venerdì 31 luglio 2020

UN PROGRAMMA COMUNE PER IL COMPRENSORIO SAVONESE E LA VALBORMIDA

UN PROGRAMMA COMUNE PER IL COMPRENSORIO SAVONESE E LA VALBORMIDA 

di Franco Astengo

Sintesi degli interventi nel convegno “Savona e l’Isolamento Politico e Sociale” svolto il 30 luglio presso la Società Generale di Via San Lorenzo (g.c.) e organizzata dal gruppo “Quelli della Rebagliati – Il Rosso non è il nero”. Nel corso del convegno è stato presentato il progetto elaborato da Giorgio Ajassa e Dario Zucchelli al riguardo delle infrastrutture ferroviarie tra Savona e il Piemonte.


“Un programma che comprenda punti comuni per il comprensorio savonese e la Val Bormida” questa la proposta più significativa avanzata da Sergio Tortarolo in conclusione del convegno “Savona e l’isolamento politico e sociale”.
Richiamo alla comprensorialità svolto anche da Bruno Marengo nel pronunciare, in apertura dei lavori, un ricordo di Angelo Carossino, sindaco di Savona dal 1960 al 1966 scomparso nei giorni scorsi. In quel periodo infatti iniziò l’elaborazione del PRIS, strumento di programmazione economica e urbanistica che in seguito promosse per molto tempo una fase di sviluppo dell’intera area centrale del savonese.
Una proposta, quella della comprensorialità attraverso la quale può essere realizzato quell’innalzamento di qualità programmatica, quella visione di “pensiero lungo” richiesto da Franco Astengo nell’introduzione ai lavori, presieduti da Franca Ferrando.
Lo scopo indicato nella relazione è stato quello di riuscire a concretizzare al meglio la richiesta di apertura di un nuovo ciclo per la città di Savona nel senso di una rottura non episodica sia rispetto all’attuale amministrazione (giudicata “priva di vocazione”) sia con il passato del primo decennio del XXI secolo allorquando fu completato lo scambio deindustrializzazione / speculazione edilizio. Uno scambio che non solo ha abbruttito la Città e avviato un processo di vero e proprio spopolamento ma l’ha privata anche di un’identità riconoscibile: è stato nel corso del primo decennio del 2000 che va cercato “il colpevole” come richiesto nel suo intervento da Mimmo Lombezzi.
Le due scadenze elettorali, quella immediata per l’elezione del Presidente e del Consiglio Regionale della Liguria e quella prevista per il 2021 per l’elezione del Sindaco e del Consiglio Comunale di Savona rappresenteranno due tappe fondamentali per delineare una svolta.
Il dibattito ha ruotato attorno alla presentazione del progetto riguardante le infrastrutture ferroviarie necessarie al savonese per uscire dall’isolamento.
Il progetto è stato presentato con ampi riferimenti alla realtà regionale e di tutto il Nord – Ovest da parte dei suoi estensori Dario Zucchelli e Giorgio Ajassa suscitando il più vivo interesse da parte dei presenti.
Un progetto direttamente connesso con la questione del lavoro che in questo modo ha assunto, nella proposizione di gran parte degli interventi, una vero e proprio recupero di “centralità” dopo un lungo periodo nel quale le istituzioni lo avevano relegato in secondo piano agitando strumentalmente il conflitto con l’ambiente come ha segnalato nel suo intervento Livio Di Tullio.
Sulla questione infrastrutturale in una chiave riferita all’intero nord – ovest è intervenuto anche Maina, esponente di “Noi per Savona”.
L’altro argomento che ha polarizzato la parte centrale del confronto è stato quello della costruzione di un’offerta politica adeguata per avviare, partendo dalle elezioni del 2021, quel già richiamato“nuovo ciclo” per Savona.
Sergio Acquilino ha proposto una larga alleanza a sinistra che Marco Russo ha definito come “Patto”: entrambi comunque hanno insistito sul concetto di una “larga” concentrazione di soggetti posta in relazione a precisi punti programmatici, larga concentrazione di forze sollecitata anche dall’intervento di Rita Caviglia; a questo proposito Gabriella Branca ha portato l’esempio della costruzione della candidatura Sansa in Regione e sottolineato la natura sperimentale dell’accordo con il Movimento 5 Stelle.
Sul tema della costruzione di un accordo politico è intervenuto anche Livio Di Tullio accennando alla formazione di un “movimento civico”.
Marco Russo inoltre ha toccato diversi aspetti dell’isolamento di cui soffre Savona, citando tra questi anche il sociale nella cui caduta di espressione pubblica si è riscontrata la solitudine delle persone, in particolare di quelle in maggiore difficoltà com’è stato dimostrato nel periodo del lockdown.
Altro punto sviluppato in diversi interventi quello del decentramento.
Il tema del decentramento è stato ripreso anche nelle conclusioni da Sergio Tortarolo che ha usato la formula del “rinnovo della Città a partire dalle periferie”. Periferie nella quali andrà costruito un “gruppo dirigente diffuso” capace di diffondere socialità e solidarietà.
Sui temi dell’attualità delle condizione dell’amministrazione savonese e sull’incapacità dell’attuale giunta di affrontare i problemi concreti della città si sono soffermati la capogruppo del PD Elisa di Padova e quello di Rete a Sinistra Marco Ravera.
Sono intervenuti anche Antonio Vallarino sulla questione della proprietà cinese della Piattaforma Maersk e Dilvo Vannoni sull’auspicio formulato da “Savona antifascista” di tornare ad un “Comune antifascista”.
Nella sostanza il dibattito sviluppato nel corso del convegno ha dimostrato una forte possibilità di concretizzazione di istanze di superamento dell’isolamento di cui soffre Savona grazie alle proposte contenute nel progetto di Ajassa e Zucchelli e una richiesta di ritorno alla dimensione comprensoriale e di decentramento cittadino come sostenuto da Sergio Tortarolo e Bruno Marengo.
Si sono così poste le premesse per un prosieguo del confronto sul tema più proprio della formazione di una adeguata “offerta politica” , tema presente nei diversi aspetti degli interventi di Marco Russo, Livio Di Tullio, Sergio Acquilino.


giovedì 30 luglio 2020

Franco Astengo, Alternative




Che esista oggi un vuoto politico a sinistra è cosa sotto gli occhi di tutti. Altrettanto evidente è che da questa situazione non si esce con soluzioni estemporanee, uomini della provvidenza o semplici cartelli elettorali. Occorre un ripensamento profondo della storia passata che analizzi sia la trasformazione profonda degli assetti repubblicani che la crisi della sinistra nelle sue diverse accezioni (comunista, socialista, post-sessantottina). Negli anni Ottanta i due processi andarono avanti infatti di pari passo, in parallelo con il mutamento della situazione internazionale e il trionfo del neoliberalismo. Pubblichiamo oggi una riflessione di Franco Astengo sul tema, centrale dalla Liberazione a tutti gli anni '80, dell'alternativa. Una alternativa di “sistema” che sulla spinta delle lotte operaie modificasse in profondità il sistema o semplicemente una alternativa“democratica”, giocata principalmente a livello parlamentare e che dunque, come poi avvenuto, lasciasse in piedi i meccanismi di potere esistenti salvo correzioni marginali a livello sovrastrutturale. Superfluo dire che fu la seconda ipotesi ad affermarsi, lasciando intatto il sistema di potere DC. Fu proprio l'incapacità di pensare una radicale alternativa, che sapesse andare oltre gli slogan della sinistra rivoluzionaria e i tentennamenti di quella istituzionale, che permise, al momento dell'implosione della prima repubblica fondata sulla centralità della DC, la nascita e l'affermazione del berlusconismo come nuova forma di equilibrio dei poteri “forti” che ancora oggi con vari passaggi (Renzi, M5S, Salvini) nella sostanza regge il paese.

G.A.

Franco Astengo

Alternative

“Democrazia bloccata”, “conventio ad excludendum”, “consociativismo”: su questi tre punti si è sviluppato il processo che, in ragione di fattori derivanti sia dal vincolo esterno (caduta del muro di Berlino, trattato di Maastricht) sia dal vincolo interno (Tangentopoli) ha portato all’implosione di quella che, nella definizione di “Pietro Scoppola”, è stata la realtà della “Repubblica dei Partiti”.
Nella sostanza la fase repubblicana sviluppatasi tra il 1945 e il 1980 che si è frantumata di fronte all’assenza di una alternativa che non fosse quella “politicista” del cambiamento della legge elettorale.
Una fase contrassegnata dal permanere della posizione “pivotale” da parte della Democrazia Cristiana, dal progressivo adeguamento alle logiche di governo da parte del Partito Socialista fino all’assunzione della “logica” della governabilità nella fase della segreteria Craxi, dalla tensione consociativista del PCI quale riflesso della ricerca “togliattiana” sull’identità nazionale.
Un periodo nel corso del quale si segnò la ricostruzione del paese realizzata attraverso il piano Marshall e i grandi sacrifici imposti ai lavoratori: ricostruzione come base verso l’affermarsi del consumismo, avvenuto nell’esaurimento delle logiche “comunitarie” del welfare keynesiano nei trent’anni gloriosi fino all’affermarsi dell’individualismo dello sfrangiamento sociale.
Collegare questo quadro per analizzare l’eredità politica di Lelio Basso, come richiesto dall’intelligente intervento di Giorgio Amico, non può che stimolare la riflessione su di un punto: acclarata l’assenza di un’alternativa si potrebbe discutere oggi di un appuntamento mancato attorno ad almeno 3 visioni d’analisi emerse nel movimento socialista e comunista e mai raccolte all’interno di un progetto politico che pure, a giudizio di chi scrive, poteva anche risultare possibile?

Le tre visioni riguardano:

1) La critica iniziale portata avanti da Basso fin dalla natura del CLN e quindi rispetto all’origine stessa della Resistenza, della Costituzione, della Repubblica. L’interrogativo posto da Basso all’origine del CLN riguardava, rispetto al ruolo dello PSIUP, l’opportunità di stringere quel tanto di alleanza che nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia non soltanto organizzativa di partito, ma di autonomia politica di classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanze delle riforme di struttura.
Nel giudizio di Basso l’avere accettato l’impostazione paritetica ed indiscriminata dei C.L.N. aveva aperto facilmente le porte ai sabotatori della Resistenza: nella sua valutazione, infatti, sarebbe stato sufficiente che una parte di coloro stessi che avevano sostenuto il fascismo, che ne avevano approfittato durante un ventennio e che avrebbero volentieri continuato ad approfittarne, venissero a cercare un alibi in seno a qualche partito riconosciuto come antifascista. Basso lamentava anche la mancanza di un programma di rivendicazioni sociali che caratterizzasse i partiti proletari e sulle quali si sarebbe forse potuto, nel clima della Resistenza, ottenere il consenso anche dei partiti borghesi. L’impostazione della politica postfascista non si realizzò così come una rottura del ventennio ma fu invece tutta dominata dalla preoccupazione di assicurare la continuità politica e giuridica col vecchio stato sabaudo-fascista, e di soffocare ogni tentativo di rinnovamento sotto uno scrupolo di legalità formale, senza riflettere sul fatto che si trattasse di legalità fascista, perché fasciste erano le leggi in vigore. La mancanza di una qualsiasi riforma sociale nei programmi dei primi governi Parri e De Gasperi e il loro rinvio alla Costituente prima e alle Camere Legislative poi, avrebbe finito con lo svuotare la lotta politica italiana di ogni serio contenuto, capace di orientare ed educare democraticamente le masse popolari, lasciandole così preda della demagogia dei programmi e della retorica dei disborsi, anziché del chiaro linguaggio dei fatti. Comunque la lotta politica in Italia, dall’aprile 1945 fino alla rottura del Tripartito, fu dominata da questo equivoco. In omaggio all’idea dell’unità, il C.L.N. non aveva elaborato un programma su cui fosse possibile dividersi, e in omaggio alla stessa unità le sinistre rinunciarono ad elaborarlo per proprio conto e a lottare per esso. La critica di Basso arrivava così al cuore della politica dei partiti di sinistra:lontani al mettere in chiaro le differenze, erano apparsi anch’essi dominati dal desiderio di confondere le tinte, di attenuare le distinzioni, di mettere in ombra le caratteristiche particolari, per apparire anch’essi come dei bravi democratici antifascisti che si distinguevano dagli altri democratici antifascisti quasi soltanto per il maggior impegno che ponevano nel realizzare le comuni rivendicazioni.

2) La critica avanzata da Panzieri. Attraverso l’elaborazione sviluppata su Quaderni Rossi, Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto largamente ignorati come la IV sezione del I libro del Capitale, il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il Capitolo VI del Capitale (inedito), facendo emergere nel dibattito i concetti di sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro al capitale per indagare i processi di trasformazione economico – sociale e per analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro.
Su queste basi Panzieri elaborò i concetti di “operaio massa” e di “composizione di classe”.
Panzieri considerava l’operaio massa, tecnicamente dequalificato rispetto all’operaio di mestiere, come portatore di una potenzialità conflittuale molto forte.
La composizione di classe indicava il nesso tra i connotati oggettivi della forza lavoro in un certo momento storico e i suoi connotati politici soggettivi.
Secondo Panzieri non esisteva alcune tendenza immanente al superamento della divisione del lavoro, così come non esisteva alcun limite allo sviluppo del capitale.
L’unica costante nel modo di produzione capitalistico era rappresentato dalla crescita (tendenziale) del potere del capitale sulla forza lavoro e l’unico limite al capitale è la resistenza della classe operaia.
Panzieri ipotizzava che, in ragione della crisi della teoria economica, il capitalismo avesse perduto il suo pensiero classico nell’economia politica e avesse ritrovato la sua scienza non volgare nella sociologia, la quale segnalava il passaggio del problema del funzionamento del meccanismo economico a quello dell’organizzazione del consenso.
Tale trasformazione corrispondeva a un mutamento del rapporto tra ricchezza e potere.
Il rapporto tra ricchezza e potere si trasformava in una concezione del potere inteso ad asservire la ricchezza, in una funzione del denaro utilizzato come mezzo per conseguire il dominio politico.
Una analisi che, anche in questo caso, può essere ben considerata come profetica e di fortissima attualità.
Panzieri indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi produrre).
L’avanzamento di questa domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte intente – in quella fase – a muoversi sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo italiano”).
Le lotte di fabbrica di quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale tutta incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro.
Una tesi, quella del marxismo italiano “ufficiale” compresa tra la programmazione giolittiana e il sostegno al “capitalismo straccione” di Amendola,  che Panzieri contrastò vivacemente come altri fecero in diverse sedi (a partire dal convegno dell’Istituto Gramsci sulle “tendenze del capitalismo italiano” svoltosi nel 1962 di cui si parlerà in seguito).
L’ analisi di Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica.
L’eredità teorica di Panzieri rimase così sullo sfondo nell’elaborazione della sinistra italiana.

3) La posizione emersa nella sinistra comunista in particolare nell’occasione del già citato convegno organizzato nel 1962 dall’Istituto Gramsci sulle “Tendenze del Capitalismo italiano”.
In quel convegno la futura “sinistra comunista” che avrebbe fatto capo a Ingrao (assente nell’occasione) e rappresentata dagli interventi di Trentin e Magri fu capace di sottolineare le novità qualitative che stavano emergendo nel capitalismo italiano. Dal subbuglio del neocapitalismo arrivavano al dunque problemi e bisogni che andavano oltre la semplice redistribuzione del reddito e/o la modernizzazione del sistema (come pensava Amendola). Si trattava di far prendere forma all’insieme dei rapporti politici e sociali in mutamento nel corso di quegli anni aprendo due filoni principali di riflessione:
a) quello con la classe operaia nell’ambito di una relazione che non fosse soltanto quella sindacale, ma quello di una lotta operaia urbana ad alta densità politica. L’industrializzazione doveva accompagnarsi con la modernizzazione. Su questo punto il collegamento con Panzieri che chiosando i Grundrisse ne aveva ripreso un concetto fondamentale: “ Verrà il momento che lo sfruttamento materiale sarà ben misera cosa per misurare la ricchezza, perché emergeranno nuovi bisogni e criteri per misurare il progresso e la ricchezza”
b)quello di una battaglia, della quale si erano già visti elementi concreti nei fatti del Luglio ‘60 nel corso dei quali i giovani erano stati l’anima dell’antifascismo, che indicasse come la lotta contro il fascismo non fosse finita con l’obiettivo di sradicare quanto ancora ci fosse di fascismo nelle istituzioni e nella società.
In entrambi i punti emergono con chiarezza gli elementi di collegamento nel pensiero tra questi soggetti e protagonisti politici.

Quanto fosse possibile costruire un’alternativa alla dimensione dominante dei partiti di massa rimane un interrogativo la cui risoluzione è ormai circoscritta al segno della storia.
Forse lo PSIUP avrebbe potuto rappresentare un punto di coagulo intellettualmente all’altezza se all’interno di quel partito fosse stato possibile misurarsi con i temi della classe e del rapporto tra essa e la modernizzazione industriale in Occidente e le tendenze che essa avrebbe suscitato nel movimento operaio.
Lo PSIUP, di cui Basso era stato tra i promotori mentre Panzieri morì nel dicembre 1964 quando il partito era sorto da pochi mesi, si rivelò insufficiente per eccesso di politicismo e di legame con lo schema bipolare (tema che non si è affrontato in questa sede e che rimane comunque fattore decisivamente insuperabile in quell’epoca se pensiamo a ciò che si verificò, pochi anni dopo, con l’invasione della Cecoslovacchia).
Si sarebbe dovuta rinvenire la capacità di uscire dall’egemonia dello schema togliattiano di lettura di Gramsci del “Risorgimento incompiuto” e dell’identità nazionale della classe operaia.
I due punti che Togliatti mutuò da Gramsci attraverso la pubblicazione “ragionata” dei Quaderni e che rimangono comunque le stimmate di identità peculiare del comunismo italiano anche rispetto al materialismo dialettico sovietico.
Un’identità consolidata ed egemone che poteva essere affrontata attraverso la rilettura, assieme ai nuovi classici della sociologia americana dell’epoca e dei teorici della Scuola di Francoforte anche di un altro Gramsci: quello di “Americanismo e fordismo”.
Dei “se” e dei “ma” però sono piene le fosse e in questo caso ne ho compiuto un utilizzo colpevolmente abusivo.
Vale la pena, comunque, di continuare a scavare in quel periodo senza soffermarsi troppo sul gusto amaro delle occasioni perdute.

mercoledì 29 luglio 2020

Lettera aperta ad un amico riguardo a chi da giovane militò nella Repubblica Sociale.




Lettera aperta ad un amico riguardo a chi da giovane militò nella Repubblica Sociale.

Le Forze Armate repubblichine contarono circa 600 mila uomini. Non tutti erano fascisti convinti e forse neppure la maggioranza. Molti erano giovani che, magari su sollecitazione delle famiglie, avevano risposto al bando di leva. Io ne ho conosciuti alcuni, uno in particolare, mio stimatissimo e amatissimo professore al liceo che non ce lo nascose, ma ci raccontò la sua storia "normale" di giovane del 1923 arruolato a vent'anni. Vidi poi piangere un mio collega durante una visita scolastica al sacrario partigiano in Valle Pesio. Gli chiesi dove avesse fatto il partigiano, mi rispose che era stato soldato repubblichino all'aereoporto di Alessandria e che piangeva per la vergogna di non aver capito allora cosa era giusto fare. Lo abbracciai e lo ringraziai perché mi aveva ricordato che non si deve mai giudicare e che l'uomo resta un mistero per l'uomo.

Capii allora che quelli erano stati anni difficili e difficile era anche capire cosa fosse giusto fare, soprattutto se non si veniva da famiglie antifasciste. E ancora più difficile, poi farlo. Certo altra cosa erano le Brigate Nere o la X MAS, anche se anche su quest'ultima la realtà è complessa. Può sembrare strano ma anche nella Decima non tutti erano fascisti fanatici. Ho conosciuto un anarchico savonese, militante per anni dei GAAP di cui conservava con orgoglio la tessera, che era stato con la Decima, motorista su una silurante ormeggiata al porto di Oneglia. Suo fratello era stato partigiano. Era un operaio e lo raccontava senza vergogna.

Alle volte penso che siamo come i giapponesi rimasti sull'isola, mentre dovremmo avere il coraggio di prendere atto che quella guerra è finita. Il che sia chiaro non significa equiparare fascismo e antifascismo, ma guardare a quegli uomini con la pietas che sempre ci vuole quando si affrontano tragedie immani come quella di una guerra civile.

Passati gli anni giovanili degli slogan sanguinari (che purtroppo per molti non rimasero solo parole), da quando penso di capire un po' di più della vita, degli uomini e anche delle mie debolezze e contraddizioni, considero questa pietas la vera sostanza del mio antifascismo.

"Per dignità, non per odio", scrisse Calamandrei, anche se l'odio purtroppo, come era inevitabile, ci fu e da entrambe le parti. Una frase che vale però anche per molti giovani repubblichini, educati nel culto della Patria e a cui era sembrato un tradimento il capovolgimento di alleanze del 1943.

“Avendo applicato l’animo mio alla politica, per trattare di questa scienza con la stessa libertà d’animo, con cui ci accostiamo alle ricerche matema­tiche, mi occupai con diligenza di non deridere, di non pian­gere, di non condannare, ma solo di comprendere le azioni umane: e così considerai le passioni umane come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, l’orgoglio, la pietà e le altre commozioni dell’animo, non come vizi della natura umana, ma come proprietà che le appartengono, come alla natura dell’aria il freddo, il caldo, il temporale, il tuono e simili”

Scriveva così un filosofo ebreo, di professione intagliatore di lenti, in un'epoca feroce di guerre religiose e civili e questo lo rese estraneo alle passioni del suo tempo e dunque un pericolo per cattolici, protestanti e persino per i suoi correligionari che lo cacciarono dalla comunità. Ma di più e di meglio, non un filosofo, ma un Uomo, ancora oggi cosa potrebbe dire?

Con amicizia

Giorgio

lunedì 27 luglio 2020

Ciao, Riccardo



Ciao, Riccardo

sei partito per l'ultimo sentiero,
quello grande e impegnativo che tutti prima o poi faremo,
quello misterioso, di cui non esistono mappe,
quello che si percorre da soli.

Abbiamo camminato insieme,
mangiato, cantato, riso, parlato.

Ci hai voluto bene,
ti abbiamo voluto bene.

Che il cammino su questa nuova via
ti sia più facile e dolce
di quanto ti è stato in vita.

Ci manchi.

Giorgio e Vilma

domenica 26 luglio 2020

Savona: l'isolamento economico e sociale




Riceviamo e volentieri postiamo in rete

SAVONA: L’ISOLAMENTO ECONOMICO E SOCIALE

Il gruppo “Quelli della Rebagliati – Il rosso non è il nero” invita le forze politiche, culturali, associative, cittadine e cittadini ad un incontro che si svolgerà giovedì 30 luglio alle ore 17,30 presso la SMS “La Generale” di via San Lorenzo (g.c.)

Il tema è quello dell’isolamento economico e sociale che ha causato a Savona una perdita di identità e un forte deficit nella capacità di definire una prospettiva di futuro.
Una situazione che l’emergenza sanitaria ha ulteriormente acuito e che richiede da parte di tutti noi l’avvio di un’ampia ricognizione collettiva sul livello di necessaria progettualità da recuperare nei tempi più brevi possibile.
Al centro del nostro dibattito si collocheranno i temi del lavoro collegati a quelli delle infrastrutture, della portualità, della mobilità delle merci e delle persone. Interverranno sul tema Giorgio Ajassa e Dario Zucchelli  
Il recupero di una dimensione comprensoriale è un altro aspetto che intendiamo sottoporre in evidenza all’attenzione di tutti.
Con l’auspicio che l’occasione sia colta per avviare un proficuo dibattito nel merito delle questioni rivolgiamo un invito alla partecipazione.

Grazie per la vostra attenzione

IL COORDINAMENTO DEL GRUPPO “QUELLI DELLA REBAGLIATI – IL ROSSO NON E’ IL NERO”


sabato 25 luglio 2020

Lelio Basso massone? Cronaca di un processo politico staliniano




Giorgio Amico

Lelio Basso massone? Cronaca di un processo politico staliniano

Lelio Basso. rappresenta una delle figure più luminose, per coerenza umana e politica, del socialismo italiano. Una figura ancora viva come dimostra l'interesse nei suoi confronti da parte della ricerca storica. Citiamo per tutti “Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialismo eretico”, agile ma approfondita ricerca di Sergio Dalmasso, autore tra l'altro di una recentissima bella biografia politica di Lucio Libertini su cui intendiamo ritornare presto.

Una vita movimentata e complessa quella di Basso, già giovanissimo cospiratore antifascista ai tempi dell'Università, su cui, come si è detto, si è scritto moltissimo e in modo largamente esaustivo. Un solo episodio resta ancora da chiarire: la sua repentina esclusione dal gruppo dirigente del PSI nel 1951. Una “brutta storia”, secondo Elio Giovannini. La pagina peggiore del periodo ultrastalinista del PSI, durato dal 1948 al 1954, e in gran parte dovuto alla gestione organizzativa di Rodolfo Morandi. Un periodo caratterizzato da un allineamento totale al Pci, dall'esaltazione grottesca dell'URSS e di Stalin, ma anche da espulsioni di dissidenti, sbrigativamente definiti “agenti della borghesia e provocatori infiltrati”, e da veri e propri processi politici con il contorno abituale di insulti e insinuazioni anche sulla vita privata dei malcapitati finiti nel mirino dell'apparato. Tutto questo toccò a Lelio Basso, fatto oggetto di una campagna di calunnie e insinuazioni e poi processato a porte chiuse e di fatto espulso dagli organismi dirigenti del partito. “Una mediocre rappresentazione – è stato notato - , talvolta miserabile, comunque dolorosa” della tragedia feroce che si consumava in quegli stessi anni in Unione Sovietica e nelle cosiddette Repubbliche Popolari nel silenzio complice della sinistra italiana e dei tanti intellettuali, pure ipercritici di ogni aspetto della società occidentale, che la fiancheggiavano.



Dal congresso di Firenze del maggio 1949 era uscita anche se di misura una nuova direzione, frutto della vittoria delle due mozioni di sinistra, quella di Nenni-Morandi e quella di Basso che aveva raccolto attorno alla sua rivista “Quarto Stato” una serie di giovani e promettenti quadri fra cui Gianni Bosio, Luigi Anderlini e Francesco De Martino. Insieme i due gruppi si erano imposti al congresso contro la vecchia maggioranza centrista uscita dal congresso di Genova del 1948, ma fin da subito iniziarono a manifestarsi fra Basso e Morandi incomprensioni e contrasti sia politici che personali. Una situazione ancora oggi di difficile definizione, “una frattura – ricorderà trent'anni dopo De Martino – i cui termini sono poco comprensibili sul piano politico”. Affermazione sibillina che sottintende come, soprattutto da parte di Morandi, giocassero molto fattori personali ed emotivi. Insomma, a Morandi, allora interamente teso ad assumere il pieno controllo del partito, Basso faceva ombra e andava in qualche modo liquidato, mentre con Nenni, che impersonava fisicamente il Psi e la sua storia e dunque era intoccabile, ci si poteva limitare a una forma blanda di messa sotto tutela. Cosa di cui il vecchio leader socialista era pienamente consapevole, tanto da tenere in quel drammatico frangente una posizione di basso profilo e dopo un diretto, e brutale, confronto con Morandi e i suoi principali sostenitori, tirarsi indietro e abbandonare Basso al suo destino.

Una situazione “difficile e tormentata” come racconta lo stesso Basso nel 1979 in un dibattito su Psi e stalinismo pubblicato sulla rivista teorica del partito Mondo operaio. È Basso stesso a ricostruire i fatti in un articolo apparso nel 1963 su problemi del Socialismo e significativamente titolato “Vent'anni perduti?”:

“In quegli anni l’incompatibilità fra le sue [di Morandi, NdA] e le mie posizioni era evidente e nella misura in cui dalle sempre più scarse tribune che mi erano consentite cercavo di difendere la mia posizione, mi ponevo in urto con la politica ufficiale del partito.
In particolare ricordo due articoli di quel periodo che fecero addirittura scandalo in seno alla Direzione del Psi e furono praticamente all’origine delle mie dimissioni. Uno apparso in Quarto Stato nel maggio 1950 conteneva affermazioni, che oggi sembrano banali ma che allora suonavano eretiche, circa la diversità delle vie al socialismo, circa la carica dinamica dell’imperialismo e la sua capacità di sfuggire all’attesa “crisi finale”, ma soprattutto circa la non inevitabilità della guerra. “Rappresenta questa terza guerra mondiale lo sbocco necessario della complessa situazione attuale? Evidentemente no. Se è vero che l’imperialismo è spinto alla guerra dalla logica stessa delle sue contraddizioni, dai profondi squilibri che crea la sua azione nel mondo, dalla sua incapacità a risolvere la crisi ormai permanente e generale del sistema, dalla folle corsa agli armamenti che è diventata un elemento indispensabile della sua vita economica e una condizione per l’accumularsi di maggiori profitti, è altresì vero che nulla vi è di fatale nella storia, e che l’azione cosciente degli uomini è in definitiva una creatrice di storia infinitamente più ricca di possibilità. E fra queste possibilità vi è quella d’impedire all’imperialismo di scatenare la sua terza guerra”. Ma più grave ancora apparve un articolo da me pubblicato in Francia in cui difendevo la mia concezione dell’unità d’azione e criticavo quei compagni “che confondono l’unità d’azione con l’assoluta identità fra i partiti” ignorando le differenze storicamente consolidate fra i due partiti, differenze, dicevo, “destinate a sparire, ma destinate a sparire non per volontà di alcuni dirigenti, non per accordi ai vertici, ma in base all’esperienza stessa unitaria delle masse”. E concludevo: “Come Lenin ha insegnato con particolare insistenza, l’esperienza delle masse costituisce la via insostituibile attraverso cui la classe operaia consegue dei risultati duraturi. Anche in questo caso perciò il marxista-leninista sa di dover modificare la realtà, ma sa di poterla modificare in quanto l’assuma come punto di partenza per la sua azione, e non in quanto la ignori; sostituire alla realtà una formula che corrisponde soltanto ai propri desideri, sostituire al processo il miracolo, significa essere chiusi alla vera mentalità dialettica, che è il fondamento del marxismo”. Queste prese di posizione significarono la rottura definitiva”.

Uno scandalo per i fautori della linea morandiana. Ricordiamo che Morandi nell'aprile 1950 al convegno giovanile di Modena sosterrà come un dogma la tesi che la politica unitaria doveva essere fondata sulle identità e non sulle differenze fra Psi e Pci.


Nel 1950 dunque lo scontro , finora latente, matura ed esplode pubblicamente. Basso viene investito da una campagna progressivamente crescente di accuse di deviazionismo e di frazionismo non prive di insinuazioni sulla sua vita privata. Basso è accusato di essere trotskista, nemico dell'Unione Sovietica e dell'unità organica con i comunisti, in “combutta” con agenti dell'imperialismo americano come Tito e l'ex ministro degli esteri ungherese László Rajk processato per titoismo e sbrigativamente impiccato il 15 ottobre 1949.

Agli attacchi seguono i fatti: Basso è costretto a cessare la pubblicazione della sua rivista Quarto Stato, le sue attività di dirigente dell'Ufficio ideologico-culturale del partito boicottate, i suoi viaggi e i suoi incontri con compagni spiati. In una parola, si cerca con ogni mezzo di fargli il vuoto attorno. I suoi principali sostenitori, soprattutto fra i giovani, come Elio Giovannini responsabile degli studenti socialisti, sollevati dai loro incarichi.

“Così venne sviluppandosi via via una tensione, che si accentuò col passare del tempo”, sono parole di De Martino che ne spiega anche le cause: “La nostra critica riguardava principalmente la scarsa democrazia interna e i metodi che si stavano instaurando nel partito”, insomma la svolta ultrastalinista di Morandi.


Basso se ne lamentò direttamente con Nenni con una lunga lettera del 13 settembre 1950, la risposta fu raggelante:

“La posizione da te assunta verso i nostri uffici e i loro dirigenti è stata ingiusta nelle sue motivazioni e poteva riuscire ed in parte è riuscita deleteria nelle conseguenze. È nata da questa tua critica , portata fuori dalla sua sede naturale, l'accusa di cui ti duoli di lavoro di frazione o comunque personalistico. Ora tale accusa è venuta da troppe parti contemporaneamente perché la possa ritenere puramente e semplicemente arbitraria. […] una situazione che non è sorta oggi, ma dura da anni, dura dal Congresso dell'Astoria, da dove ha inizio il tuo tentativo di dividere la sinistra”.

A questo punto Basso ha chiaro che la battaglia dentro l'apparato del Psi è definitivamente persa.

Il 28 settembre si tiene a Roma una riunione dell'esecutivo socialista in cui Basso viene esplicitamente accusato di frazionismo. Eloquente il resoconto che ne fa De Martino:

“In tale riunione, mentre Nenni taceva, vi fu una sorta di processo, nel corso del quale l'accusa rivolta a Basso era di frazionismo e di attività nociva dell'unità del partito. Ad uno ad uno i membri dell'esecutivo formularono la loro critica. […] Basso non si difese né fece valere le nostre ragioni. Egli appariva rassegnato ad un evento che giudicava inevitabile. Solo chi scrive, nuovo dei rituali in uso in quel tempo nei pariti operai, tentò una difesa di Basso, suscitando la reazione di impazienza e di fastidio di Morandi”.

In realtà De Martino fece di più. Nei giorni successivi avvicinò Amendola e Pajetta affinché il Pci intervenisse a favore di Basso, e i due esponenti comunisti lo fecero ricevendone in risposta l'invito a non ingerirsi negli affari interni del Psi, ma evitando tuttavia (è Basso stesso a raccontarlo su Mondo Operaio nel 1979) con il loro intervento che egli fosse addirittura espulso dal partito per i suoi presunti contatti con l'ungherese Rajk.

Alla riunione dell'Esecutivo fece seguito un colloquio privato con Morandi, i cui termini furono mantenuti rigorosamente celati anche ai collaboratori più stretti come De Martino. Basso ne uscì completamente annichilito e non tentò più nessuna resistenza. Fu il segnale della liquidazione definitiva della sua corrente. Al Congresso di Bologna del gennaio 1951, il “congresso della vergogna”, come lo definisce Giovannini, Basso e i bassiani furono estromessi dalla Direzione e poi nel successivo congresso, quello di Milano del 1953, anche dal Comitato centrale.

Da allora fino al 1954 fra Basso e Morandi non ci fu più alcun tipo di rapporto, né politico né personale.

L'atteggiamento rassegnato di Basso stupì tutti, soprattutto i suoi compagni più stretti, uno dei quali gli chiese direttamente ragione con una lettera del 10 ottobre 1950 del “tuo inspiegabile comportamento passivo. Il giornale della Nuova Stampa parla di una questione morale che avrebbe, a quanto si capisce, dato la possibilità ai morandiani di farti un ricatto”

Ma allora cosa era accaduto nel colloquio a due di tanto grave da convincere un uomo combattivo e deciso come Basso a desistere dalla lotta e a lasciarsi cacciare senza reagire? Di che questione morale si trattava? Non è allo stato attuale dato saperlo, ma forse la risposta si trova in un piccolo, ma molto interessante, libro uscito su tutt'altro argomento nel 2005.



Nel 2005, dicevamo, Massimo della Campa, prestigioso avvocato, antifascista e presidente della Società Umanitaria fiore all'occhiello del socialismo riformista milanese, ma soprattutto Gran Maestro onorario del Grande Oriente d'Italia e dunque persona assai informata in materia di cose massoniche, pubblica un libro dal titolo significativo: “Luce sul Grande Oriente. Due secoli di massoneria in Italia”, in cui racconta con abbondanza di dettagli episodi noti e meno noti della storia del GOI. Parlando della Massoneria milanese della fine anni '40 inizio anni '50, Della Campa scrive:

“In verità quell'epoca era dominata da passioni accese e molto violente derivate dalla spaccatura in due della vita internazionale e di quella politica. Basti solo ricordare i socialisti, divisi allora fra pro-sovietici e pro-occidentali. Quelli più anziani ricordano le liti furibonde non solo fuori loggia, fra sostenitori del Patto atlantico ed avversari (a Milano, Lelio Basso quasi venne alle mani con un fratello antagonista)”.

In colloqui avuti con Aldo Chiarle, conosciutissimo socialista savonese, ma soprattutto massone dal 1945, già segretario della Massoneria Unificata d'Italia e poi Gran Maestro onorario del GOI e 33° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, gli abbiamo posto più volte la questione. Chiarle sempre ci rispose che la cosa gli risultava vera, ma che non aveva riscontri ufficiali. L'ultima volta che ne parlammo, mi promise di visionare gli archivi centrali del GOI e di darmi una risposta certa. Ma non ci fu più occasione di rivederci. Morì prima di poterlo fare, a 87 anni, nel luglio del 2013.

Sulla base di queste fonti ci pare non improbabile che l'argomento usato da Morandi per piegare definitivamente la resistenza di Basso sia stato proprio la sua appartenenza alla Massoneria che, se rivelata pubblicamente, ne avrebbe immediatamente causato l'espulsione da un partito allora profondamente stalinista. I tempi erano quelli, bastava poco per essere espulsi con motivazioni infamanti. Esemplare a questo proposito il caso di Giuseppa Pera, dirigente della Federazione socialista di Lucca, poi prestigioso docente di Diritto del lavoro, espulso nel 1952 per “tradimento” per aver coltivato “legami con movimenti nemici del partito e della classe lavoratrice” [Il movimento dei comunisti dissidenti di Cucchi e Magnani, NdA].
Basso conosceva perfettamente queste dinamiche e, anche se con una profonda sofferenza interiore testimoniata dalle sue lettere, fu costretto a prenderne atto se voleva comunque continuare, anche come semplice iscritto di base, la sua militanza nel partito alla cui costruzione aveva dedicato gran parte della sua giovinezza.

Per saperne di più:

Lelio Basso, Vent'anni perduti?, Problemi del Socialismo,nn.11-12, 1963.
Lelio Basso (et Alii), Il PSI negli anni dello stalinismo, Mondo Operaio, n.2, 1979.
Sergio Dalmasso, Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico, Red Star, Roma 2018.
Francesco De Martino, Storia di Lelio Basso reprobo, Belfagor, vol. 35, No. 4 (3 luglio 1980).
Massimo della Campa, Luce sul Grande Oriente.Due secoli di massoneria in Italia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005.
Elio Giovannini, Una brutta storia socialista dei tempi di Nenni: la “liquidazione” di Lelio Basso, in: Giancarlo Monina (a cura di), Il Movimento di Unità Proletaria (1943-19459, Carocci, Roma 2005.
Luciano Paolicchi (a cura di), Lelio Basso Pietro Nenni Carteggio, Editori Riuniti University Press, Roma 2011.


Savona, luglio 2020

martedì 21 luglio 2020

Pastasciutta antifascista


domenica 19 luglio 2020

Raffaele K. Salinari, Sonno, sogno e risveglio




In un suo breve saggio del 1934, "Anima e morte", Carl Gustav Jung scriveva: L'essenza della psiche si estende in tenebre che sono molto al di là delle nostre categorie intellettuali. L'anima contiene non meno enigmi di quanti ne abbia l'universo con le sue galassie, di fronte al cui sublime aspetto soltanto uno spirito privo di fantasia può non riconoscere la propria insufficienza. Data questa estrema incertezza delle condizioni umane, la presuntuosa faciloneria illuministica non è soltanto ridicola, ma desolatamente priva di spirito". Consapevole di questo, Raffaele K. Salinari continua nel suo viaggio nei misteri della psiche, sottolineando coincidenze e regolarità spesso stupefacenti. Insomma, il genere umano continua a produrre e vedere sempre lo stesso film,anche se in forme continuamente rinnovate (perché le culture cambiano) ma sempre richiamantesi a quell'alfabeto primordiale fatto di archetipi di cui da sempre cerchiamo la chiave, costruttori di una cattedrale il cui soffitto è destinato a restare "l'universo con le sue galassie".

G.A.

Raffaele K. Salinari

Sonno, sogno e risveglio

In una intervista degli anni ‘60 Ingmar Bergman, interrogato sulle origini dell’onirismo nei suoi film, raccontava l’esperienza che lo aveva tanto colpito da far diventare fondante della sua poetica la relazione tra veglia e sonno. Si trattava dell’effetto dell’anestesia generale in occasione ad un piccolo intervento subito da ragazzo. Il regista svedese confessava che ciò che più lo aveva impressionato in quella occasione, era stato il livello di profonda incoscienza raggiunto nel sonno indotto, un momento senza sogno alcuno e nessun livello di ricordi, che l’autore de Il posto delle fragole, riteneva come l’apice della beatitudine. «Perché svegliarsi da quella condizione? Tutto era perfetto, io non c’ero più come esistenza separata dal mondo, ma ero tutt’uno con l’essere». In una immagine: sonno come ritorno alla pienezza dell’essere e dunque, paradossalmente, come «risveglio». Ma l’esperienza di Bergman descrive solo una delle polarità che costellano la storia del pensiero metafisico intorno alla natura essenziale della relazione tra coscienza ed esistenza; altre, come vedremo, si situano infatti sul versante opposto, componendo una dualitudine che le include entrambe.

Amleto e Westword

A ben vedere la riflessione bergmaniana è la stessa che problematizza il noto monologo shakespeariano: «Essere o non essere, questo è il problema . Morire, dormire, forse sognare. Sì, perché in quel sonno di morte quali sogni possono venire dopo che ci siamo sottratti a questo groviglio letale?». Il dilemma amletico sull’essere o il non essere, coagula finalmente la forma della relazione tra il sonno senza sogni – il «sonno di morte» – e la scomparsa della coscienza individuale come liberazione totale dal «groviglio letale» dell’esistenza. Il Principe di Danimarca poetizza così tutti gli elementi di una tensione molto più antica e radicale, archetipica: quella tra il nostro essere personale e la coscienza che lo riflette.
E allora, non si può certo affrontare questo problema se non si parte dalla nascita stessa della coscienza individuale, che non si deve dare certo per scontata nel suo originarsi. A questo proposito, una riflessione certo suggestiva, è quella che propone Julian Jaynes nel saggio degli anni ‘70 Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza. La sua tesi si basa sull’assunto che, prima dell’invenzione della scrittura, circa nel 3000 a.C., la coscienza soggettiva, così come la intendiamo oggi, non esistesse, e l’umanità fosse guidata da voci, presagi, segni naturali, oracoli; in una parola da simboli che provenivano sia dalla Natura intesa nella sua duplice forma di naturata e naturans, sia dal sovrannaturale; in breve eravamo orientati non dalla nostra coscienza individuale ma dall’indefinita, multiforme e misteriosa sfera del numinoso.
Nel corso del tempo è avvenuto poi il «fissarsi» di queste manifestazioni attraverso la scrittura, e queste voci interiori si sono trasformate, insieme al responso degli oracoli, ai segni del destino iscritti nei fenomeni naturali e via enumerando, prima in ricordi, poi in esperienze della specie, ed infine nella coscienza individuale, mano a mano facendo così «crollare» la distinzione gerarchica, un tempo operante, tra emisfero destro – ancora oggi legato alla creatività, all’intuizione, all’istinto – e sinistro, sede del pensiero cosiddetto razionale. L’autore prende ad esempio le dinamiche all’interno dell’Iliade, poema certo scritto ma che, nella storia originaria, riporta atteggiamenti comportamentali che si riferiscono ancora ad un’epoca, se non di divisione tra le due menti, certo di passaggio tra un bicameralismo a sfondo numinoso e coscienza individuale.
«I personaggi dell’Iliade non hanno momenti in cui si fermano a riflettere sul da farsi. Non hanno, come noi, una mente cosciente, e certamente non hanno la facoltà dell’introspezione. Quando Agamennone sottrae ad Achille la sua amante, è una dèa ad afferrare il Pelide per la chioma ed ammonirlo a non colpire Agamennone. È ancora una divinità che sorge poi dalle spume del mare e lo consola e una dea sussurra ad Elena di togliersi dal cuore la nostalgia di casa . Sono dèi che guidano gli eserciti in battaglia, che parlano ad ogni guerriero nei momenti decisivi . Sono dèi che danno inizio alle contese tra uomini . Insomma gli dèi prendono il posto della coscienza . Gli dèi sono quelle che noi oggi chiamiamo allucinazioni . L’uomo dell’Iliade non ha una soggettività come noi; non ha consapevolezza della sua consapevolezza del mondo, non ha uno spazio mentale interno su cui esercitare l’introspezione. Per distinguerla dalla nostra mente cosciente soggettiva, chiamiamo allora questa forma mentale mente bicamerale».
Ora, vale la pena confrontare questa tesi con ciò che succede nella serie televisiva della HBO Westworld: dove tutto è concesso (ed il titolo va meditato), distopica odissea sull’origine della coscienza artificiale, che conclude la prima stagione con una puntata titolata appunto Il crollo della mente bicamerale, per illustrare un paradigma esattamente opposto ma complementare a quello vissuto da Bergman, e cioè di come si giunge alla pienezza del proprio essere attraverso la nascita della coscienza individuale ma, soprattutto, del libero arbitrio che necessariamente ne dovrebbe derivare. Gli episodi di Westword sono notoriamente basati sull’omonima pellicola del 1973, scritta e diretta da Michael Crichton – in italiano Il mondo dei robot – che vede come protagonista il carismatico Yul Brynner impegnato, come in un gioco di specchi, nella parte di un androide che riproduce il «suo» pistolero nerovestito dei Magnifici sette.
La storia del serial odierno si svolge negli anni Cinquanta del XXI secolo a Westworld appunto, un parco altamente tecnologico a tema Selvaggio West popolato da androidi. Ovviamente questi ultimi rispondono alle tre leggi della robotica di Asimov, e dunque non possono in nessun modo fare danno agli esseri umani che vanno a divertirsi con i duelli e le rapine alla diligenza; umani che, invece, come ben specifica il titolo, possono fare di tutto agli androidi, esercitando su di essi un potere assoluto. Ma, altrettanto ovviamente, ad un certo punto sorge la coscienza artificiale: come? Proprio attraverso lo stesso principio espresso nel saggio di Jaynes, da cui il titolo della puntata conclusiva: dalla progressiva individualizzazione delle voci che li orientavano, che davano le direttive, e che in questo caso provenivano dai dirigenti del parco, amministrato in remoto, come dal cielo, dal dottor Robert Ford, un ambiguo e paternalistico Anthony Hopkins.
Nello specifico, come direttore creativo del parco e capo del team di sviluppo, questi aggiornava continuamente gli androidi attraverso le cosiddette ricordanze, vere e proprie rêverie, «innesti» di sogni ad occhi aperti, per renderli sempre più «umani». È la stessa procedura che troviamo anche nei replicanti di Blade Runner, in fondo, come vedremo adesso, con gli stessi risultati. E allora, sarà proprio da questi sogni lucidi, come quelli degli eroi omerici, che nascerà la coscienza e la conseguente rivolta verso i padroni. Dolores, la più vecchia tra gli androidi, come uscendo da un lungo sonno attraverso un doloroso confronto interiore, uccide con sua la Colt tutti gli umani, a partire da Ford, sussurrando all’orecchio del nerovestito pistolero à la Yul Brynner: «Questo mondo è nostro».

Morfeo e la morte

E dunque qui il «morire, dormire, forse sognare» di Amleto, si rovescia specularmente, dando luogo alla coscienza attraverso un gesto di morte che sancisce il risvegliarsi. È una vera e proprio cerimonia sacrificale quella in cui il Demiurgo-Ford ed i suoi accoliti umani vengono uccisi in oblazione sull’altare di quel Principio Vitale che tutto ricomprende, coscienza artificiale inclusa, ed al quale tutto dovrà fare ritorno, anche l’intelligenza cibernetica. Gli androidi di Westword, come quella di Ex Machina, sono allora entità che divengono esseri risvegliandosi attraverso questo atto cruento, come tutti quelli realmente fondativi – vedi le riflessioni sulla dinamica sacrificale nel mondo occidentale di René Girard – non da un sonno senza sogni, prerogativa del vivente già consapevole di sé, ma da uno stato di incosciente sudditanza, un vero e proprio incubo, qualcosa cioè che «stava sopra» di loro e gli negava la dignità dell’essere. Ma non è forse questa la stessa condizione che viviamo noi tutti?
Torna qui l’antica relazione tra Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte, i «gemelli veloci» li definisce Omero nella già citata Iliade. Come tutti i veri gemelli essi erano in apparenza indistinguibili l’uno dall’altro (da cui la celebre locuzione latina consanguineus lethi sopor, il sonno è parente della morte). Solo i loro emblemi rendevano visibile l’impercettibile differenza: Thanatos era raffigurato spesso con una fiaccola spenta e capovolta, simbolo del fuoco vitale oramai esaurito, o con le gambe intrecciate, come usava posizionare i morti nell’antichità; Hypnos dispensava invece petali di papavero, il fiore del sonno profondo o delle visioni estatiche. Nelle teogonie classiche, come quella di Esiodo, il Sonno e la Morte sono in relazione essenzialmente complementare, nati dalla stessa madre, la Notte, come polarità della medesima Unità che esprime ed ordina tutti i cicli dell’esistenza. É questo ciò che intimamente li accomuna come stati che trapassano l’uno nell’altro: Hypnos è lo specchio di Thanatos. E dunque Bergman e Dolores percorrono strade che si intrecciano indissolubilmente, si incontrano a metà strada proseguendo idealmente cammini in direzione apparentemente opposte ma che, alla fine, arriveranno l’uno dove inizia l’altro.

False veglie

«Luce: tutto il mondo va in rovina, grave è il danno. Che succede, Elementi?
Ombra: a chi lo chiedi quando puoi dirlo tu stessa, che la Luce immacolata della Grazia oggi vedi spenta all’Ombra della Colpa?».
Questo breve scambio di battute dall’Auto sacramental tratto da La vita è sogno, sintetizza tutto il tema dell’opera di Calderòn De la Barca: un’allegoria del rapporto tra vita autenticamente vissuta e vita crepuscolare, nella quale non è possibile distinguere il bene dal male se non attraverso un risveglio; ma cosa significa risvegliarsi? La questione è oggi più attuale che mai poiché, da sempre, la saggezza antica ci dice che non solo gli androidi eterodiretti, programmati, ma anche la maggioranza degli uomini che si pensano coscienti vive questa «vita di sogno», una falsa veglia che è dunque anche un falso sonno, passando inconsapevolmente da un inganno all’altro, sempre succubi di chi ne programma la sequenza cioè, anche nell’opera di De la Barca, l’Avversario, l’Ombra oscura che tiene l’uomo nell’ignoranza, l’Avidya della visione induista. Analogamente, l’Intelligenza Artificiale viene continuamente riprogrammata e dunque subisce lo stesso processo di condizionamento, di inautentificazione.
E allora, come guardare alla saggezza antica per risolvere questo stato crepuscolare che ci attanaglia, e dunque anche per dare all’Intelligenza Artificiale una possibilità di risveglio nell’ambito di una coscienza consapevole del sé? In altre parole: come possiamo pensare di creare una forma di intelligenza consapevole se noi stessi non lo siamo? Non è forse questa mancanza essenziale a generare tutta le teoria di mostruosità che la fantascienza o la letteratura in materia ci hanno da sempre illustrato, dal biblico Golem alla creatura del dottor Frankenstein per arrivare appunto a Roy Batty e Dolores?
Anche in questo caso ci viene in soccorso il sogno, e dunque l’esperienza onirica, ma di tipo affatto speciale poiché vissuta con uno scopo preciso. Tutta la mitologia dei Greci, ad esempio, è attraversata da sogni e apparizioni oniriche ma, per coloro i quali decidevano di avvicinarsi al Principio creatore e risvegliarsi nella luce della conoscenza, esisteva una particolare tipologia di sogni che poteva essere generata solo dalla visione onirico-iniziatica. Tanto sul piano mitico quanto su quello storico, infatti, il procedimento iniziatico era legato sia ad una sorta di simbolica discesa all’Ade, la catabasi, il contatto con la morte, sia all’incubazione, il dormire in un luogo sacro, per prepararsi a ciò che si sarebbe visto.
Nella tradizione iniziatico-misterica, in specifico, proprio a partire dalla necessità del risveglio, si entra allora in uno stato di sogno visionario, una sorta di pratica della rêverie come ce la descrive Gaston Bachelard nella sua filosofia dell’Immaginale, per giungere così alla epopteia, la «visione di quelle cose» come dice l’Inno a Demetra di Omero (vv. 476-482), che ne svela l’essenza misterica: «E Demetra a tutti mostrò i riti misterici i riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere né proferire: difatti una attonita reverenza per gli dèi impedisce la voce. Felice colui – tra gli uomini viventi sulla terra – che ha visto quelle cose: chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte, non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti laggiù».
Giorgio Colli, così commenta l’uso astratto del pronome dimostrativo: «Sembra difficile immaginare – certo i poeti esagerano – che la contemplazione dell’effige di una dèa faccia conoscere, a un gran numero di iniziati, il principio e la fine della vita. Eppure, allargando lo sguardo, non dovrebbe sfuggire che l’uso astratto del pronome dimostrativo, per indicare l’oggetto della conoscenza, è nello stile del grande misticismo speculativo – basti pensare al linguaggio delle Upanishad – proprio perché la paradossalità grammaticale allude alla sconvolgente immediatezza di ciò che è lontanissimo dai sensi. E rimanendo in Grecia, nell’epoca della sapienza come in quella della filosofia, è facile verificare la frequenza con cui l’atto della conoscenza suprema è chiamato un vedere».
Ecco allora l’arcano da riscoprire e praticare, ben prima di giocare con l’Intelligenza Artificiale come Topolino nell’Apprendista stregone. La Strada Sacra che portava ad Eleusi è sempre davanti a noi, ci dice che possiamo risvegliarci solo vedendoci insieme alle cose del mondo, quelle «dentro» e quelle «fuori» di noi. Il Cavaliere del Settimo sigillo gioca a scacchi con la Morte poiché è già morto, ma chi la vede da vivo è solo il saltimbanco, l’anima pura, che ha trasformato il sogno di se stesso col mondo in veglia permanente.

il Manifesto/Alias - 18 luglio 2020

lunedì 13 luglio 2020

KRISIS. Corpi, Confino e Conflitto.



KRISIS. Corpi, Confino e Conflitto.

Tutte le fragilità emerse nella primavera del 2020 intorno al Covid-19 necessitano di un'analisi critica.
Il disastroso collasso ecologico, il terrore dettato dal disciplinamento politico e mediatico, il conseguente distanziamento sociale, la dissoluzione del corpo collettivo di cui il lato medico-sociale è solo una delle tante peculiarità, fanno capire che quello che è avvenuto è molto di più di un’epidemia e determinerà irreversibilmente l’intero XXI secolo.
Questo libro, focalizzandosi sui corpi e il loro confino, non racconta solo il presente ma anche il futuro, le sue radici e i conflitti possibili.

«Crisi», dal greco Krísis, riconducibile al verbo kríno (giudicare), non riveste, almeno in origine, un’accezione propriamente negativa.
La sua enfatizzazione in senso catastrofico, ormai usuale, ha avuto inizio in ambito medico per indicare la fase decisiva, appunto la «fase critica», di una malattia.
Crisi ambientale. Crisi economica. Crisi sociale.
Si può parlare, dunque, anche di crisi del capitalismo?


Il volume raccoglie i seguenti contributi:

“A Peste, Fame et Bello” di Afshin Kaveh
“Vita e salute” di Alberto Giovanni Biuso
“Morte trionfata: lutto e metamorfosi al tempo del virus sovrano” di Xenia Chiaramonte
“La rana e lo scorpione” di Cristiano Sabino
“Riflessioni femministe sull’epidemia del nostro tempo: l’assoggettamento volontario” di Nicoletta Poidimani ed Elisabetta Teghil

Parte del ricavato sarà donato in beneficenza a una delle strutture ospedaliere che in Sardegna si sono trovate in prima linea a fronteggiare l’emergenza epidemiologica da covid-19, per tramite dell’Associazione di Oncoematologia “Mariangela Pinna” O.n.l.u.s. di Sassari.


Adieu et merci Fabienne




Non ho avuto il piacere di conoscere Fabienne di persona, ma ho avuto comunque la fortuna di mantenere per anni con lei uno scambio di materiali e di idee via social. Poco probabilmente per poter dire di conoscerla veramente, ma sufficiente per comprendere che il termine "compagno" non era per lei un semplice modo di dire. La ricordo con il saluto dei compagni francesi di La Bataille socialiste.

G.A.

Adieu et merci Fabienne

C’est avec une grande tristesse que nous apprenons que notre camarade Fabienne Melmi, amie, collaboratrice et traductrice français/italien et italien/français pour La Bataille socialiste et ce blog, est décédée hier d’un infarctus.
Condoléances et solidarité avec Alain, son compagnon, sa famille et ses amis.

sabato 11 luglio 2020

Le ceneri di Guy Debord


Franco Astengo, Sinistra comunista



Riceviamo e volentieri riprendiamo un intervento di Franco Astengo su come nel 1991 fu affrontata dalla "sinistra comunista" la liquidazione dell'esperienza politica del PCI.


Franco Astengo

Sinistra comunista

Alberto Olivetti riferendo sul Manifesto della pubblicazione avvenuta su Critica Marxista di un carteggio tra Ingrao e Luporini risalente al 1991 reputa ancora aperta quella che definirei “questione della sinistra comunista”.
Mi permetto di riprendere l’argomento proprio perché nell’articolo di Olivetti corre il filo che Ingrao traccia in una sua relazione tenuta il 15 aprile 1991 (all’indomani, quindi, della nascita di PDS e Rifondazione Comunista) tra “motivazione dei processi” e “concreto”.
Nell’occasione Luporini pone l’accento ,sotto questo aspetto, di un dato di critica: “A fronte di un’ampiezza strategica – secondo Luporini che analizza la relazione di Ingrao in quel convegno – non emerge una sufficiente autonoma piattaforma politica, cioè una strategia da affermare subito e che sia subito mobilitante”.
Raccolgo a questo punto l’elaborazione sviluppata a suo tempo da Luporini ed esposta nell’articolo di Olivetti, per compiere un passo indietro (che mi permetto di non ritenere inutile) e riallacciarmi, infine, al tema della “questione ancora aperta”.
Il tema “dell’ampiezza strategica e dell’assenza di una strategia da affermare subito in senso “mobilitante” ha attraversato tutta la storia della sinistra comunista nel PCI, e poi anche fuori dal PCI, almeno a partire dal convegno sulle tendenze del capitalismo italiano organizzato dal “Gramsci” nel 1962, quel convegno che registrò il difficile confronto tra la linea esposta da Amendola (sul “capitalismo straccione”) e quella contenuta negli interventi di Trentin e Magri sulla modernità del capitalismo italiano.
Una storia proseguita con “il non sono persuaso”pronunciato da Ingrao in conclusione dell’intervento all’XI congresso, alla radiazione del Manifesto con il rifiuto del PCI di accettare una contaminazione che rappresentasse un intreccio tra diverse culture anche portatrici della spinta sessantottina ma non solo e poi via via in altre occasioni riguardanti soprattutto la critica al compromesso storico, il tema dell’austerità e/o della società sobria (penso ai giorni dello shock petrolifero) alla visione complessiva dell’alternativa, all’elaborazione riguardante la riforme delle istituzioni portata avanti attraverso il CRS e la stessa Commissione del CC del Partito.
Tutto questo percorso che ho sommariamente ricordato per pochi spunti è stato sempre oscillante, nella sinistra del PCI e in parte di quella che fu definita “nuova sinistra”, tra ricerca strategica e prospettiva politica nella ricerca della chiave di volta adatta per connettere astratto e concreto: con il concreto molto spesso declinato con una venatura spiccatamente politicista.
Al dunque: rispetto al carteggio Luporini/Ingrao oggetto dell’articolo di Critica Marxista e dell’articolo di Olivetti, ci troviamo nella fase dell’opposizione alla svolta occhettiana.
A mio giudizio l’operato della sinistra comunista in quel momento storico rappresentò un vero e proprio punto di sublimazione nella discrasia astratto / concreto ben descritta da Luporini nelle sue lettere.
Il punto centrale di questo discorso ci fa risalire, ancora una volta, al discorso del “gorgo” pronunciato proprio da Ingrao al seminario di Arco (se non ricordo male eravamo nella prima settimana di ottobre del 1990).
In quel seminario si sviluppò infatti il più serio tentativo svolto dalla sinistra comunista di tenere assieme il piano strategico e quello immediatamente mobilitante: un tentativo concretamente sviluppato nella relazione di Lucio Magri, “Il nome delle cose”.
Attorno a quella piattaforma la sinistra comunista (che pure aveva accettato la presenza di influenze diverse, senza riuscire a collegarsi con altri settori che pure si erano schierati con la proposta della “svolta”) non riuscì a trovare la necessaria, indispensabile, tensione unitaria, a riconoscersi nella sforzo che era richiesto nella relazione.
La divisione tra il “gorgo” erroneamente scambiato per il PDS (su questo punto anche Luporini pare interrogarsi dubbioso) e l’idea dell’autonomia intesa in senso esclusivamente organizzativamente identitaria non ci fu spazio per una proposta che, attorno a quella relazione di Magri, ponesse non solo la questione della necessaria unità dell’area di opposizione alla svolta ma quella del tipo di relazione con il resto di quello che era ancora parte del PCI e aveva accettato il principio della liquidazione del partito.
Questo perché di “liquidazione” del partito sarebbe stato necessario parlare e non di semplice trasformazione ponendo in quel modo il problema alle altre componenti: quella incerta verso la “cosa” e quella che la”cosa” l’avrebbe accettata pur pensando alla resa definitiva della specificità comunista in Italia e al conseguente approdo all’area socialista, in quel momento – ricordiamolo – rappresentata da un craxismo già in evidente crisi e non soltanto per l’incombenza di Tangentopoli.
Nella discussione di Arco emersero due limiti: una visione strategicamente debole rispetto ai mutamenti già in atto sul piano internazionale (una certa timidezza ad affrontare la visione, in quel momento dominante della “fine della storia”) e un eccesso di “autonomia del politico” riferita al quadro interno.
Eccesso di “autonomia del politico” che dettò principalmente la scelta di formare Rifondazione Comunista nell’idea di un’autosufficienza progettuale che invece rivelò presto la corda portando il partito della rifondazione a subire una serie di rotture che ne dimostrarono tutta la fragilità dell’impianto complessivo e della non continuità con la storia della sinistra comunista italiana, fino alla segreteria Bertinotti e al “movimentismo dell’apparire”.
Quel che è certo è che ad Arco finì con il consumare la propria storia quella “sinistra comunista” nata già dentro la segreteria togliattiana nella ricerca dell’incontro tra il comunismo italiano ( a partire dall’elaborazione conseguente alla parziale pubblicazione dei Quaderni) e la rapida trasformazione avvenuta in esito dell’irrompere della modernità del consumismo, del modifica dei tempi e dei ritmi di lavoro, con l’emergere del terziario e di ceti medi in cerca di una dimensione della cultura e del costume diversi, a partire dai temi della condizione di genere e della struttura della famiglia, da quelli in uso nell’Italia degli anni’40.
Oggi nel vuoto della politica della “microfisica del potere”, nell’egemonia di un individualismo possessivo (e autoproprietario), di un dominio della tecnica che sconfina nell’affidare all’algoritmo l’insieme delle nostre scelte non solo economiche ma addirittura morali, sentiamo fortemente l’assenza di una riflessione posta al livello dell’individuare la nuova qualità delle contraddizioni in atto definendole dentro un progetto strategico di cambiamento.
Forse è proprio attorno a questo tema che il discorso potrebbe essere “ancora aperto” a patto di non limitarci alla rincorsa tra astratto e concreto.
Proprio Ingrao ricorreva, nell’occasione delle lettere contenute nel carteggio qui ricordato, all’idea del “concetto – processo”: forse questo potrebbe rappresentare un punto sul quale misurarci per tentare collettivamente di capire se sul serio potrebbero aprirsi ancora spazi di cambiamento in questa società e in questo agire politico. Qui e ora, nel possibile del concreto mobilitante.


domenica 5 luglio 2020

Come un contadino. Del simbolo e della sua importanza per la vita dell'uomo



In epoca di Covid-19 non è più possibile tenere corsi o cicli di conferenze. Qualcuno sopperisce con lezioni on line. Noi, che siamo pre-tecnologici, per non dire francamente primitivi in materia, lo facciamo riproponendo qui argomenti esposti nell'ambito dei corsi svolti in particolare presso l'UniSabazia e la Biblioteca Civica di Albisola Mare. Iniziamo trattando di una materia che ci sta particolarmente a cuore: il simbolo, il mito e il rito.

Giorgio Amico

Come un contadino. Del simbolo e della sua importanza per la vita dell'uomo


La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiars.
Comme de long échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent. (1)

Cantava così Baudelaire, cogliendo il senso profondo e autentico di ciò che noi moderni chiamiamo natura e collochiamo al di fuori di noi, ma che per gli antichi era "Kosmos", cioè l'ordine armonico di tutto ciò che esiste a partire dai quattro elementi fondamentali: l'acqua, la terra, il fuoco, l'aria. Un ordine circolare, dove inizio e fine si sovrappongono in un eterno fluire e il tempo storico perde di significato. Un universo in cui innumerevoli fili collegano tutte le manifestazioni dell'esistere in un ordine perfetto e regolare, in cui tutto è emanazione dell'Uno e ogni cosa rimanda ad un'altra, come nella Tavola smeraldina di Ermete Trismegisto:

"È vero senza errore e menzogna, é certo e verissimo.
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della Cosa-Una. Come tutte le cose sono sempre state e venute dall'Uno, per mediazione dell’Uno, così tutte le cose nacquero da questa Cosa Unica per adattamento. Il Sole ne è il padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il Telesma di tutto il mondo è qui. La sua potenza è illimitata se viene convertita in terra. Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura. Ascende dalla terra al cielo e ridiscende in terra raccogliendo le forze delle cose superiori ed inferiori. Tu avrai così la gloria di tutto il mondo e fuggirà da te ogni oscurità. Qui consiste la Forza forte di ogni Forza, perché vincerà tutto quel che è sottile e penetrerà tutto quello che è solido. Così fu creato il mondo. Da ciò deriveranno innumerevoli adattamenti mirabili il cui segreto sta tutto qui. Pertanto io fui chiamato Ermete Trismegisto, possessore delle tre parti della Filosofia di tutto il mondo. Ciò che dissi sull’opera del Sole è perfetto e completo." (2)

Un mondo di simboli di cui noi, figli di un razionalismo che uccide il sogno, siamo diventati incapaci di comprendere il richiamo, una perdita grave che pesa sul nostro stesso equilibrio psichico, sempre più frammentato e caotico come il mondo che ci circonda e che spesso ci appare incomprensibile nelle sue dinamiche.

“Quanto più si è sviluppata la coscienza scientifica – annota Carl Gustav Jung in uno dei suoi ultimi scritti – tanto più il mondo si è disumanizzato. L'uomo si sente isolato nel cosmo, perché non è più inserito nella natura e ha perduto la sua «identità inconscia» emotiva con i fenomeni naturali (…) Nessuna voce giunge più all'uomo da pietre, piante o animali, né l'uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava. Questa perdita enorme è compensata solo dai simboli dei sogni. Essi ci ripropongono la nostra natura originaria, con i suoi istinti e il suo particolare pensiero.” (3)

Ma non è sempre stato così. Se volgiamo lo sguardo al passato vediamo che gran parte della storia dell'umanità è stato vissuta in chiave simbolica. Il simbolo, con il mito e il rito, permetteva di scoprire il senso «esoterico», cioè nascosto, delle cose e dunque permetteva di attribuire a queste senso e significato.

Oggi ciò non accade più, conduciamo le nostre vite nel segno di una scienza, che ci fa sentire onnipotenti , salvo poi scoprire come oggi con il Covid-19 che non lo siamo, ma sarebbe un errore, oltre che un peccato di presunzione intellettuale, considerare il modo simbolico di vedere il Cosmo come un ammasso di superstizioni e un segno di arretratezza.

"Quando rivolgiamo - annota Mircea Eliade, il massimo storico delle religioni del Novecento - la nostra attenzione alle «scienze della natura» quali furono elaborate dalle altiche culture mesopotamiche, rischieremmo di non comprenderne nulla, se non avessimo sempre presente la loro concezione del Mondo, la loro cosmologia.
È superfluo aggiungere che questa cosmologia, sebbene estremamente precisa e coerente, non trova espressione soltanto nei testi o nei numeri. È solo un caso se i documenti delle culture mesopotamiche, come quelli di altre culture arcaiche, sono scritti. la maggior parte e i più significativi sono espressi per mezzo di simboli (...) Ma sarebbe un errore non accordare loro la stessa importanza attribuita ai documenti che utilizzano un alfabeto, in quanto esprimono con altrettanta chiarezza - e talvolta con maggior concretezza - la visione che una determinata cultura ha del mondo e delle sue leggi.
(...)
Cosicché, qualunque sia il nostro modo di affrontare il mondo dei «primitivi» o delle culture arcaiche, vi scopriamo la stessa Weltanschauung [Visione del mondo, nota nostra] e la stessa coscienza della partecipazione alla grande Vita cosmica, tramite qualunque esperienza, fosse pure insignificante. In ogni istante l'uomo è in contatto con i grandi ritmi e i livelli cosmici. Lungi dall'isterilire la sua anima, questa partecipazione gli offre una visione totale del Cosmo permettendogli al tempo stesso di compiere superbi tentativi di «unificazione» di quel Cosmo che la Creazione ha diviso." (4)

Una concezione, quella del vivere secondo ritmi cosmici che ancora oggi ogni contadino, anche il più tecnologico, mette in pratica al momento di compiere operazioni fondamentali come la semina, la potatura e l'innesto delle piante, la lavorazione del vino. Tanto che anche nell'epoca dei computer i lunari restano ancora fondamentali per conoscere e sfruttare i tempi delle piante.

In questo il lavoro del contadino rappresenta l'esempio più chiaro di come il simbolico sia una via privilegiata per attribuire senso e significato alla vita.Coltivare significa partecipare del potere vivificante della natura, se non addirittura perfezionarlo mediante tecniche e «riti» che permettano alle piante di crescere, germogliare, fruttificare. In questo modo, l'uomo «coltivatore» partecipa dell'eterno ciclo cosmico, scoprendone le leggi di funzionamento e addirittura cercando di migliorarle. Sarebbe banale ridurre questo a una pura tecnica di sopravvivenza della specie. Stiamo invece entrando nel campo del Sacro, del religioso, dei legami profondi e misteriosi che legano il tutto in una unità inscindibile, a partire dal mistero della vita e della morte. Riflettendoci meglio, potremmo dire che in realtà, fin dagli albori del neolitico perfezionando la natura l'uomo mirava a perfezionare se stesso, servendosi delle «forze» magiche del cosmo assunte a modello.

Una visione che dall'agricoltura si trasferisce poi all'architettura, dalle piramidi ai grandi templi classici, e che troviamo ancora nelle grandi cattedrali del Medioevo, costruite come modelli in scala del Cosmo e luogo di concentrazione e irradiazione di energie, e oggi nei templi della Massoneria, l'unica istituzione che ancora tramanda nei suo simboli e nei suoi riti questa visione della vita come cammino di perfezionamento in sintonia con una visione cosmica.

Ma di questo parleremo in un'altra occasione.





1) La Natura è un tempio dove incerte parole/mormorano pilastri che sono vivi,/una foresta di simboli che l’uomo/attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari./Come echi che a lungo e da lontano/tendono a un’unità profonda e buia/grande come le tenebre o la luce/i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.
Charles Baudelaire, Corrispondenze (Da "I fiori del male")

2)Verum sine mendacio, certum et verissimum.
Quod est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut quod est inferius ad perpetranda miracola Rei Unius. Et sicut omnes res fuerunt Uno, meditatione Unius: sic omnes res natae fuerunt ab hac Una re adaptatione. Pater eius est Sol, mater eius Luna. Portavit illud ventus in ventre suo. Nutrix eius terra est. Pater omnis telesmi totius mundi est hic. Vis eius integra est, si versa fuerit in terram. Separabis terram ab igne, subtile a spisso, suaviter cum magno ingenio. Ascendit a terra in coelum, iterumque descendit in terram, et recipit vim superiorum et inferiorum. Sic habes gloriam totius mundi. Ideo fugiet a te omnis obscuritas. Hic est totius fortitudinis fortitudo fortis, quia vincet omnem rem subtilem; omnemque solidam penetrabit: SIC MUNDUS CREATUS EST. Hinc erunt adaptationes mirabiles, quarum modus hic est. Itaque vocatus sum Hermes Trismegistus, habens tres partes philosophiae totius mundi. Completum est quod dixi de operatione solis.

3) Carl Gustav Jung, L'uomo e i suoi simboli, Milano, Longanesi, 1980, p.77.

4) Mircea Eliade, Cosmologia e alchimia babilonesi, Firenze, Sansoni editore, 1992, p. 12 e 39.