter edificare una società (un po' più) libertaria, di prefigurarla rivoluzionando se stesso, i propri meccanismi, il proprio ambiente e senza usar mezzi, metodi, idee che rafforzano le ragioni stesse dell'avversario (...) la rivoluzione fucilocentrica o fucilo-cratica, o anche solo pugnocentrica o pugnocratica non è altro che il sistema che si reincarna e prosegue".

Siamo nel 1973 e forse nemmeno Pannella immaginava quanto profetiche si sarebbero presto dimostrate queste sue parole. Il 1977 sarebbe stata l'ultimo scossone. Una grande festa collettiva destinata a finire presto con il sequestro Moro e la grande sconfitta operaia alla FIAT. Due eventi epocali che cambieranno il segno della politica e della società italiana. Inizia un'epoca buia da cui non siamo ancora usciti.


sabato 28 marzo 2020

Debord al tempo del coronavirus




Tempo di Covid19, tempo di isolamento, tempo di letture. Fa piacere trovare questa mattina sulle pagine di un quotidiano milanese una lettura briosa e intrigante di un tuo libro.

Diego Gabutti

Debord tifava per la distruzione. Bruciava le amicizie come un atleta fa con gli zuccheri


Cinquant'anni dopo, tutte le passioni spente, non sono molte le cronache sessantottesche che si possono ascoltare con interesse (o anche solo fingendo dell’interesse). Meno di tutte, poi, le storie dei singoli gruppuscoli o, peggio ancora, del singolo gauchiste (con le sue idee fisse, le sue coazioni a ripetere, il suo profilo migliore, la sua vanitas, la sua rubrica sul Foglio). Passi ancora la cronaca dei tumulti. Questi hanno sempre un loro perché, vale a dire un lato avventuroso, non tanto epico quanto salgariano. Gli eventi, anche di scarso peso storico, come i sogni delle notti novecentesche di mezza estate, si possono raccontare con profitto, e persino suscitando passioni; i personaggi no, per quanto sgomitino e si alzino sulla punta dei piedi e rilascino autografi anche non richiesti e facciano ciao-ciao con la manina.

Siedi al tavolo grande del racconto storico se sei Napoleone, oppure Beppe Stalin o Gengis Khan, e non quando sei Daniel Cohn-Bendit o Rossana Rossanda, per quanti memoir tu scriva, e di quante bellurie siano imbottiti. Detto questo, c’è almeno un’eccezione: Guy Debord, artista e filosofo, ma soprattutto mitografo di se stesso, l’uomo che fece della propria vita, e di riflesso anche del Sessantotto parigino, un trompe l’oeil. Eccezione lui, ed eccezione il suo biografo, Giorgio Amico, storico del goscismo senza debolezze sentimentali. Amico racconta la storia di Debord con divertita ammirazione, come Gore Vidal o Edward Gibbon quando mettono in versi e musica le vite degli eretici e degli apostati. Non so quanto esemplare, è tuttavia una storia avvincente, che Amico illustra in bella prosa.

Morto suicida nel 1994, alcolista, scrittore senza pari, Debord costruì la propria leggenda consumando e demolendo, lungo la strada, ogni altra leggenda gli si parasse davanti: surrealismo e dada, per cominciare, e poi anche tutte le scuole scismatiche che si erano generate da se stesse, per partenogenesi, nel gran parapiglia della diaspora anarchica e marxleninista (trotzkisti, consiliaristi, bordighisti, maò-maò eccetera).

Joker del goscismo, Debord tifava per la distruzione. Non divideva gli onori (e la leadership) con nessuno. Bruciava le amicizie (e le affinità politiche) come un atleta gli zuccheri. Stava all’Internationale situationniste (il suo contributo alla storia delle iperboli dell’arte moderna e dell’anarcomarxismo) come il Capitano Nemo al Nautilus: c’era lui al timone, era sua la teoria, sue le mosse sulla scacchiera della rivoluzione, e pertanto era sua e sua soltanto anche la poltrona rococò foderata di velluto rosso con vista sui fondali oceanici.

Scrisse La società dello spettacolo, un prodigioso pamphlet (poco letto, anche poco comprensibile, brillante ma invecchiato, nonché universalmente diffuso) che ha prestato il suo titolo e un’orecchiatura del suo contenuto al gergo giornalistico corrente, diventando un orribile e gessoso tormentone sociologizzante. A Parigi, nel Maggio Sessantotto, les situationnistes non ebbero il ruolo che Debord avrebbe in seguito attribuito a se stesso, ma furono situazionisti gli slogan, i volantini più popolari, i manifesti murali. Situazionista l’immaginazione al potere, situazionista il vivere senza tempi morti; e situazionista, soprattutto, il programma minimo: essere realisti, chiedere l’impossibile.

Guy Debord, nel racconto di Giorgio Amico, appare nella sua identità più vera, o almeno più somigliante: quella dell’uomo che uccise Liberty Valance. Come nel grande film di John Ford, dove James Stewart non è il vero giustiziere ma soltanto il giustiziere della leggenda, allo stesso modo il situationniste in capo non fu la vera anima delle barricate di maggio (come pretese, e come avrebbe senz’altro meritato, per l’acutezza e l’impazienza con cui annunciò il 68 e i suoi tumulti molto prima che chiunque altro ne cogliesse i segni). Fu però in questa veste che entrò nella leggenda. Furono i giornali, nel film di Ford, a «stampare» la leggenda di James Stewart gabellandolo come l’uomo che aveva ucciso Liberty Valance. Con un piccolo aiuto da parte dei fan, Debord si stampò la leggenda da solo.

Ciò in una straordinaria autobiografia (Panegirico. Tomo I e II, Castelvecchi 2013) e in un bellissimo film d’avant-garde su Parigi e sulla gioventù: In girum imus nocte et consumimur igni (un famoso palindromo in lingua latina, che resta immutato comunque lo si legga, da destra a sinistra come da sinistra a destra, e che in italiano si traduce «giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco»). Non fosse che per questo film e per quel libro il fondatore dell’Internationale situationniste (nata nel 1957, sciolta nel 1972) s’è guadagnato un posto di prima fi la (massimo seconda) tra le gloires francesi. Un po’ ci faceva conto. Come diceva Walter Matthau in È ricca, la sposo, l’ammazzo: «Se non si può essere immortali, che si vive a fare?».



Giorgio Amico
Guy Debord e la società spettacolare di massa
Massari 2017
pp. 322
19,00 €

Italia Oggi, 28 marzo 2020

San Leonardo da Porto Maurizio contro la Massoneria "peste del mondo cattolico"




Da bambino dalla finestra della mia camera al Parasio vedevo la casa natale di San Leonardo di cui mia nonna mi raccontava i miracoli. Mai avrei immaginato allora che da adulto mi sarei occupato del ruolo importante che il predicatore francescano ebbe nella violenta persecuzione antimassonica scatenata nel 1751 da Papa Benedetto XIV.

Giorgio Amico

San Leonardo da Porto Maurizio contro la Massoneria "peste del mondo cattolico"


Con l'enciclica Providas Romanorum Pontificum del 28 maggio 1751, Benedetto XIV rinnova la scomunica nei riguardi degli appartenenti alla Massoneria, rinnovando la condanna emessa solo tredici anni prima da Clemente XII (In eminenti, 28 aprile 1738).

Il Pontefice è particolarmente preoccupato dalla situazione venutasi a creare nel regno di Napoli dove gli inquisitori gli segnalano il rapido diffondersi di quella che per la Chiesa è una setta diabolica che mette in pericolo i pilastri della società: la corona e la tiara.

Tant'è che il Papa inizia un serrato scambio di lettere con il re di Napoli affinché anche il potere politico si attivi contro la malefica setta: "Noi - scrive Benedetto XIV - con ogni maggiore efficacia prescriviamo l'aiuto delle Potestà secolari, essendo i Principi Cattolici prescelti da Dio per essere Protettori della Fede ed alla Chiesa".

Spaventa la Chiesa "l'accoppiamento di persone di qualsivoglia religione e setta nelle adunanze: il che ognuno ben sa quanto possa essere nocivo alla nostra santa cattolica Religione".

È inaccettabile che si riuniscano nelle logge uomini di fedi e idee politiche diverse in un clima di fratellanza e di armonia. Questo viene visto come un pericolo mortale per una istituzione come la Chiesa che si ritiene depositaria della verità e considera nell'errore (e spesso perseguita) chi non ne condivida le posizioni. Insomma a preoccupare è la tolleranza e il rifiuto dell'assolutismo monarchico dei massoni che, nota il Papa, osano associarsi e riunirsi senza il permesso preventivo dell'autorità regia. "Radunanze e società vietate - scrive nell'enciclica- mancando l'autorità del principe".

Uno dei maggiori sostenitori di questa nuova campagna antimassonica é il predicatore francescano di Porto Maurizio Paolo Girolamo Casanova, meglio conosciuto come frate Leonardo, inventore del rito della Via Crucis, canonizzato nel 1867, proprio nel periodo di maggior contrasto tra la Chiesa e il pensiero liberale, di cui la Massoneria settecentesca era stata in qualche modo la prima manifestazione.

San Leonardo è tra i più ascoltati consiglieri del Papa ed è considerato anche da uno studioso cattolico come il paolino Rosario F. Esposito, tra i principali ispiratori della scomunica. In una lettera del 9 luglio a Benedetto XIV S. Leonardo plaude entusiasticamente all'opera antimassonica del pontefice. La riportiamo per la parte che ci interessa:

"La grazia dello Spirito Santo sia sempre colla Santità vostra. Non mi posso saziare di ripetere più volte. Benedetto sia Dio! Benedetto sia Dio per due punti di grande conseguenza di che si è compiaciuto ragguagliarmi colla sua amorevolissima, cioè l'accomodamento delle differenze insorte tra i religiosi francesi ed italiani della Missione, e destrezza con cui si è accattivato il re di Napoli per dare addosso ai Liberi Muratori che son veri ateisti e la peste del mondo cattolico [sottolineatura nostra]. In quanto al primo... In quanto al secondo vorrei potermi disfare per estirpare questa gramigna che va serrando per la nostra Italia, con tanto danno per le povere anime. In Nizza, in Provenza, avevano fatto il nido, e fui condotto a vedere il luogo dove facevano le loro conventicole: sul pavimento v'erano alcune figure stravaganti, e si conosce che si servono della magia ed hanno corrispondenza con l'inferno [Sottolineatura nostra]. Mi è stato detto che la Santità vostra abbia fatto una nuova Bolla contro questi perfidi, ed avrei molto caro di vederla. Spero che Iddio aprirà gli occhi a' Principi cristiani, acciò facciano una sacra Lega per distruggerli affatto. In Nizza si crede che loro operassero in modo che quel Vescovo a ciò non si facesse la missione. E infatti loro riuscirono; e ci convenne partire con le trombe nel sacco; il che dispiacque al re Sardo, che già mi aveva dato il placet, e mi mandò a dire che avevo fatto male a non scrivere a lui, perché avrebbe dato tutta la mano". (1)

Sembra di capire che al futuro "santo" bruci molto che nella tollerante Nizza, città di mercanti aperta ai contatti e agli scambi, non lo si fosse seguito nella sua campagna persecutoria antimassonica, tanto da costringerlo ad allontanarsi dalla città.

Altri, ben più potenti, lo seguiranno. In Spagna e Portogallo per i Liberi Muratori si apriranno le porte dei carceri dell'Inquisizione. Costretti sotto tortura a rivelare i segreti dell'Istituzione, molti finiranno non più sul rogo, che nel Settecento ormai non si usa più, ma incatenati ai remi delle galee della marina imperiale.

1. San Leonardo, Opere complete, vol. IV, Venezia, 1868, p. 358


venerdì 27 marzo 2020

Lo stalinismo nella sinistra italiana. 1944-47, il PCI forza di governo




Lo stalinismo nella sinistra italiana

Seconda e ultima parte di un articolo apparso nel 1988 su Bandiera rossa, organo della sezione italiana della Quarta Internazionale.

Giorgio Amico

Togliatti, Stalin e la politica italiana (1944-1947)
Seconda parte

La politica di unità nazionale e la lotta partigiana

La scelta di collaborare con la monarchia comporta anche il drastico rigetto della necessaria epurazione dei fascisti presenti in forza nell'amministrazione dello Stato e nelle Forze armate.

"Noi abbiamo bisogno - dichiara Togliatti - di generali (...) e di ammiragli (...), noi chiediamo ai generali e agli ammiragli di essere patriottici, di mostrare uno spirito democratico e di evitare l'intrigo". (17).

La sacrosanta opera di pulizia, che perfino un a parte dell'antifascismo borghese esige, viene così al pari della questione istituzionale rimandata al termine delle ostilità. Funzionari, poliziotti, generali che, a partire dal Maresciallo Badoglio, si sono macchiati di crimini efferati in Etiopia in Libia, in Albania, in Jugoslavia, rimangono indisturbati ai loro posti, anzi si tenterà di subordinare ad essi la direzione militare della guerra partigiana nel Nord. D'altronde si tratta di un passo praticamente obbligato: la scelta istituzionale conduce inevitabilmente a porre la sordina alla lotta partigiana, troppo carica di potenzialità eversive. Togliatti, tutto intento a costruire le basi del compromesso con monarchici e cattolici, attribuisce una scarsa importanza alla lotta armata contro i nazifascisti.

"Credo - nota amaramente Luigi Longo - abbia capito l'importanza del movimento partigiano quando seppe che avevamo fucilato Mussolini a Dongo. Era tutto preso dagli affari di governo, mi scriveva delle lunghe lettere per spiegarmi cosa aveva fatto o detto con De Gasperi o con Bonomi. Probabilmente credeva che i nostri bollettini militari fossero propaganda". (18)

Tale atteggiamento è anche il frutto di un pessimismo, disincantato e cinico, nei confronti dell'azione autonoma delle masse che verrà alla luce in ogni momento cruciale e che contagerà buona parte dei quadri dirigenti del partito. Scrive a questo proposito Pajetta:

"Visti da Roma, i partigiani anche a un comunista intelligente come Negarville, a Spano (...) a Eugenio Reale (...) appaiono un po' come ragazzi che giochino alla guerra. I compagni del Nord, a cominciare da Longo e Secchia, non staranno per caso ancora sviluppando tendenze di 'sinistra' di non lontana origine? E magari c'è chi, più scettico, pensa già che la guerra, quella vera, non solo non la vinceremo noi, ma in un certo modo non l'avremo neppure combattuta. È un sospetto che cerco di scacciare". (19)

Per tutta la durata della lotta armata la stampa comunista nell'Italia liberata batterà soprattutto sui tasti patriottici dell'unità nazionale. Manca completamente un'informazione organica sull'andamento della guerra partigiana, sulle forme di auto-organizzazione di un potere proletario che in molte realtà si vanno sperimentando e che, come nelle formazioni GL, si pongono tuttavia in aperta contraddizione con ogni ipotesi continuista nei confronti del vecchio Stato prefascista. Lo stesso Centro comunista nell'Italia occupata, pur accettando la svolta di Salerno, insiste perché il partito accentui in senso classista la propria linea politica. Sentiamo Pajetta:

"Noi non ci sognavamo certo di imitare gli jugoslavi e non volevamo finire come i greci; questo però non significava né che avessimo rinunciato a una democrazia nuova e alla partecipazione popolare, per esempio nella gestione delle fabbriche, né che intendessimo fare tante concessioni alla 'democrazia borghese', quante se ne erano fatte nell'Italia già liberata". (20)

La risposta del partito è netta: viene mandato Amendola a normalizzare la situazione, onde impedire ogni forma di autonoma azione di classe da parte delle masse proletarie in armi. Le direttive sono quelle stesse che alla vigilia dell'insurrezione Togliatti invia a Bologna:

"Il compito principale che oggi sta davanti a voi sapete qual'è (...). Liberata la vostra città il vostro compito sarà quello di dare vita, in accordo con le autorità alleate, che all'inizio ne avranno il controllo, a un'amministrazione democratica che si appoggi sulle masse popolari, sui partiti che ne sono l'espressione e sull'unità di questi partiti (...). Dovrete in pari tempo assicurare che la maggior parte dei combattenti partigiani continui a combattere per la libertà del paese (...) e ciò dovrà ottenersi col passaggio di questi combattenti all'esercito italiano, di cui debbono entrare a far parte (...). Il Nord deve dare a tutta l'Italia l'esempio di una marcia verso la distruzione del fascismo e verso un regime democratico che sia irresistibile per la sua stessa disciplina e per la capacità, energia e saggezza politica dei gruppi sociali, dei partiti e degli uomini che lo dirigono. Siamo certi che voi saprete essere all'altezza dei nostri compiti". (21)

Disarmo dei partigiani, ritorno al lavoro, rifiuto di ogni rivendicazione autonoma di classe: queste le direttive togliattiane, ribadite al termine delle ostilità in occasione del primo comizio nel Nord, tenuto a Sesto San Giovanni il 20 maggio del 1945:

"Il Partito comunista non avanza rivendicazioni di classe, ma vuole che la classe lavoratrice tenda la mano a tutti quelli che vorranno collaborare nella ricostruzione dell'Italia. Bisogna lavorare molto nelle fabbriche, nelle campagne". (22)

Ciò permetterà il ritorno nelle fabbriche, sotto l'effimera supervisione dei comitati di gestione, di uomini come Valletta, già condannati a morte dai partigiani per collaborazionismo, mentre vengono rapidamente smantellate le forme di controllo operaio imposte dai lavoratori alla vigilia dell'insurrezione.

Il partito nuovo e la democrazia progressiva

I nuovi compiti imposti dalla politica di collaborazione con la borghesia, richiedono per Togliatti la definizione di uno strumento che non può più essere il tradizionale partito internazionalista. nasce il "partito nuovo", "partito della classe operaia e del popolo, il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con un'attività positiva e costruttiva (...). La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente (...). partito nuovo è il partito che è capace di tradurre in atto questa nuova posizione della classe operaia, di tradurla in atto attraverso la sua politica, attraverso la sua attività e quindi anche trasformando a questo scopo la sua organizzazione. In pari tempo il partito che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano". (23)

Il PCI non è più una piccola organizzazione clandestina, è diventato un grande partito di massa che al momento della Liberazione conta novantamila iscritti al Nord e oltre trecentomila nel Centro-Sud, che diverranno addirittura 1.700.000 nell'aprile del 1946, con un afflusso, nota il compagno Moscato in apertura di un suo scritto dedicato a queste tematiche - di giovani entusiasti ma totalmente scollegati da ogni tradizione del movimento operaio., come conseguenza di vent'anni di fascismo". (24) Il PCI nel 1945 è dunque una realtà complessa e contraddittoria, sintesi di un vasto e confuso movimento di massa a carattere rivoluzionario che occorre riportare alla normalità. Rapidamente viene edificata una struttura burocratica molto articolata e retta da rigidi criteri gerarchici, in modo da poter tenere sotto controllo la massa poco politicizzata degli iscritti. Il quadro intermedio è formato da militanti nuovi, formatisi nella lotta partigiana, di limitata preparazione politica ma dotati di grandi capacità organizzative. Il tutto in un clima di entusiasmo, proprio di una situazione sentita dalle masse come eccezionalmente favorevole.
Un entusiasmo difficile da tenere a freno, che ostenta ancora troppo la propria carica rivoluzionaria. Così, durante la prima campagna elettorale la Direzione è costretta a stigmatizzare "la tendenza assai diffusa a disturbare comizi di altri partiti (...) l'abuso di altoparlanti che assordano la popolazione per intere giornate (...) l'impiego in massa di autotrasporti e il loro superfluo scorrazzare sovraccarichi di compagni e di bandiere rosse (...) certe espressioni di volgarità anticlericali (...)segni evidenti e deplorevoli di deviazione dalla linea politica del Partito (...) certi canti con parole di cattivo gusto ed esprimenti una posizione politica diversa da quella del partito". (25)
Nella stessa linea verranno criticati come titolo da non dare ai giornali delle federazioni locali nomi tradizionali come "Il Proletario", "La Comune", "La Scintilla", ecc. Il movimento giovanile comunista viene sciolto il primo luglio 1945 al fine di "promuovere la costituzione di una vasta associazione apartitica, unitaria e di massa" comprendente anche i giovani cattolici.
Tuttavia, nonostante il perbenismo ufficiale del partito, la base operaia e partigiana si caratterizza fortemente in senso senso rivoluzionario, e ciò rappresenta obiettivamente un ostacolo per la politica di unità nazionale che il partito porta avanti. Così nelle circolari che la Direzione invia alle federazioni locali si attaccano duramente le posizioni classiste che, nonostante tutto, fanno capolino qua e là e che vengono sprezzantemente definite "declamazioni, vanterie e minacce che respingono da noi le masse meno avanzate e creano in quelle più avanzate un pericoloso stato di eccitazione e di isolamento. Questo estremismo si traduce alla fine in una passività reale, che viene mascherata dalla ostentazione di metodi sorpassati, residui del periodo della guerra civile (...). Così succede che il partito tenda qua e là ad assumere il carattere di organizzazione solo degli strati più poveri ed esasperati della popolazione, perdendo la capacità di penetrare tra gli operai di mentalità meno accesa, tra i ceti medi, tra gli intellettuali, tra le donne". (26
Come si vede, e gli esempi potrebbero continuare numerosissimi, la costruzione del partito nuovo interclassista e nazionale non è priva di difficoltà. È sempre più difficile convincere la base operaia dell'utilità di perseguire nella politica di unità con la borghesia, sacrificando ogni legittima rivendicazione di classe a un'opera di ricostruzione economica che, nonostante le assicurazioni in senso contrario dei vertici del partito, è sempre più apertamente finalizzata al rafforzamento del capitalismo italiano uscito stremato dalla guerra e del suo apparato repressivo in fabbrica e nella società. Togliatti risponderà elaborando un'ideologia - da intendersi nel senso marxiano di falsa coscienza - fondata su di un richiamo formale al leninismo, sull'aperta falsificazione del pensiero di Gramsci e soprattutto su di una identificazione quasi religiosa con il mito dell'Unione Sovietica e di Stalin.
Tra il 1946 e il 1947 appaiono le prime edizioni dei Quaderni e delle Lettere dal carcere. I testi sono pesantemente manomessi onde far scomparire tutto ciò che in qualche modo contrasta con la vulgata staliniana: sparisce ogni accenno a Bordiga e a Trotsky, naturalmente, ma anche a Rosa Luxemburg.

"Le forbici - nota Salvatore Sechi che nel 1967 pubblica uno dei primi studi sull'argomento - hanno lavorato in due direzioni, colpendo da una parte l'amicizia e il consenso di Gramsci ad alcune istanza avanzate da Trotskij e dall'Opposizione di sinistra del partito bolscevico, l'affettuosa dimestichezza con Amadeo Bordiga, la moralità civile antiborghese; e dall'altra la sua indifferenza per Stalin, i cui scritti non vengono mai richiesti, come dimostra l'elenco dei volumi letti nel periodo carcerario". (27)
Tagli rivendicati ancora nel 1967 dal "liberal" Amendola "con il proposito di togliere a Bordiga, quando ancora non si conoscevano i suoi progetti e si pensava che volesse tentare un ritorno nella vita politica, la possibilità di giovarsi dell'autorità morale di Gramsci". (28) Tagli richiesti esplicitamente dallo stesso Togliatti che nel 1951, in occasione della pubblicazione del quaderno speciale di Rinascita sui primi trent'anni del PCI, esortava i redattori in questo modo:

"Guardarsi, naturalmente, dall'esporre obiettivamente le famigerate dottrine bordighiane. Farlo esclusivamente in modo critico e distruttivo". (29)

La politica di collaborazione di classe avviata da Togliatti con la svolta di salerno trova la sua più compiuta sistemazione teorica nel concetto di "democrazia progressiva". Per Togliatti ciò che sta accadendo in Italia è quella rivoluzione democratica che, iniziatasi con le lotte risorgimentali, non è stata condotta a fondo né sviluppata dalla borghesia. tocca ora al proletariato, trasformatosi in classe dirigente nazionale grazie alla lotta contro il fascismo prima e alla guerra di liberazione poi, farsene carico assieme a tutte le forze democratiche e progressive nell'interesse supremo della nazione.
La prima considerazione da fare riguarda l'uso strumentale e mistificante che viene fatto del pensiero di Gramsci. Per Gramsci, infatti, l'arretratezza relativa del capitalismo italiano non comportava assolutamente la necessità di "completare" la rivoluzione democratico-borghese, ma al contrario favoriva la rivoluzione proletaria:

"Si ha in Italia conferma - affermava nelle tesi redatte per il congresso di Lione - della tesi che le più favorevoli condizioni per la rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente sempre nei pesi dove il capitalismo e l'industrialismo sono giunti al più alto grado del loro sviluppo ma si possono invece avere là dove il tessuto del sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue debolezze di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei suoi alleati". E conclude con determinazione: "Il capitalismo è l'elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista". (30)
Le tesi di Lione sono del 1926. a prendere per buona la concezione togliattiana di "democrazia progressiva" dovremmo ricavarne la conclusione che vent'anni più tardi il livello delle forze produttive e la natura dei rapporti sociali in Italia fossero drammaticamente regrediti. In realtà, "l'alternativa che si poneva nel 1944-45 era la seguente: o uscire dal quadro del regime capitalista, ponendo la prospettiva del potere operaio, o rassegnarsi alla prospettiva di un ritorno alla democrazia borghese di vecchio tipo che, nella misura in cui si fosse consolidata, lo avrebbe fatto a spese del proletariato e con un arroccamento su posizioni sempre più conservatrici". (31) E i fatti stessi si incaricheranno in breve di dimostrarlo.

Il PCI forza di governo

La collaborazione del PCI a livello governativo continua e si intensifica dopo la Liberazione, prima con il governo Parri e poi con i due primi governi De Gasperi. Abbiamo visto come già nel 1944 Togliatti cercasse a ogni costo l'incontro con i cattolici e ciò spiega l'inerzia del segretario comunista di fronte alla caduta del governo Parri e il favore con cui viene salutata la candidatura di De Gasperi alla presidenza del Consiglio, considerata la fine di una storica politica di esclusione dei cattolici dalla scena pubblica nazionale. Togliatti è sinceramente convinto della volontà di collaborazione di De Gasperi e lo sottolinea in moltissime occasioni ai compagni che esprimono perplessità. Così a Basso, che lo critica per il voto favorevole all'articolo 7 della Costituzione che di fatto rende il Concordato del '29 fra Stato fascista e Chiesa cattolica legge fondante della Repubblica, risponde convinto: "Questo voto ci assicura un posto al governo per i prossimi vent'anni". (32)
Dal giugno 1945 al giugno 1946 Palmiro Togliatti è ministro di Grazia e Giustizia. Il suo atteggiamento sarà sempre improntato al più rigoroso rispetto non solo della legalità borghese, ma anche della continuità dell'apparato repressivo dello Stato passato immune attraverso la farsa dell'epurazione. Uno dei suoi primi atti, in un momento di forti tensioni sociali scatenate dalla miseria dilagante nei primi mesi del dopoguerra, è l'invio ai procuratori della repubblica delle varie province di severe disposizioni perché facciano rispettare la legge e difendano la proprietà:

"Non sarà sfuggito - si legge in una di tali circolari - All'attenzione delle SS.LL. Ill.me che, specie in questi ultimi tempi, si sono verificate in molte province (...) manifestazioni di protesta da parte di disoccupati culminanti in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a danno di uffici pubblici nonché di violenze contro i funzionari. pertanto questo ministero, pienamente convinto dell'assoluta necessità che l'energica azione intrapresa dalla polizia per il mantenimento dell'ordine pubblico debba essere validamente affiancata e appoggiata dall'autorità giudiziaria, si rivolge alle SS.LL., invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie e i relativi giudizi dovranno essere espletati con assoluta urgenza onde assicurare una pronta ed esemplare repressione (...). Si raccomanda infine di procedere, in tutti i casi in cui la legge lo consenta, con istruzione sommaria o a giudizio per direttissima e di trasmettere gli atti all'autorità giudiziaria militare qualora ricorrano le condizioni previste". (33)

La fiducia in una magistratura non epurata, formatasi negli anni del fascismo e violentemente antioperaia, è totale. Emerge ancora una volta l'immagine di un uomo che diffida delle masse che sostanzialmente disprezza, mentre pare trovarsi a suo agio solo all'interno di un apparato burocratico, sia esso il Comintern staliniano o il governo repubblicano spagnolo, o i generali di Badoglio, o l'apparato dello Stato restaurato dopo una ridicola parvenza di epurazione.
Nei confronti della base degli iscritti si sosterrà in seguito, dopo la cacciata dal governo nel 1947, che la politica sostanzialmente negativa perseguita dal 1944 era stata determinata dai condizionamenti posti dalla situazione internazionale e dai ricatti della DC e degli alleati. In realtà le cose stanno ben diversamente. Il fatto è che il PCI, che non vuole essere forza rivoluzionaria, non può essere neppure forza riformista ché troppi sarebbero stati gli interessi che si sarebbero comunque dovuti in qualche modo intaccare. Il risultato è l'immobilismo. Scrive a questo proposito Danilo Montaldi:
"Il PCI tende a trasfondere nell'azione ministeriale dal '44 al '47, con ruolo di mediazione, quanto emerge dalla lotta tra le classi nel paese; ma non può 'fare politica' come è nelle sue ambizioni, non può diventare autentico 'partito di governo' se non alla condizione di servire un solo 'blocco' - e nello stesso tempo lo Stato - perché su quel terreno possibilità di politica unitaria a lungo termine non ne esistono. Donde il suo verificato immobilismo anche sul piano ministeriale e parlamentare. È la tendenza a permanere in funzione di qualche 'dopo' che non coincide mai con la prospettiva del proletariato". (34)

Una realtà, questa, che l'esperienza berlingueriana dell'unità nazionale e del compromesso storico ha riproposto in tutta la sua evidenza.

1947: il benservito della borghesia

L'avvio della guerra fredda nel 1947 coglie di sorpresa il PCI che almeno dal 1943 puntato tutte le sue carte sull'alleanza, ritenuta indistruttibile, fra l'Unione Sovietica e le grandi potenze imperialistiche occidentali. Ora che la situazione interna è normalizzata, che iniziano ad affluire capitali americani, che la prima fase, quella più dura, della ricostruzione è compiuta, alla borghesia i comunisti non servono più: gli si può dare il benservito. Gli stretti legami con l'URSS, vantaggiosi fino a che questa era alleata degli USA, diventano di lì in poi la prova della doppiezza comunista, dell'inaffidabilità del PCI come forza di governo. L'intero progetto politico togliattiano si trova nel giro di poche settimane posto ai margini del quadro politico, privato di ogni spazio di manovra.
Scriveva Trotsky dal confino di Alma Ata a proposito della maggioranza staliniana dell'Internazionale:

"Il compito di questa scuola strategica consiste nell'ottenere con la manovra tutto quello che la sola forza rivoluzionaria della classe può conquistare (...). Tuttavia, tutti i tentativi di applicare il metodo burocratico degli intrighi alla soluzione di grandi questioni in quanto metodo relativamente più 'economico' di quello della lotta rivoluzionaria, hanno portato inevitabilmente a sconfitte vergognose (...). Bisogna capire una volta per tutte che una manovra non può mai decidere una grande causa (...). La contraddizione che esiste tra il proletariato e la borghesia è una contraddizione fondamentale. Ecco perché tentare di imbrigliare la borghesia, ricorrendo a manovre organizzative o personali, e di obbligarla sottoporsi a piani previsti nelle 'combines' non significa operare una manovra ma ingannare se stessi in modo vergognoso, anche se si tratta di un'ampia operazione. non si possono ingannare le classi. Ciò vale per tutte le classi se si considerano le cose dal punto di vista storico generale; ma vale più particolarmente e direttamente per le classi dominanti, possidenti, sfruttatrici, colte. La loro esperienza del mondo è così grande, i loro istinti di classe così esercitati, i loro organi di spionaggio così vari che, tentando di ingannarle, fingendo di essere quello che non si è, si finisce in realtà con il far cadere nella trappola non i nemici ma gli amici". (35)

17. Secchia-Frassati, Storia della Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1965, p.307.
18. G. Bocca, op. cit., p. 377
19. G. Pajetta, Il ragazzo rosso va alla guerra, Mondadori, Milano 1986, p. 105.
20. Ivi, p. 67.
21. P. Togliatti, Lettera al triumvirato di Bologna, in Rinascita n.4, aprile 1955.
22. L'Unità, 22 maggio 1945.
23. P. Togliatti, che cos'è il partito nuovo?, Rinascita, ottobre-dicembre 1944.
24. A. Moscato, Il PCI al governo nel 1944-47, in Sinistra e potere, Sapere 2000, Roma 1983, p. 11.
25. Migliorare la campagna elettorale, in La politica dei comunisti dal V al VI Congresso, Roma s.d., p. 46.
26. I risultati della consultazione popolare del 2 giugno e i compiti dei comunisti. Risoluzione della direzione del PCI, in La politica dei comunisti, cit., p. 80.
27. S. Sechi, Spunti critici sulle "Lettere dal carcere" di Gramsci, Quaderni piacentini, n.29, gennaio 1967.
28.G. Amendola, prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, Critica Marxista, n. 2, 1967, p. 6.
29. L. Cortesi, Introduzione a Tasca, I primi dieci anni del PCI, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 34.
30. Tesi di Lione, Milano 1975, p. 18
31. L. Maitan, Teoria e politica comunista del dopoguerra, Schwarz, Milano 1959, p. 42.
32. G. Bocca, op. cit., p. 450.
33. ivi, p. 453.
34. D. Montaldi, op. cit., p. 265.
35. L. Trotskij, La III Internazionale dopo Lenin, Schwarz, Milano 1957, pp. 155-57.

(Bandiera Rossa, n.6. giugno 1988)

martedì 24 marzo 2020

Togliatti, Stalin e la politica italiana (1944-1947)




Lo stalinismo nella sinistra italiana

Riprendiamo un articolo apparso nel 1988 su Bandiera rossa, organo della sezione italiana della Quarta Internazionale.

Giorgio Amico

Togliatti, Stalin e la politica italiana (1944-1947)
Prima parte

Sfrondato dalle contingenti motivazioni di bassa cucina politica tipiche del partito craxiano, l'odierno dibattito sul ruolo di Togliatti rievoca sostanzialmente i termini di una querelle ormai più che quarantennale.
È dal marzo 1944, da quando il segretario del PCI appena rientrato in Italia dall'Unione Sovietica decide, rinunciando alla pregiudiziale repubblicana e a ogni opzione sul futuro assetto politico e sociale del paese, di sostenere il vacillante governo Badoglio e contemporaneamente di operare, con il lancio del "partito nuovo", una sostanziale rottura con ciò che restava del partito nato a Livorno ventitrè anni prima, che periodicamente ci si accapiglia a sinistra su,il perché di una decisione tanto gravida di conseguenze. A intervalli regolari accade così che qualcuno scopra in aperta polemica con gli storici comunisti sostenitori dell'origine autonoma e nazionale della scelta togliattiana, che la svolta è stata soltanto l'applicazione di una linea decisa a Mosca e che ciò svaluta irrimediabilmente l'intero corso della politica comunista nel dopoguerra, anche se da più parti si riconosce che il PCI togliattiano rappresentò "un elemento oggettivo di modernità e di stabilità politica in un paese altrimenti incline al ribellismo e all'anarchismo". (1)
Già all'inizio degli anni cinquanta lo stesso Togliatti aveva sprezzantemente negato che la svolta di Salerno fosse da mettere in rapporto con l'attività della diplomazia sovietica, escludendo decisamente l'idea stessa che di una svolta si fosse trattato:

"La politica da me seguita a Napoli allora non fu nient'altro che l'applicazione concreta di una linea tracciata e battuta dal PCI, nei confronti dei gruppi monarchici, molto prima del 1944 (...). per essere ancora più precisi, noi dicevamo chiaramente che avremmo appoggiato anche un movimento monarchico il quale, eliminando a tempo Mussolini dal potere, evitasse l'entrata in guerra dell'Italia oppure, dopo il giugno 1940, facesse uscire l'Italia dalla guerra in cui era entrata (...). E non riesco nemmeno a capire come potessero attendersi da noi una politica diversa coloro i quali avessero seguito con un po' di attenzione la nostra agitazione negli anni precedenti". (2)

In realtà le cose stanno diversamente. Certo, la linea di collaborazione di classe propugnata dal segretario del PCI aveva radici lontani, risalenti alla svolta, questa si autentica, del VII Congresso dell'Internazionale comunista e alla politica dei fronti popolari, compresa l'infausta e controrivoluzionaria applicazione sperimentata dallo stesso Togliatti, allora fedele esecutore delle direttive staliniane, nel corso dei tragici eventi della guerra civile spagnola.
Ma già nel 1939, con il patto di non aggressione tra la Russia di Stalin e la Germania di Hitler, la situazione era tanto profondamente mutata da portare alla denuncia delle corresponsabilità delle democrazie borghesi (francia e Inghilterra) nello scatenamento di una guerra di cui, riscoprendo per l'occasione accenti leninisti, veniva a gran voce denunciato il carattere imperialista e l'estraneità agli interessi del proletariato. Nonostante Amendola, ancora nei primi anni sessanta, si ostinasse a sostenere che la politica comunista dopo Salerno era "la necessaria conclusione di una linea strategica che già a Parigi, nel marzo del 1940, Togliatti aveva indicata al partito" (3), il primo documento del centro parigino dopo l'inizio delle ostilità attribuisce la responsabilità della guerra sia "all'aggressività degli Stati fascisti" sia all'imperialismo anglo-francese, difende la validità del patto russo-tedesco, nega che "questa guerra sia una guerra democratica e antifascista" ed esorta al sabotaggio, al lavoro disfattista nelle forze armate e ad azioni di massa "per trasformare la guerra imperialista in guerra civile". (4)
L'aggressione nazista alla Russia sovietica muta radicalmente questo quadro: Stalin che, nonostante le affermazioni successive sulla necessità di guadagnare tempo per preparare la macchina bellica sovietica, aveva fino all'ultimo rifiutato, contro ogni evidenza, di prendere in considerazione la possibilità di un attacco tedesco, è costretto a ripensare radicalmente la sua politica. La sconfitta militare del fascismo diventa l'obiettivo principale; la guerra perde il suo carattere imperialistico, mentre si idealizza la democrazia borghese e si esalta lo sforzo bellico degli Alleati.
Togliatti "capo unico di Komintern, ormai ridotto a un esercito di propagandisti" (5), è come al solito il più attento e abile esecutore della nuova linea staliniana ed esalta dai microfoni di Radio Mosca le "grandi idee" che stanno alla base dell'alleanza antifascista:

"Se vincesse Hitler non ci sarebbe più posto in europa e nel mondo né per la democrazia, né per il cattolicesimo, né per gli esperimenti di trasformazione sociale di cui la Russia ha dato e dà un esempio grandioso. per questo nessuno può e deve stupirsi che l'Inghilterra liberale e l'America democratica aiutino la Russia sovietica. E i cattolici non possono essere contro questo aiuto, anzi lo debbono augurare e sollecitare. Sconfiggere la Germania e distruggere la barbarie hitleriana non significa altra cosa che continuare l'opera di civilizzazione dell'umanità che si iniziò nel momento in cui spuntò sul mondo pagano l'aurora del cristianesimo". (6)

La via staliniana parallela di Togliatti

Inizia fare capolino l'atteggiamento di riguardo verso le masse cattoliche che diverrà col tempo sempre più una costante della visione politica di un Togliatti che tende progressivamente a trovare una sua propria "via staliniana", parallela, ma non sempre coincidente con quella ufficiale. Scrive a questo proposito Fernando Claudin:

"La incondizionabilità del PCI nella sua inevitabile subordinazione a Mosca non era stata tanto incondizionale come quella del PCF nel suo periodo thoreziano (...). malgrado Togliatti avesse alla fine inquadrato il Partito comunista nell'ordine cominterniano (...) l'impronta gramsciana non si era del tutto perduta (...). Con la sua particolare capacità al compromesso e alla manovra politica, e approfittando del suo alto incarico, Togliatti cercò di mantenere un difficile equilibrio tra la subordinazione alla direzione sovietica e le esigenze - come egli le interpretava - della realtà italiana. nel periodo che stiamo considerando, la salvaguardia 'dell'equilibrio' era stata facilita perché tra la strategia staliniana e la visione togliattiana dei problemi italiani esisteva una coincidenza di fondo". (7)

Lo scioglimento del Comintern nel giugno del 1943 rappresenta un esempio illuminante di questa coincidenza di interessi tra le scelte sovietiche, sempre più sganciate anche da un punto di vista meramente formale da ogni preoccupazione internazionalista, e il progetto che sta gradualmente maturando in Togliatti di una vera e propria rifondazione su basi nuove, sostanzialmente interclassiste e nazionali, del Partito comunista italiano. Ciò che interessa Stalin è rimuovere ogni impedimento che possa ostacolare in qualche modo la collaborazione con gli Alleati. Il Comintern, anche se da anni in agonia, rappresenta ancora agli occhi della borghesia internazionale e delle masse proletarie del mondo intero, il simbolo stesso della rivoluzione proletaria e il legame diretto con l'Ottobre bolscevico. È un simbolo pericoloso, che va rimosso al più presto, come osserva Stalin, per porre fine alla "calunnia" che l'URSS voglia "ingerirsi nella vita delle altre nazioni per bolscevizzarle" (8).
Tale decisione non è tuttavia rapportabile soltanto alle esigenze del momento: Stalin pensa già ad un dopoguerra di coesistenza pacifica delle sfere di influenza che verrà sanzionato inseguito dagli accordi di Yalta. In uno schema simile non c'è posto per la rivoluzione. Come nota Spriano in un testo sostanzialmente più problematico rispetto alle sue opere precedenti:

"Ogni paese a sé preso diventa l'oggetto ma anche il confine del campo d'azione dei partiti comunisti. internazionalmente, l'orizzonte è dominato dagli interessi delle grandi potenze e dalla possibilità di trovare un durevole equilibrio di pace all'ombra di un accordo fra di esse" (9).
È proprio in questo momento cruciale che vanno ricercate le origini di quella "via nazionale al socialismo" che, da sempre presentata dal PCI come il frutto principale del radicale e sofferto ripensamento togliattiano dell'intera esperienza staliniana, rappresenta invece paradossalmente il frutto più maturo di quella concezione del socialismo in un solo paese, affermatosi progressivamente con la liquidazione dell'Opposizione di sinistra nel partito stesso e nell'Internazionale e con le tragiche sconfitte in Cina, in Germania e in Spagna. Anche il linguaggio muta: cadono i riferimenti all'autonoma azione del proletariato, all'internazionalismo, alla stessa contraddizione tra capitale e lavoro. Il tasto su cui ossessivamente si batte è quello dell'unità nazionale, della comunanza di interessi fra la classe operaia e una nazione intesa come concetto metastorico, privo di ogni concreta valenza di classe.
Nel dare l'annuncio dell'avvenuto scioglimento dell'Internazionale, l'Unità commenta:

"Il Partito comunista d'Italia approva pienamente questa proposta perché lo scioglimento dell'Internazionale comunista è una misura che ha un significato politico e storico nettamente positivo per la classe operaia e per i partiti comunisti di tutti i paesi. Essa ha lo scopo fondamentale di consacrare, anche formalmente, l'indipendenza politica dei partiti comunisti e d'incoraggiarli ad adeguare sempre di più la loro politica, con spirito di iniziativa e di indipendenza, ai problemi e alle situazioni nazionali dei loro paesi. essa esprime in modo inequivocabile il fatto che la classe operaia, di cui i partiti comunisti sono l'espressione organizzata e cosciente, è assurta in modo definitivo alla funzione di classe nazionale dirigente, di classe cioè che deve e può affrontare e risolvere in modo positivo tutti i problemi inerenti alla vita e al progresso della nazione" (10).

Questo linguaggio, tuttavia, non significa necessariamente una rottura con lo stalinismo, né una maggiore autonomia da Mosca. Come testimonia uno dei protagonisti di quell'epoca, quella svolta, pur tanto carica di valenze liberatorie e di stimoli positivi per il partito italiano, non rappresentò assolutamente l'inizio di un'epoca e di un metodo nuovi per quanto atteneva ai rapporti fra partiti nell'ambito del movimento comunista internazionale:

"Il PC dell'URSS restava il punto di riferimento, la 'gerarchia' da rispettare anche nella nuova dinamica del movimento comunista" (11).

E ciò vale anche a livello ideologico, se si considera come la visione sostanzialmente menscevica della rivoluzione a tappe, che sta alla base di gran parte della concezione staliniana, rappresenti il brodo di cultura in cui fermentano i primi germi di quella deviazione gradualistica e nazionale del marxismo che, via via, per trasformazioni progressive, verrà a costituire l'essenza del corpus teorico togliattiano. Così se la riflessione di Togliatti a partire dalla svolta di Salerno fino a giungere al Memoriale di Yalta, passando per il periodo dei governi di unità nazionale e per il trauma del XX Congresso, è qualcosa che via via diventa radicalmente altro dallo stalinismo, essa non può essere compresa e neppure pensata a prescindere da questo.
Di qui un giudizio decisamente negativo sull'operazione, opportunistica e di scarso respiro politico, con cui un PCI sempre più privo di identità, che si presenta ora di fronte all'attacco craxiano come continuista esaltando la scelta nazionale e democratica operata da Togliatti nel 1944, ma depurandola accuratamente delle sue oggettive connotazioni staliniane, si lancia ora in una "radicale ricollocazione storica della Rivoluzione di Ottobre e di tutto il complesso movimento che da quella rivoluzione ha preso le mosse" coinvolgendo in un tutto indistinto bolscevismo e stalinismo" (12).

La svolta di Salerno e la liquidazione dei gruppi rivoluzionari

Il 27 marzo 1944 Togliatti giunge a Napoli e immediatamente orienta i quadri del partito in merito alla nuova linea da adottare:

"Ci mise in guardia - ricorda uno di loro - contro una schematica immaginazione dei compiti del partito (...). Dalle conversazioni di Togliatti (...) emergeva chiaramente una cosa: per il nostro paese non si poneva immediatamente il problema del socialismo" (13).

Togliatti afferma a chiare lettere che il PCI deve entrare a far parte del governo e dare il suo apporto a prescindere da ogni pregiudiziale sul futuro assetto istituzionale del paese. La politica comunista deve radicalmente mutare: non ispirarsi più a "ristretti interessi" di classe, ma farsi carico dei supremi interessi della nazione. Pochi giorni prima il governo sovietico aveva riconosciuto ufficialmente il governo Badoglio e presentato un memorandum agli alleati perché premessero sui partiti antifascisti, concordi nella pregiudiziale antimonarchica, in modo di "fare dei grossi passi verso la possibile unione di tutte le forze democratiche e antifasciste dell'Italia liberata".
Coincidenza sospetta, portata sempre come prova da chi, soprattutto a destra, ha presentato il segretario comunista come un mero esecutore della politica di Mosca.In realtà, come si è visto, le cose hanno contorni ben più articolati. Lo ammette un autore in questo caso non sospetto come Giorgio Bocca:
"La svolta di Salerno è tale solo per coloro che ignorano la storia del partito e dell'Internazionale dopo il VII Congresso. La via d'uscita, di cui parla Togliatti, è per i comunisti una via obbligata: se sono stati per il fronte popolare nella guerra di Spagna, non possono essere che per il fronte nazionale in Italia dove le condizioni sono più favorevoli, mancando ogni pericolo a sinistra e combattendosi una guerra di liberazione". (14)
Togliatti è dunque risolutamente contrario non solo a una accelerazione in senso rivoluzionario della situazione italiana, ma anche a una immediata soluzione della crisi istituzionale attraversata dal paese. Egli ritiene che a ogni costo vada evitato anche il minimo contrasto con le autorità militari angloamericane e con monarchici e cattolici. Obiettivo prioritario, a cui tutto va sacrificato, diventa l'inserimento del partito nella legalità e nel governo. Tale in sintesi era stato il contenuto del discorso tenuto ai dirigenti comunisti italiani a Mosca, pronunciato il 26 novembre 1943 nella sala delle colonne della Casa dei sindacati.
"Sarebbe assurdo - aveva concluso allora - in un paese il quale ha fatto la tragica esperienza di vent'anni di fascismo (...) pensare al governo di un solo partito e al dominio di una sola classe. L'unità e la stretta collaborazione di tutte le forze democratiche popolari dovranno essere l'asse della politica italiana". (15)
E se ciò scontenta socialisti e azionisti che considerano la "svolta" un cedimento pericoloso, pazienza! L'importante è mantenere il controllo del partito, isolando le formazioni rivoluzionarie che in modo confuso e contraddittorio stanno sorgendo alla sua sinistra.
Il compito si rivelerà più facile del previsto, agevolato dalla mancanza in Italia di una organizzazione marxista-rivoluzionaria dotata di un minimo di quadri sperimentati e di un'analisi complessiva dei problemi interni e internazionali. Vista da tale angolazione, la situazione è desolante e le posizioni trotskiste quasi sconosciute. L'esperienza della Nuova Opposizione Italiana di Leonetti, Tresso e Ravazzoli si era tutta giocata nell'emigrazione ed era rapidamente declinata senza sedimentare in Italia nulla di organizzato. Quanto ai gruppi che fanno riferimento a Amadeo Bordiga e alle posizioni della sinistra comunista, il dato che emerge è quello di un sostanziale immobilismo, frutto di una concezione riduttiva e schematica del marxismo. Così ci si limiterà a mettere in luce il carattere imperialistico della guerra in atto, astenendosi di fatto da ogni iniziativa che non sia meramente propagandistica o, dove si tenterà la via dell'organizzazione, come nel caso del Partito comunista internazionalista di Onorato Damen, si ricadrà nel tragico errore, già commesso in Spagna, di estraniarsi dalla lotta antifascista, offrendo il miglior appiglio alle campagne denigratorie degli stalinisti.
Certo, nascono e si sviluppano, raggiungendo dimensioni anche consistenti, organizzazioni come Stella Rossa a Torino o il Movimento Comunista d'Italia (Bandiera Rossa) a Roma, ma caratterizzandosi per uno stalinismo ancora più esasperato che condurrà inevitabilmente alla confluenza nel PCI (Stella Rossa) o al disperato tentativo di separare le responsabilità e la politica di Togliatti da quelle di Stalin. Atteggiamento questo, detto per inciso, ricorrente nella dissidenza comunista come dimostrerà anni più tardi l'esperienza di Azione comunista e nella seconda metà degli anni Sessanta dei gruppi m-l "storici".
Che compromesso istituzionale e lotta al "trotskismo" venissero lucidamente visti dal gruppo dirigente comunista come inscindibili, è testimoniato chiaramente, qualora ce ne fosse bisogno, dal futuro leader dei togliattiani di sinistra Pietro Ingrao:
"Attraverso quel dibattito - afferma su Rinascita già negli anni della destalinizzazione - fu condotta e vinta la lotta contro i gruppi trotskisti, contro il massimalismo parolaio, l'anarchismo e il settarismo e contro i residui della loro influenza nel movimento operaio; furono gettate le basi del partito nuovo e fu affermata la ricerca di una via italiana al socialismo". (16)

1. E. Scalfari, De Gasperi e Togliatti laici per forza,in La Repubblica, 22 agosto 1984.
2. P. Togliatti, I comunisti italiani e la monarchia, in Belfagor, n.2, 1950.
3. G. Amendola, Introduzione a Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, Editori Riuniti, Roma 1963, p. XXXVI.
4. P. Spriano, Storia del PCI, vol. III, Einaudi, Torino 1970, pp. 327-28.
5. G. Cerreti, Con Togliatti e Thorez, Feltrinelli, Milano 1973, p. 276.
6. P. Togliatti, Opere, Vol. IV.2, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 156.
7. F. Claudin, La crisi del movimento comunista, Feltrinelli, Milano 1974, p. 274.
8. Intervista di Stalin al corrispondente dell'Agenzia Reuter a Mosca, in Claudin, cit., p.25.
9. P. Spriano, i comunisti europei e Stalin, Einaudi, Torino 1983, p. 190.
10. L'Unità clandestina, n.8, 10 giugno 1943. Citato in D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia, Edizioni quaderni Piacentini, Piacenza 1976, p. 24.
11. L. Longo, Opinione sulla Cina, La Pietra, Milano 1977, pp- 196-99.
12. A. Occhetto, Il passato è sepolto, in La Repubblica, 10 marzo 1988.
13. P. Robotti, La prova, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 307-08.
14. G. Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 363-64.
15. P. Togliatti, Rinascita, 23 aprile 1966.
16. Rinascita, maggio-giugno 1956, p. 315.

continua

(Bandiera Rossa, n.6. giugno 1988)