venerdì 31 dicembre 2021

Donne e rivoluzione: "Inés e l'allegria" di Almudena Grandes

 

Almudena Grandes, scomparsa recentemente, è conosciuta in Italia soprattutto per “Le età di Lulù”, opera minore ma vendutissima per il contenuto erotico. Meno conosciuta resta invece la sua produzione complessiva, in larga parte finalizzata a ricostruire attraverso i suoi personaggi la tragedia della guerra civile e della dittatura franchista. Tra i suoi romanzi più belli “Inés e l'allegria”, storia di una giovane donna attiva nella resistenza armata alla dittatura di Franco. Una pagina poco conosciuta dell'antifascismo spagnolo che questo bel romanzo descrive non senza un tocco di ironia. Ne proponiamo la presentazione editoriale.


Presentazione

A Madrid, nel 1936, Inés si ritrova all’improvviso sola in un momento cruciale per il suo Paese. L’affermazione del Fronte popolare e la situazione politica tesa consigliano a sua madre e suo fratello, attivista nelle file dei falangisti, di tenersi lontani dalla capitale. Sfidando le proprie origini aristocratiche e le idee reazionarie che ha respirato fin da bambina, la giovane Inés comincia a frequentare un gruppo di militanti comunisti e trasforma la casa di famiglia in un ufficio del Soccorso rosso internazionale.

Ma quando il sogno repubblicano si infrange, la ragazza viene arrestata a causa del tradimento di un compagno, e si ritrova prima nel famigerato carcere di Ventas, poi reclusa in un convento e, infine, a condividere con la cognata Adela una sorta di prigione dorata in una casa sperduta in mezzo ai Pirenei. Solo due cose la consolano: la scoperta dei piaceri della cucina e l’ascolto notturno della Pirenaica, la radio clandestina del Partito.

È così che, nell’ottobre del ’44, viene a sapere che l’esercito dell’Unione nazionale spagnola si prepara a invadere la Val d’Aran e a lanciare l’operazione Riconquista della Spagna. Inés capisce che per lei è arrivato il momento di riscattarsi, di agire: in sella al purosangue Lauro e con un carico di cinque chili di ciambelle, vola incontro all’allegria. La troverà, tra le braccia del capitano Galán e ai fornelli del municipio di Bosost, cucinando per il Lobo e i suoi uomini.

I loro destini e il loro eroico tentativo di liberare la Spagna dalla dittatura si intrecceranno con le grandi vicende della Storia, del Partito comunista spagnolo in esilio e dei suoi dirigenti, con le ambizioni, i calcoli, gli errori e gli amori che possono sconvolgere una vita e mutare il corso degli eventi, individuali e collettivi.


Almudena Grandes
Inés e l'allegria
Guanda, 2011
20 euro

giovedì 30 dicembre 2021

Giuseppe Mazzini. Padre dell'unità italiana

 


Oltre ai suoi tanti difetti, internet ha lo straordinario pregio di essere la concretizzazione del sogno millenario di una grande biblioteca universale. È grazie a internet che abbiamo trovato questa davvero bella biografia di Mazzini che consigliamo a tutti i nostri lettori che conoscano un po' di francese. Il testo, infatti, molto approfondito, è scritto tuttavia in un francese popolare proprio perché l'autore, pur essendo un accademico prestigioso, non vuole rivolgersi agli studiosi ma al lettore comune. Ne proponiamo l'introduzione.

Jean-Yves Frétigné

Giuseppe Mazzini. Padre dell'unità italiana

Anche se i turisti che visitano la Città Eterna si concentrano sulle sue magnifiche rovine antiche e sui meravigliosi palazzi, chiese e piazze barocche, non possono perdere il Vittoriano, l'enorme monumento a Vittorio Emanuele II in Piazza Venezia, o l'imponente statua equestre di Garibaldi in cima al Gianicolo. Probabilmente sarebbe un po' più difficile per loro scoprire la statua di Cavour nella piazza omonima, delimitata dal Palazzo di Giustizia di Roma, un po' lontano dal centro ma a poche centinaia di metri da Castel Sant'Angelo e dalla Basilica di San Pietro. Per quanto riguarda il monumento costruito in omaggio a Giuseppe Mazzini, quarta figura tutelare dell'Italia moderna, la sua posizione è probabilmente la più ignorata. C'è una piazza Mazzini a Roma, ma è lontana dal centro storico e non ospita il monumento all'apostolo dell'unità d'Italia. Si trova su uno dei pendii dell'Aventino, di fronte al Palatino, con vista sul Circo Massimo, ma è nascosto alla vista. Questa situazione rivela il posto di Mazzini nella storia italiana.

Giuseppe Mazzini nacque il 22 giugno 1805 a Genova, che era allora, come scrive Tolstoj all'inizio di Guerra e Pace, "uno dei possedimenti della famiglia Buonaparte". Morì sessantasette anni dopo a Pisa, il 10 marzo 1872. Aveva trascorso la maggior parte della sua vita fuori dall'Italia, in Francia, in Svizzera e soprattutto a Londra, dove ha vissuto per quasi trent'anni. Il ruolo di questo esule nella storia italiana è eccezionale, ma non è facilmente assimilabile dai regimi politici che si sono succeduti in questo paese. Le vicissitudini della costruzione di questo monumento - autorizzato da una legge del 1890 - inaugurato solo nel 1949, come studiato da Jean-Claude Lescure, lo testimoniano. Le difficoltà ricorrenti della situazione economica e di bilancio dell'Italia spiegano solo in parte l'incredibile lasso di tempo trascorso tra la decisione di costruire il monumento e il suo completamento. Più seri sono gli argomenti di natura urbana e artistica. Inizialmente previsto per la cima dell'Aventino, al fine di "mettere Mazzini alla pari con Garibaldi sul Gianicolo e di competere con il Vittoriano ", la costruzione di questo monumento avrebbe significato ristrutturare l'intera collina, rompendo la sua unità architettonica, che era scandita dalle basiliche paleocristiane. Ma questi due ostacoli avrebbero potuto essere superati da una volontà politica che è sempre mancata, perché celebrare Mazzini è più un problema che celebrare Vittorio Emanuele, Garibaldi o anche Cavour.

All'epoca della monarchia italiana, il dibattito era il seguente: è un atto patriottico o un atto politico rendere omaggio all'eroe genovese? In altre parole, come si può glorificare l'apostolo dell'unità d'Italia mentre l'apostolo dell'idea repubblicana viene lasciato in ombra? Sotto il fascismo, Mussolini "conservò un Mazzini che gli assomigliava per forza morale e per influenza sui suoi contemporanei", ma l'avvicinamento del suo regime al Vaticano, concretizzato dagli accordi lateranensi, relegò Mazzini al rango di eroe da tenere in disparte per non offendere il papato, che non aveva mai cessato di criticare. Dopo il referendum istituzionale del 1946, che risultò in una vittoria di stretta misura per la repubblica, ci vollero altri tre anni perché il monumento fosse costruito e inaugurato. In questi anni, la memoria di Mazzini era ancora in discussione, come dimostrano le questioni relative alla data dell'inaugurazione: 9 febbraio o 2 giugno 1949? Un'inaugurazione il 9 febbraio, centenario della nascita della Repubblica Romana, che aveva costretto Papa Pio IX a rifugiarsi a Gaeta, avrebbe causato tensioni con il Vaticano e con la Democrazia Cristiana al potere. Le autorità italiane preferirono quindi scegliere la data del 2 giugno, dando un significato più ampio ma anche più ideologicamente neutro alla celebrazione di Mazzini come simbolo di unità nazionale piuttosto che come padre spirituale del nuovo regime.

All'epoca della monarchia italiana, il dibattito era se l'opera di Mazzini fosse un atto di genio. Charles Swinburne, Thomas Mann, Adam Mickiewicz, Alexis Tolstoy e Romain Rolland furono profondamente influenzati dalla personalità e dall'opera di Mazzini, così come Woodrow Wilson e Gandhi nel campo del pensiero politico. Questi ultimi esempi dimostrano che il potere seduttivo e il prestigio di Mazzini e del mazzinianesimo andarono oltre l'Europa in tutti i continenti. L'influenza del mazzinianesimo nel mondo e il suo impatto sulla storia italiana meriterebbero da soli un libro. Non è questa la nostra intenzione qui, ma riteniamo che sarebbe interessante presentare una breve panoramica del posto di Mazzini in Francia.

Il rapporto di Mazzini con la Francia fu particolarmente complesso. Il pensatore e patriota genovese visitò più volte la Francia e vi trascorse tre anni decisivi, dal 1831 al 1833, durante i quali sviluppò la sua dottrina filosofica e politica e diede vita alla Giovine Italia, il primo partito italiano moderno. Fu in Francia che raggiunse la sua statura di rivoluzionario, temuto e ammirato in tutta Europa. L'atmosfera intellettuale e politica francese, come si sviluppò in particolare sotto la Monarchia di Luglio, giocò un ruolo decisivo nella nascita e nello sviluppo del mazinianesimo. In generale, gli scritti di Bazard, Cabet, Cousin, Guizot, Proudhon, Quinet, Saint-Simon, Sand, Stern, e soprattutto quelli di Félicité de Lamennais e Pierre Leroux sono essenziali per comprendere il mazzinianesimo. Se Mazzini riconosceva il suo debito intellettuale verso la Francia, si oppose anche, per tutta la vita, all'iniziativa francese, nata con la rivoluzione del 1789, che voleva superare e allo stesso tempo completare con quella italiana.

Il suo amico, il filosofo e pubblicista russo Alexander Herzen (1812-1870) scrisse nelle sue Memorie: "Giuseppe Mazzini perseguì attraverso il suo calvario la realizzazione di un mondo morale. L'idea dominante della mia vita", ha detto, "non è stata la rivoluzione italiana ma l'iniziativa italiana”. La Francia ha fatto la rivoluzione in favore dei diritti, l'Italia farà la rivoluzione in favore dei doveri; la Francia ha emancipato l'individuo, l'Italia sarà alla testa del movimento di liberazione dei popoli. All'inizio sereno e misurato, le sue critiche alla Francia diventarono più severe nel corso degli anni. Dopo l'intervento dell'esercito francese nel 1849 per rovesciare la Repubblica Romana, da lui guidata, sviluppò un rapporto passionale con la Francia del Secondo Impero, che finì per assimilare alla nazione decadente per eccellenza.

Non è quindi sorprendente che l'influenza di Mazzini in Francia sia stata sempre debole. In vita non raggiunse mai la popolarità di Cavour e nemmeno quella del patriota veneziano Daniele Manin, e ancor meno quella di Garibaldi, che "è tra gli eccezionali stranieri che questa combinazione molto francese di universalismo e patriottismo ha naturalizzato moralmente, almeno per un certo tempo". Senza discepoli, non ha avuto la fortuna, a differenza di Garibaldi , di avere un Alexandre Dumas per scrivere la sua storia. I suoi scritti non erano molto diffusi e la conoscenza del suo pensiero era non solo di seconda mano, ma anche, il più delle volte, filtrata e distorta dai suoi avversari. Così Mazzini è meglio conosciuto in Francia come il cospiratore, il regicida, l'uomo con il pugnale. Daniel Stern (1805-1876), lo pseudonimo della contessa d'Agoult, amante di Liszt, deplora il fatto che questa "grande figura del nostro tempo appaia ai più come un cospiratore sempre armato di pugnale". Di lui conosciamo solo la sua leggenda rivoluzionaria e generalmente ignoriamo il pensiero che ha diretto la sua azione". Centotrenta anni dopo, questo giudizio è purtroppo ancora vero.

In Francia, Mazzini è poco conosciuto dal pubblico, che conosce i nomi di Cavour e soprattutto di Garibaldi. È quasi scomparso dai libri di testo delle scuole secondarie, insieme a tutta la prima parte del XIX secolo, il cui studio è stato ridotto a niente con la revisione del programma di storia delle scuole secondarie. Nel mondo accademico, il discorso deve essere più sfumato, ma non può nascondere il fatto che gli intellettuali francesi non gli hanno mai accordato il posto eminente che i loro colleghi tedeschi, americani e inglesi gli hanno dato nella storia politica e intellettuale del XIX secolo. Solo uno scrittore profondamente cosmopolita, come Romain Rolland, poteva immaginare, all'inizio del XX secolo, di scrivere una biografia di Mazzini che voleva includere, in modo significativo, in una collezione dedicata ai geni dell'umanità, e nella quale Mazzini avrebbe fatto la spola con Michelangelo, Beethoven e Tolstoi!

Per molto tempo, le uniche biografie di Mazzini disponibili in francese erano traduzioni dall'inglese. Fu solo nel 1956 che Maria Dell'Isola e Georges Bourgin pubblicarono la prima e... ultima biografia di Mazzini in francese. Questo libro, che ora ha esattamente cinquant'anni, è molto piacevole da leggere e di alta qualità scientifica, ma si può trovare solo in libreria e non sembra aver mai suscitato l'interesse degli storici per scrivere una nuova biografia. In Francia, inoltre, ci sono pochi studi dedicati a Mazzini. Scrivendo questa biografia, speriamo di colmare una lacuna facendo conoscere la vita, cioè l'azione e il pensiero, di un protagonista della politica e della cultura europea del XIX secolo, la cui influenza e rilevanza sono ancora significative all'inizio del XXI secolo. Questo è un compito difficile, e a volte una sfida. È rivelatore il fatto che ci siano poche biografie di Mazzini, anche in italiano, e che siano spesso sommerse dalla massa impressionante di letteratura critica a lui dedicata.

La profondità e la ricchezza della vita di Mazzini non sono facilmente catturabili nell'analisi storica, soprattutto perché nel caso dell'apostolo dell'unità d'Italia, lo storico si trova di fronte a un'abbondanza piuttosto che a una scarsità di fonti. Le opere complete di Mazzini ammontano a non meno di centodiciassette volumi, o più di cinquantamila pagine. Di fronte a queste fonti molto numerose, alle quali si aggiunge una bibliografia critica oceanica, abbiamo dovuto necessariamente fare una selezione. Grazie al confronto di numerose antologie dei suoi testi, la scelta dei suoi libri, opuscoli e articoli meritevoli di essere conservati per l'analisi è stata fatta senza grandi difficoltà. Il nostro atteggiamento nei confronti dell'imponente bibliografia critica è stato quello di leggere sistematicamente i saggi e gli articoli recenti, senza trascurare i grandi studi classici che continuano ad alimentare la riflessione su Mazzini e sul mazzinianesimo.

Il nostro scopo qui non è quello di essere eruditi facendo luce sugli angoli più piccoli di una vita, ma di presentare tutti i momenti principali di un pensiero e di un'azione per capirne il significato. Nell'intraprendere questo lavoro, abbiamo tenuto conto delle conquiste della storiografia, ma abbiamo anche deciso di distaccarcene per dare uno sguardo nuovo alla vita di Mazzini e proporre una nostra interpretazione del mazzinianesimo e della sua storia.

A differenza di alcune biografie vecchie o recenti dedicate a Mazzini, nel nostro libro il lettore non troverà una separazione tra la presentazione della vita di Mazzini e lo studio ragionato del suo pensiero, ma vedrà come quest'ultimo si sviluppa e si perfeziona o si ripete e si irrigidisce, secondo le vicende della vita dell'apostolo dell'unità italiana e gli avvenimenti della storia italiana ed europea. Le sette parti principali di questo libro aiutano a tracciare il cammino di questa esistenza, mentre i ventotto capitoli permettono di precisare le tappe. Infine, ci siamo sforzati di presentare i contesti in cui si svolse l'impegno politico e intellettuale del patriota genovese, per far luce su come, a seconda del momento, questo impegno rifletta lo spirito del tempo, anticipi le ideologie del suo tempo o rimanga indietro rispetto alle nuove idee. Speriamo di aver così realizzato il desiderio espresso da Daniel Stern, circa centotrenta anni fa, di far conoscere una delle "grandi figure" della storia italiana ed europea.

(Traduzione nostra)

Jean-Yves Frétigné

Giuseppe Mazzini
Père de l'unité italienne
Librairie Arthème Fayard, 2006

Jean-Yves Frétigné, nato nel 1966, è uno storico francese, specializzato nella storia contemporanea d'Italia e più particolarmente nel periodo liberale. Attualmente è docente di storia contemporanea all'Università di Rouen, membro dell'Académie du Maine e presidente della Société d'études françaises du Risorgimento italien (SEFRI).

mercoledì 22 dicembre 2021

Da leggere: Genova macaia


Alla scoperta di una Genova sconosciuta, viaggiando nel cuore di un genovese che non ci vive più. Perché è destino dell'uomo, di ogni uomo, da Edipo a Ulisse, a ognuno di noi, finire sempre per tornare da dove si è partiti. E che ciò avvenga solo col ricordo non fa differenza. Ne presentiamo l'introduzione.

Simone Pieranni

Ritorno

Genova è un modo di essere, mi dicevi. La forma del mio pensiero, mi spiegavi, dipende da questa città, e con il tempo lo avrei scoperto. Oggi la ritrovo come allora, come la ricordo: lunga e parallela al mare, protetta dai monti. Alcune persone ritengono che la riservatezza mista a diffidenza dei genovesi arrivi proprio da questa postura urbana, schiacciata tra i monti e il mare, determinata quindi dalla natura, inchiodata dalla cupezza di uno spazio che a tratti sembra restringersi.

Genova è un alto e un basso continuo, è un infinito salire e scendere: da Bolzaneto, a nord ovest, fino al centro storico, ad altezza dell’acqua; a Genova ci sono Carignano e Castelletto, in alto, ci sono Sottoripa e piazza Cavour, in basso. E all’interno di questa strettoia tra i monti e il mare ci sono altri confini, come quelli che scorrono tra Campopisano, piazzetta del centro storico, e Porta Siberia al porto, piazza Sarzano, che ospita la statua di Giano, il fondatore della città secondo la tradizione, e le mura di un molo sul mare.

Genova è un continuo racchiudere, restringere, contenere: è in spazi così angusti che basta un filo di vento per venirci a guidare.

A Genova sono nato e ho vissuto fino al 2001. Da allora a oggi ci sono tornato ogni anno, fermandomi per periodi diversi: a volte per un solo giorno, altre per alcuni mesi. Da quando me ne sono andato ho via via recuperato pezzetti di memoria, portando sempre Genova con me, sotto forma di una sciarpa rossoblù che ha finito per girare il mondo.

Quanto alla mia nascita, ho sempre desiderato conoscerne l’ora esatta ma, interpellata, mia madre ogni volta cambiava l’orario: una volta sosteneva fossi nato alle 18, una volta alle 19, un’altra addirittura al mattino. Ripeteva sempre che – in ogni caso – ero nato in ritardo di diversi giorni su quanto era stato pronosticato. «Abbastanza per nascere di un anno più giovane, alla fin fine», chiosava mia nonna. La domanda sull’orario del mio arrivo nel mondo a te non l’ho mai rivolta. Mi hanno sempre raccontato che dopo avermi visto per la prima volta sei svenuto.

Sono nato a Sampierdarena – un fattore che da genoano ho sempre considerato una sorta di maledizione – e ho vissuto sempre a Bolzaneto. Che è Genova, ma per noi di Bolza alla fine Genova era Genova, ovvero la città: il centro storico, il porto. Poi si vagheggiava di zone ancora più in là, da Marassi in avanti. Luoghi che potevano essere interpretati come le colonne d’Ercole della mia infanzia, posti misteriosi, probabilmente percorsi da abitanti diversi, benché fossero considerati a tutti gli effetti genovesi, come noi di Bolzaneto.

Genova è una partita aperta che chiede un ritorno per disarcionare dal passato quanto è rimasto non detto. Per ritrovare te, i nostri percorsi, le nostre scoperte della città, i nostri discorsi tra i caruggi e sulla macaia, i vicoli del centro storico e tutte le storie così vicine che ho dovuto recuperare piano piano, passo dopo passo, uscita autostradale dopo uscita autostradale. Da Bolzaneto al centro, dal centro allo stadio, dallo stadio a Recco, ed ecco la riviera: balestre territoriali accompagnate dal procedere del tempo, dalla crescita mia, dalla consapevolezza di vivere la città come fosse l’interno di un guanto, sempre lì, avvolgente e all’apparenza conosciuto, ma in realtà invisibile agli occhi.

Rieccomi dunque a Genova, partendo da Bolzaneto, in quel percorso che ha contraddistinto la mia vita: da ovest a est, da occidente a oriente. Rieccomi a ritrovarti nei luoghi, a chiudere questa partita fatta di non detti, di storia racchiusa in poche parole, quelle che troverò adesso. Sono venuto a cercarti, a rintracciarti negli scampoli di questa città che guardo con occhi diversi. Una città nella quale ritrovo la voglia di parlarti, di trovare un posto e scandire quel percorso di crescita che in fondo mi ha portato lontano. Fa tutto molto Ma se ghe pensu, la canzone della distanza, la canzone dei genovesi partiti, che hanno abbandonato la città – molto spesso per il Sudamerica – ma la pensano in continuazione, al punto da tornare contro ogni consiglio e buon senso. Un ricordo che svanisce ha bisogno di commemorazione. Per questo sono qui, per questo c’è questo percorso da fare, questa strada da camminare: salite da sudare, discese da controllare, parole, parole da buttare.

Non si può che partire da Bolzaneto, dove ho vissuto per trent’anni. E da quelle parti la mia infanzia è stata contrassegnata dalla tua presenza costante e da quei personaggi che hanno segnato la mia percezione di Genova. Tu, mio padre. Tua madre, mia nonna. Tuo fratello, mio zio, e il suo mondo quasi onirico di cui spesso cercavo informazioni, a volte con discrezione, a volte in modo ben più perentorio.

Questa è la mia Genova, questo è il mio percorso.


Indice

Ritorno 

Genova Bolzaneto 
Voce di Genova #1 La madre di mio padre 
Genova Ovest 
Voce di Genova #2 F., il fratello di mio padre 
Pegli 
Il centro 
Voce di Genova #3 Il Ghedda 
Il Porto 
Genova Est 
Testa di gatto 
Voce di Genova #4 Mio padre 
Nota dell’autore

Simone Pieranni
Genova macaia
Un viaggio da Ponente a Levante
Laterza 2017

martedì 21 dicembre 2021

Tonino Conte, Genova una città in 20 storie

 


Un libro affascinante e divertente, da leggere come antidoto allo stress delle feste.


Introduzione

Perché Genova si chiama Genova?


C'è chi dice che il nome della città ha origine da janua, che in latino significa porta. Effettivamente fin dai tempi più antichi Genova è stata considerata - da tutti i popoli che hanno abitato la pianura padana e anche da quelli al di là delle Alpi - una porta aperta verso il mare.

E il mare non è che una grande strada che unisce tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Altri dicono che il nome deriva dal greco Xenos, che vuol dire straniero. Bisogna sapere che in dialetto Genova si chiama Zena e i suoni Xenos e Zena somigliano davvero. La cosa non è così strampalata come può sembrare anche perché Genova ha sempre trafficato e commerciato con tutti e naturalmente gli stranieri ci stavano di casa. Come si dice di un posto dove si parlano molte lingue e c'è una gran mescolanza di razze, la città è «un porto di mare». E Genova è sempre stata soprattutto il suo porto.

C'è anche chi sostiene che il nome deriva da Giano, l'antico dio italico del corso del sole, raffigurato bifronte, in modo che possa guardare sia davanti che dietro a sé: verso il sorgere e il tramontare del sole. In effetti Genova ha due facce: una guarda verso i monti che alle sue spalle la chiudono a semicerchio, l'altra faccia guarda verso il mare aperto. Giano è anche il dio dei passaggi, delle porte. Per conto mio è quest'ultima l'ipotesi più affascinante e forse più vicina alla verità. Sicuramente i Genovesi nel corso della loro lunga storia di passaggi ne hanno fatti tanti, e hanno varcato tante porte. Non sono mai stati dei sedentari. La loro curiosità di viaggiatori li ha spesso spinti alle soglie delle porte dell'inferno.

Janua, Xenos o Giano che sia, in ogni caso vale la pena di dare un'occhiata alla strana fontana che si trova nella più antica piazza di Genova, piazza Sarzano, meravigliosamente descritta in uno dei Canti Orfici - intitolato proprio Piazza Sarzano - del poeta Dino Campana.

Sulla cupoletta della fontana c'è una testa in marmo di Giano Bifronte.

Dino Campana - guarda il caso - era uno straniero (come diciamo noi un «foresto»), ma nessuno come lui ha saputo descrivere in tante poesie l'anima e la vita di Genova. Soprattutto ha saputo farci sentire il respiro del mare e il pulsare del porto. Quando il porto funzionava ancora, agli inizi del secolo, nel tempo in cui Campana ha soggiornato nella nostra città in una casa di Vico Vegetti.


Introduzione


Noi che sempre navighiamo
Guglielmo Embriaco e il sacro Graal
La crociata dei bambini
San Giorgio e il drago
Sulle strade del mare
Il mercante
Ma se viene il Barbarossa...
Simon Boccanegra primo doge
La lista della spesa
Il Bucicaldo, ultimo cavaliere errante
Il grande ammiraglio del mar Oceano
Andrea Doria dall'alto dei suoi cent'anni
Lepanto
Ma Balilla lo ha lanciato quel sasso?
La vecchia signora
Qui si fa l'Italia!
Paganini e i suoi capricci
Genova industriale
Genova dagli amori in salita
Ahi Genovesi, uomini diversi!

Una rivoluzione nella mente. Storia dell'illuminismo radicale

 

Un libro interessante di cui presentiamo la quarta di copertina e l'indice. Estremamente stimolante, anche se non condividiamo il giudizio un po' troppo sbrigativo dell'autore sulla mancanza di rapporti tra pensiero radicale e Massoneria. Se questo può avere un fondamento nel caso inglese, dove la Libera Muratoria speculativa nasce nel 1717 con uno spiccato carattere lealista e d'ordine, lo stesso, pensiamo, non si possa affermare per la Francia e neppure per l'Italia. Da qui la profonda diversità di approccio soprattutto ai temi sociali, politici e religiosi che fin dagli inizi distingue il ramo inglese e quello francese della Massoneria e le conseguenti ricadute sul dibattito filosofico.

Democrazia. libertà di pensiero e di espressione, tolleranza religiosa, libertà individuale, autodeterminazione dei popoli, eguaglianza sessuale e razziale: questi valori sono saldamente entrati nel pensiero dominante da quando sono stati racchiusi nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nel 1948. Se questi ideali oggi non sembrano piú radicali, la loro origine lo fu realmente, molto più di quanto tanti storici abbiano voluto riconoscere. in questo libro Jonathan Israel, uno dei maggiori storici dell'argomento, rintraccia le radici filosofiche di queste idee nella corrente che egli chiama Illuminismo radicale. Nato come movimento di idee clandestino, l'Illuminismo radicale è maturato in opposizione alla corrente principale moderata dell'Illuminismo, dominante in Europa e in America nel XVIII secolo. Quando, durante le rivoluzioni degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, l'Illuminismo radicale uscì allo scoperto, provocò una lunga e accanita serie di reazioni da parte della monarchia, dell'aristocrazia, dell'impero e delle gerarchie sociali ed ecclesiastiche e a difesa della censura, dell'autorità della Chiesa, della disuguaglianza sociale, della discriminazione razziale e religiosa. Il racconto di questa storia affascinante rivela la sorprendente origine dei nostri valori piú fondamentali, e le motivazioni profonde della disapprovazione di cui sono oggetto anche oggi.


Sommario:

Prefazione
I. Il progresso e i due modi in conflitto per migliorare il mondo dell'Illuminismo
2. Democrazia o gerarchia sociale?
3. Il problema dell'eguaglianza e dell'ineguaglianza
5. La critica illuminista della guerra e la ricerca della «pace perpetua»
6. Due forme di filosofia morale in conflitto
7. Voltaire e Spinoza
8. Conclusioni

Jonathan Israel è professore di Storia moderna all'Institute for Advanced Study di Princeton.


Jonathan Israel
Una rivoluzione della mente
Einaudi, 2011
20 euro

Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi»


Raniero Panzieri è uno dei principali intellettuali e organizzatori culturali del movimento operaio italiano del secondo dopoguerra. Negli anni Cinquanta è stato dirigente del Partito socialista, teorico del controllo operaio e della democrazia diretta, fautore di una rilettura anti-dogmatica di Marx nel contesto del «neocapitalismo». Trasferitosi a Torino ha fondato la rivista «Quaderni rossi», da cui è nata l'esperienza dell'operaismo politico. Rifiutandosi di concepire le macchine e la tecnologia come strumenti neutrali di sviluppo e progresso, ha analizzato i rapporti di sfruttamento del cosiddetto «miracolo economico» italiano a partire dalle lotte operaie. Prematuramente scomparso a 43 anni, la sua attività di ricerca si rivela anche oggi dotata di una grande forza di anticipazione per la teoria politica e la sociologia del lavoro critica. A cent'anni dalla sua nascita, il volume ripercorre la straordinaria biografia intellettuale e politica di una figura ancora troppo poco conosciuta. 


Marco Cerotto
Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi»
DeriveApprodi, 2021
10 euro

domenica 19 dicembre 2021

Il fascismo in Italia. Il corso di Leningrado del 1926

 

Ristampato da Prospettiva Marxista il testo del corso sul fascismo tenuto a Leningrado nel 1926 ai quadri italiani del Comintern. Viene ripresa la prima edizione del 1956 con la Prefazione di Renzo De Felice. In appendice il rapporto sul fascismo svolto da Amadeo Bordiga al IV Congresso dell'internazionale comunista (1922)


Con l'anno 1965 le Edizioni del Gallo iniziavano a pubblicare gli «Strumenti di lavoro». La cronica mancanza di denaro impediva una massiccia editoria a stampa e si era stati costretti a ripiegare sulla produzione di fascicoli ciclostilati con una tiratura limitata tra le 200 e le 500 copie, la cui realizzazione editoriale era affidata a Gioietta Dallò (sostituita da Ivan Della Mea nel 1967) e a me. Le intenzioni di questa impresa venivano spiegate così: «In un periodo in cui l'editoria "normale" inizia un'ulteriore offensiva di massificazione culturale per mezzo di un avanzato processo di mer-cificazione, la nostra Casa editrice oppone attraverso gli "Strumenti di lavoro" una imponente documentazione al servizio di una cultura che si proponga, nel quadro dei problemi più avanzati della società, una contestazione senza ripiegamenti e concessioni. Nel campo della espressività popolare e proletaria, degli studi storici, di una nuova cultura, gli Strumenti di lavoro intendono ac-cogliere il patrimonio di conquiste e di indicazioni che provengono dal mondo non egemone, in modo che all'azione politica, all'elaborazione ideologica, alla cosiddetta battaglia culturale venga creato un terreno adatto per mettere a punto le proprie armi, per contestare quelle altrui, per affermare in maniera avanzata e con-temporanea la propria rinnovata visione del mondo».

Dalla prefazione di Cesare Bermani


La lettura de Il fascismo in Italia, studio inerente alla scuola quadri di Leningrado nel 1926, ci pone di fronte ad un testo elaborato e scritto da militanti politici per militanti politici che conserva molteplici, vigorosi stimoli per chi, anche oggi, considera l'analisi e la comprensione delle varie forme d'organizzazione e di difesa dell'ordinamento capitalistico come una questione fondamentale della militanza rivoluzionaria.

Dall'introduzione di Prospettiva Marxista

sabato 18 dicembre 2021

Arte, merce, capitale. Un libro di Roberto Costantino

 


Fino a che punto l'arte collabora alla trasformazione del mondo in un miraggio imperniato sulla «fantasmagoria delle merci»? Per rispondere a questa domanda, Roberto Costantino raggruppa un insieme di opere apparentemente disparate mostrandoci il nesso nascosto che le collega una all'altra: tutte ci raccontano a modo loro le trasformazioni economiche che hanno caratterizzato il secolo breve da cui siamo usciti una ventina d'anni fa e che ancora distinguono il millennio in cui ci troviamo. Che il Novecento - e ancora di più il Duemila, siano i momenti storici in cui si è consacrato il trionfo della merce, ovvero si è definitivamente affermata la possibilità di convertire in denaro oggetti, comportamenti, saperi, «ancora prima che siano usati», non è certo una novità. Inusuale, però, è analizzare l'arte attraverso questo filtro critico, sapendone trarre ragionamenti affascinanti e convincenti. Sono rari i commentatori così avventati, o ambiziosi, che lo fanno. Soprattutto nell'epoca del tramonto delle ideologie e della nascita d'impensati sospetti verso quelle utopie di cui tutti ci nutrivamo avidamente, almeno fino all'altro ieri.

Roberto Costantino è nato nel 1965 a Burgsteinfurt (Germania) e vive a Savona. Artista e curatore collabora con numerose riviste. È Presidente dell'Associazione Culturale Attese Edizioni che nel 2001 ha fondato la Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea alla quale hanno partecipato curatori di fama internazionale e oltre cento artisti e designer provenienti da tutto il mondo.  


Dall'Indice


Marcel Duchamp e gli appuntamenti con le cose
Le parole che avanzano
"trouver inscription pour Woolworth Bldg comme ready-made"
Sparizione e apparizione dei ready-made
Dallo scolabottiglie di Vulcano al ready-made di Marcel Duchamp
I ready-made e le "copie conformi agli originali"
Il ready-made come apostasia e come idolo
I tubetti di colore di Marcel Duchamp
Il Pegaso e la Vittoria Fascista di Arturo Martini e il Pegaso e la Vittoria
Dal mezzadro al Mezzadro dei fratelli Castiglioni
L'Internazionale Situazionista e lo Sposalizio della Vergine di Raffaello
La "Peinture détournée" di Asger Jorn
"Erased de Kooning Drawing, Robert Rauschenberg, 1953"
II pianoforte di Giuseppe Chiari
Il Blowjob di Andy Warhol
Le Zones de sensibilité picturale immatérielle di Yves Klein
The Imaginary Museum di Hans Hollein
II furto dell'opera d'arte Invisibile
Che cosa succede nelle stanze quando gli uomini se ne vanno?
Rirkirt Titravanijia e 1' Arte Relazionale" degli Art Worker
Andreas e Mattia: persone come cose e cose come persone
Dall'iconoclasmo all'iconoclasmo profittevole
La Cloaca delle icone
L'Idiota di Tristan Tzara e la dadaizzazione del mondo in forma di merce
L'America di Maurizio Cattelan e l'autocontemplazione dello spettatore
C'era una volta America

L'arte, la merce, gli Idioti
postfazione di Simonetta Fadda

domenica 12 dicembre 2021

12 dicembre 1969. Noi non dimentichiamo

12 dicembre 1969. Noi non dimentichiamo



A proposito di elettrotecnici.

Giorgio Amico

A proposito di elettrotecnici. Considerazioni serie e meno serie.


Un mio commento su Facebook relativo ai funerali di Lina Wertmuller ha suscitato qualche reazione, tanto che ne ho dovuto aggiungere un secondo. La cosa è minima, ma significativa di quanto siamo tutti linguisticamente e dunque concettualmente integrati nello stato di cose presenti.

Primo commento (non serio)

Ai funerali di Lina Wertmuller Giancarlo Giannini ha dichiarato che, se non l'avesse incontrata, sarebbe rimasto un perito elettronico e che di questa fortuna ringraziava Dio.

Dopo questa dichiarazione numerosi sono già stati i suicidi di periti elettronici, ancora in attività o in pensione, traumatizzati dalla scoperta improvvisa di aver sprecato la loro vita.


Secndo commento (serio)

Era già successo con Greta Thumberg. Noto ancora una volta come si possa ridere e scherzare su tutto, ma guai a toccare certi tasti. E allora, visto che lo scherzo non va bene, parliamo seriamente. Anche se involontaria, la notazione classista c'era e come. E' un dato oggettivo. Un perito elettronico non è paragonabile, né per visibilità né per tenore di vita, a un attore di successo e dunque Giannini ha tutte le ragioni di ringraziare Dio di avergli fatto incontrare la Wertmuller. Se fossi nella sua situazione direi esattamente la stessa cosa, che però, tradotta in italiano, significa: "Grazie, Signore, di non avermi fatto restare un poveraccio anonimo". Il che, lo ripeto, è verissimo, sarebbe strano che Giannini (o chiunque altro in quella condizione) la pensasse diversamente. Ma proprio l'essere vero e addirittura comprensibile conferma che la nostra è una società classista e che il lavoro di un perito elettronico non è certo il meglio che si possa sperare. Per farla breve, Giannini ha espresso un modo di pensare tipico di una società classista che vede il lavoro manuale come inferiore socialmente se non addirittura come una condanna ad una vita grigia e priva di soddisfazioni. Detto questo, il mio era uno scherzo e non voleva minimamente additare Giannini, che magari è pure di sinistra, al pubblico ludibrio. Per fortuna il moralismo della sinistra attuale, così come il suo voler essere sempre politicamente corretta, non mi appartiene.


E' mancato Michele Basso

 


E' mancato Michele Basso

E' improvvisamente mancato Michele Basso, carissimo amico e compagno. Insegnante di filosofia nei licei, Michele aveva fino al 1982 militato nel Partito comunista internazionale (Il programma comunista). In tanti ricordiamo i suoi interventi nelle assemblee della CGIL Scuola. Nonostante i toni "bolscevichi" degli interventi, era un uomo mite e di grande generosità e calore umano. Serissimo studioso marxista, aveva negli ultimi anni continuato il suo impegno politico comunista postando sul web analisi e interventi di grande spessore.

Ciao, Michele che la terra ti sia lieve nella convinzione che altri continueranno la tua battaglia per un mondo più libero e giusto. 

G.A.


giovedì 9 dicembre 2021

Karl-Dietrch Bühler: geografia per immagini

 

Karl-Dietrch Bühler: geografia per immagini
a cura di Sandro Ricaldone
Palazzo Ducale, Sala Liguria - Genova
16 dicembre 2021 - 6 gennaio 2022


Il fascino del Grand Tour non è mai finito. Ne sono testimoni le opere del fotografo tedesco Karl-Dietrich Buhler, nella mostra “Geografia per immagini” visitabile dal 16 dicembre al 6 gennaio 2022 nella sala Liguria, al piano nobile di Palazzo Ducale. Saranno esposte sessanta fotografie che compongono un racconto dell’Italia nei suoi aspetti paesaggistici, storici, artistici e infrastrutturali, selezionate dal critico d’arte Sandro Ricaldone dall’archivio dell’autore. 

L’Italia non smette mai di sorprenderci”, racconta Buhler, da anni residente a Genova e appassionato osservatore del nostro Paese. “Viaggiando da una valle all'altra il paesaggio e lo scenario cambiano completamente e anche in piccoli centri si possono trovare arte e architettura di qualità sorprendente. Ho viaggiato molto lungo l'Aurelia, la Cassia e la Pontina, e anche lungo strade secondarie di tutto il Paese, per scoprire la bellezza di borghi, piazze e giardini fuori dalle rotte turistiche più battute. La provincia italiana racchiude tesori nascosti e tradizioni artigianali di pregio”.

Buhler è anche uno dei soci fondatori dell’Associazione culturale Giardini e Paesaggi di cui ricorrono i 25 anni dalla fondazione. Dal 1996 l’Associazione si occupa di divulgazione culturale sulla storia dei giardini con eventi di varia natura e dal 2014 di evoluzione dei paesaggi e di cambiamenti ambientali, temi sviluppati nel corso delle conferenze annuali tenute a Palazzo Ducale nel format “Paesaggi in tutte le stagioni”. 

Inoltre dal 2005 l’Associazione pubblica Rosanova, rivista quadrimestrale che approfondisce temi di arte e storia del giardino. Le copertine dei 65 numeri pubblicati saranno esposte nella sala accanto alla mostra fotografica, insieme ad altri materiali documentari relativi alle conferenze, i congressi internazionali, i concerti e le mostre organizzati nel corso degli anni.

Inaugurazione il 16 dicembre 2021 alle ore 12, alla presenza dell'Assessore Paola Bordilli,dell'Arch. Anna Sessarego Presidente di AIAPP Liguria e  del curatore Sandro Ricaldone.

La mostra, a ingresso libero, è visitabile dal 16 dicembre 2021 al 6 gennaio 2022 (chiusa il 25 dicembre 2021 e il 1° gennaio 2022). 

Orario: da lunedì a venerdì, ore 10:00 -19:00. Sabato, domenica e festivi, ore 11:00 – 18:00.
Per accedere è necessario il Green Pass.


martedì 7 dicembre 2021

Franco Astengo, Ricostruire la coscienza di classe

 


Questo blog non ha mai nascosto la sua collocazione politica non tanto in una generica sinistra progressista, quanto in quella area -oggi purtroppo minoritaria – che si richiama alla classe operaia e alla lotta per un mondo radicalmente diverso da quello attuale fondato sul superamento del sistema di produzione capitalistico che ogni giorno di più manifesta le sue drammatiche contraddizioni. Per questo ospitiamo con particolare piacere questo intervento di Franco Astengo in merito alla condizione di nuovi strati proletari -come i riders o i lavaratori delle piattaforme digitali- che ci ci ostina a considerare come lavoratori autonomi e a cui di conseguenza si negano salari adeguati e diritti sindacali.

Franco Astengo

Ricostruire la coscienza di classe

Dopodomani, 8 dicembre, la Commissione Europea riconoscerà i rider e i lavoratori delle piattaforme digitali come subordinati. Quindi dovranno essere assunti all’interno dei confini del lavoro dipendente.

La direttiva, contenuta nel pacchetto lavoro, una volta approvata dal Parlamento e dal Consiglio, diventerà una vera e propria legge alla quale gli Stati Membri dovranno uniformarsi.

Si tratta di una svolta per persone spesso considerate dai giganti dell’economia digitale lavoratori autonomi, retribuiti con paghe minime e senza alcuna tutela.

Si tratta di lavoratori che hanno come “Capo l’algoritmo” (dal libro di De Stefano e Aloisi): l’algoritmo che gestisce il lavoro e punisce quando il rating degli utenti è negativo, oppure ci si rifiuta di lavorare in una certa fascia oraria e, ancora, giudica la velocità del tuo lavoro: a quel punto ti cancella dall’app, ti espelle e non ti fa più lavorare.

Questa non è autonomia.

Anche perché il lavoratore non decide quanto farsi pagare e come lavorare.

Un discorso che non riguarda soltanto la consegna del cibo a domicilio (in grande crescita dopo il lockdown e l’obbligo del green-pass per sedere al ristorante) ma anche il lavoro domestico e quello online come il crowdworking: una vasta platea di lavoratrici e lavoratori se si pensa che, soltanto in Italia, i rider privi di tutele assommano a 1.500.000 persone.

La direttiva della Commissione Europea rappresenta soltanto il primo momento di una lotta politica che dovrebbe essere condotta a livello sovranazionale avendo chiaro la necessità prima di tutto di ricostruire una coscienza di classe.

Lo smarrimento individuale della consapevolezza della propria condizione sociale ha rappresentato il dato saliente nel corso del processo di frantumazione del mondo del lavoro imposto come caratteristica fondativa dell’evoluzione capitalistica verificatasi dall’inizio del XXI secolo poi esplosa con l’evoluzione digitale e la modifica della rete di scambio a livello globale.

Rispetto ai canoni di riferimento dettati dalla storia del movimento operaio occorre essere coscienti delle condizione di arretratezza nella quale si trova buona parte delle forza – lavoro anche qui nell’Occidente “capitalisticamente maturo”.

Un’arretratezza che sta anche alla base della modifica dei rapporti di forza sul piano politico.

Nel corso dei “Trenta gloriosi” (Hobsbawan – Rossanda ) nel momento dell’avvento e dello sviluppo del ciclo taylorista – fordista , della ristrutturazione dell’industria bellica , del ciclo “nazionale” del consumismo di massa si verificò, all’interno dei soggetti rappresentativi della classe, una rielaborazione teorica attraverso la quale fu possibile riconoscere i punti d’attacco sui quale basare una diversa stagione di avanzamento di diritti e di capacità d’iniziativa politica.

Ciò avvenne sia su impulso della socialdemocrazia del Nord Europa sia nei settori sindacali e della sinistra “critica” in Italia, fino a sfociare nel lungo ‘68 italiano (come modello europeo) con l’identificazione delle leve di sviluppo del capitalismo e l’individuazione dell’operaio – massa come soggetto della trasformazione sociale con la conseguente la ripresa della tematica consiliare riconoscendo così l’autonomia politica del lavoro di fabbrica.

Tutto questo si verificò in conclusione di un lungo ciclo di guerra di posizione e di rivoluzione passiva che aveva caratterizzato l’immediato dopoguerra in un quadro (riferito all’Italia) di repressione poliziesca sulle lotte e di vero e proprio “pagamento dell’intero prezzo” da parte della classe operaia dei costi della fase di trasformazione del ciclo produttivo in previsione del “miracolo economico”.

Oggi è necessario comprendere, prima di tutto, la reale condizione che si è verificata di arretramento sul piano dei rapporti di forza e della strategia dei diritti; in secondo luogo debbono essere considerate le difficoltà del sindacato nel riuscire ad esprimere una strategia di lungo periodo con il rischio di corporativizzazione della confederalità; in terzo luogo è emersa da tempo la totale assenza di una soggettività in grado di offrire un quadro complessivo di organizzazione utile al riconoscimento della “classe” con lo sviluppo di una funzione concreta di pedagogia politica.

La prospettiva della ricostruzione della coscienza di classe, attraverso una vera e propria rielaborazione teorica sulla base della quale offrire una adeguata piattaforma di iniziativa di lotta e di rappresentanza appare come la sola frontiera possibile per proporre l'esercizio di un efficace contrasto all’egemonia del potere capitalistico sul lavoro esercitato attraverso imperscrutabili algoritmi (e più avanti con la necessità di recuperare coscienza di ciò che ci riuscirà a imporre l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella sostituzione delle forme tradizionalmente considerate di “lavoro vivo”).

Il capitalismo sta evolvendosi nell’utilizzo delle piattaforme digitale in funzione del perpetuare l’esercizio del proprio dominio: dobbiamo cercare di far capire che dietro di esse ci sono persone in carne e ossa, uomini e donne che hanno diritto alla loro vita.

lunedì 6 dicembre 2021

Ma irrazionale è la pandemia liberista

 


Raffaele K. Salinari

Ma irrazionale è la pandemia liberista

(Sul rapporto CENSIS)


«Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità. È un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà L’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia, ma ha radici socio-economiche profonde, seguendo una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico, e che ora evolve diventando il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche.

Ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale. La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali». Questa, in estrema sintesi, correlata da percentuali e statistiche, l’analisi di fondo contenta nel «La società italiana al 2021» del 55° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, non a caso sottotitolato La società irrazionale. In primis colpisce profondamente la creazione di un continuum tra i concetti di «pensiero magico, stregonesco, sciamanico» che, benché certamente in relazione tra loro, rispondono ad ambiti culturali e cultuali profondamente diversi, soprattutto nel loro utilizzo da parte dello psichismo umano.

Affastellarli così per assonanze, queste sì irrazionali, da una parte li priva della loro profondità ideale, dall’altra esclude una ricerca che, a ben vedere, è proprio quella che il Rapporto sbrigativamente e sprezzantemente definisce come « il senso occulto della realtà».

Ora non c’è bisogno di scomodare Ernesto De Martino per ricordare quanto il senso del numinoso, del sacro, cioè del senso trascendente della vita, sia in realtà per ognuno ciò che ci pone in contatto con noi stessi e con il mondo, non certo la razionalità economica che ha infatti prodotto la maggior parte dei guasti che l’anima del singolo, né quella del Mondo, può più sopportare. Affermare che «la fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali», è il trionfo del pensiero economicista, del PIL come unico metro di misura della ragione umana, della scienza come tecné, delle aspettative di ricchezza materiale come realizzazione dell’individualità umana e sociale. Ora, partendo da questa stessa analisi che giustamente già espimeva Roberto Ciccarelli sul manifesto di ieri – molto più che semplificata, quasi semplicistica, della complessità che innerva il disagio personale e collettivo, si potrebbero trarre conclusioni diametralmente opposte.

La prima, e più importante, è proprio la constatazione che tutto questo è dovuto ad una secolarizzazione crescente della nostra relazione con il Mondo, nota anche a Marx che certo non può essere tacciato di pensiero mitico. E allora, se invece che ricorrere la realizzazione personale attraverso l’accumulo di beni materiali ci rivolgessimo ad un ascolto più profondo ed autentico dei messaggi che ci arrivano, sempre più drammaticamente, dalla Natura?

Ultimo tra questi messaggi è la pandemia da Covid 19, generata da un ulteriore spill over causato dalle nostre continue invasioni in biomi che non ci appartengono, dalla inesausta manomissione dell’ambiente di altre forme viventi, sempre alla ricerca di maggiori risorse materiali per calmare la nostra ansia esistenziale. In realtà siamo le prime vittime di questo malinteso senso della razionalità che ha scacciato dalla percezione proprio ciò che di poeticamente irrazionale ci circonda e ci anima: è razionale un fiore che si offre al sole e ci regala, dico regala, il suo profumo e la sua bellezza? Siamo razionali quando amiamo? Ma allora perché solo in qual momento ci sentiamo vivi? Domande che non possono essere ridotte in cifre.

Il Manifesto – 5 dicembre 2021


domenica 5 dicembre 2021

E se parlassimo di vino?


Si fa presto a dire vino. Ma solo un vero bevitore sa quanti significati questa parola può contenere. Joseph Roth ne sapeva qualcosa, tanto che ci scrisse il suo libro più bello. Ma è sempre piacevole parlarne.


Luca Amico

E se parlassimo di vino?


Il vino è un’altra cosa. Ma andiamo con ordine.

Quando ero piccolo, negli anni ottanta, il vino era la bevanda dei pasti. Non si facevano tante chiacchiere, annusate, scrollate di bicchiere: si metteva sempre in tavola il bottiglione – rosso, fermo, temperatura ambiente: ad agosto in caraffa con qualche cubetto di ghiaccio – e lo si allungava sovente con l’acqua. Del rubinetto.

Il vino in cartone non era disprezzato. Acquistato per cucinare, in mancanza di meglio finiva anche sulla tavola. Non c’erano grandi ritualità, né esibizioni, né ricerca di storie o emozioni. Il vino era un alimento. Un alimento fondamentale, però: sulla tavola – come in una comunione laica - non poteva mancare mai, come l’acqua, o il pane. 

Quando sono cresciuto e, con l’adolescenza, ho scoperto le gioie ed i dolori (postumi) dell’alcool, il vino non andava di moda tra i giovani e giovanissimi. Si beveva prevalentemente birra – al pub, in latteria, a casa, ovunque insomma – e immondi intrugli a base di super alcolici quando si voleva scivolare più rapidamente nell’ebrezza dionisiaca.

Dopo il 2000 il vino è entrato nella mia vita a piccoli, ma decisi, sorsi: io stavo cambiando, non più scapestrato e goliardico studente dalla chioma lunga e spettinata e con truculente magliette inneggianti all’heavy metal, ma tonsurato praticante avvocato desideroso di vedermi e di farmi guardare come uomo maturo, di gusto, di classe. Cambiava in quegli anni – o così mi pare oggi in retrospettiva – anche l’estetica del vino, sempre più associata al buon vivere borghese (per un attimo volevo scriverlo in francese) e sempre meno all’osteria (nella mia Savona, alla Società di Mutuo Soccorso).

Cambiavo io – che volevo essere, o sembrare, adulto – e cambiava il vino, che, come me, desiderava darsi un tono e presentarsi con una nuova veste.

Non sono un alimento. Diceva ora il vino. Sono un’opera d’arte. 

E le opere d’arte, si sa, le capiscono solo i critici, che poi le spiegano – con termini esoterici e gesti magici – al popolo. Il quale impara così a distinguere il capolavoro – il vino d’elite – dalla crosta – il vinello popolare.

Così è cominciato il periodo aureo dei degustatori e delle degustazioni: ruotare il bicchiere, infilarci il naso dentro, inclinare il tutto su tovaglioli immacolati e infine tornare a casa ubriachi e senza dignità (a volte anche senza le chiavi, perse chissà dove), macchiati di viola ovunque, dopo dieci assaggi generosi trangugiati all’insegna del “mi rincresce lasciarlo nel bicchiere” (e, dopo tutto, sono ligure).

Sulle degustazioni e sui degustatori andrebbe detto molto di più. Quei prestigiatori dall’eloquio celeste, sovente dotati di un bel tono baritonale e di una impeccabile camicia bianca, auscultano il vino come un paziente ammalato grave, con serietà e professionalità. E quindi, dopo aver ipnotizzato la folla con rapidi gesti delle mani, con aria compunta, emettono la diagnosi. Sentori di cacao, tabacco. E via fin dove arriva la fantasia olfattiva umana. Io una volta ho azzardato un profumo di pane, di brioches, e sono stato preso a bastonate. Qualche volta, invece, lo Yoda enologico rassicura il padawan con un, sufficiente,” ognuno ci sente quello che vuole”, che, in realtà, significa: “povero grullo privo di naso”.

Degustare, comunque, è divertentissimo. I degustatori, molto meno. Mentre il vino diventava vieppiù mistica e artistica io ampliavo il mio palato e le mie conoscenze. Non so cosa lui pensasse di me, ma io oramai ero preso senza via d’uscita. Voglio dire, quando si arriva ad andare in vacanza a Bordeaux, si è chiaramente imboccata una china irrimediabile.

A proposito. Museo del Vino: ne ho visti due. Quello di Barolo: semplicemente meraviglioso, ludico, interattivo, una vera Disneyland enologica. Ci mostra la storia del vino e lo fa in un contesto principesco (un castello…in mezzo alle langhe…sigh). E poi ho visto quello di Bordeaux: ENCICLOPEDICO. In una architettura che ricorda un gigantesco decanter c’è tutto (o quasi) quello che si può immaginare sul vino. E, in effetti, più che un museo (termine che ha il sapore di teche polverose e mummie dimenticate), è un “laboratorio” (non volevo scrivere workshop ma ora l’ho fatto, seppur tra parentesi) dove studiare, assaggiare, capire. 

Già. Un laboratorio. Perché spingendosi nelle degustazioni e nello studio il vino diventa, da mistica, scienza. Improvvisamente tutto si fa chiaro. Quella sostanza meravigliosa non è un regalo degli Dei (o della Natura, per i bioamanti) ma il risultato di precisi processi biologici e chimici, governati dalla sapiente mano umana. Poi subentra il marketing…e i degustatori. Ma non divaghiamo: si spalancano abissi e arrivano le vertigini nello scorgere quanto è profondo e complesso il mondo del vino. E improvvisamente il prestigiatore/sommelier, con il suo gesticolare da bramino e il suo complesso eloquio fatto di “sentori e terroir”, ci sembra più un bravo illusionista che non un reale stregone.

Arrivato a questo punto ho avuto una specie di lampo: più che degustare, mi piaceva gustare. E grazie al piffero, vi sento esclamare in coro.

Allora ecco che il vino, già alimento, poi arte e quindi scienza…diventa piacere. Un piacere enorme, fatto di colori meravigliosi, profumi indescrivibili e storie meravigliose. Perchè, infine, vuoi sapere tutto. Vuoi il racconto della terra e dei vigneti, del tempo che faceva in quella annata, della cantina e delle botti in cui il vino è stato. Vuoi capire come il mondo si sia infilato nella bottiglia.

E, in tutto questo piacere fatto di storie e sensazioni…ancora non l’hai bevuto. Insomma ecco che il vino dice: ora hai capito cosa sono? Sono una ESPERIENZA. E ha ragione. Per Bacco, se ha ragione.


mercoledì 1 dicembre 2021

lunedì 29 novembre 2021

Arrigo Cervetto – Danilo Montaldi. Storia di una amicizia 1

 


Di Danilo Montaldi sono stati messi in risalto gli stretti rapporti con Socialisme ou Barbarie, con il Partito comunista internazionalista di Onorato Damen, con Raniero Panzieri e il gruppo nascente dei Quaderni Rossi. Nessuno, né Merli, né Mangano, tantomeno Fofi, giusto per citare i più noti studiosi che si sono occupati dell'intellettuale cremonese, ha mai speso una parola sul rapporto che ci fu – e strettissimo – fra Montaldi e Arrigo Cervetto. Una lacuna che la pubblicazione del carteggio fra i due rende ora possibile colmare.


Giorgio Amico

Arrigo Cervetto – Danilo Montaldi. Storia di una amicizia 1


Nello stesso anno Montaldi stringe i primi contatti con i Gruppi anarchici di Azione proletaria. Il 25 gennaio 1954 Pier Carlo Masini relaziona ai compagni dei Gaap in merito ad una riunione tenutasi a Milano per dare corso al progetto di fare del mensile «Prometeo» del Partito comunista internazionale l'organo teorico comune della sinistra rivoluzionaria:

«Alla riunione erano presenti, oltre al sottoscritto, Damen, tre giovani cremonesi del PCInt,, Bellini e Galli. Si trattava quindi di una riunione allargata, non ancora di una riunione della Redazione. […] Dei tre giovani di Cremona, Montaldi (che tuttavia parò poco e andò via prima della fine) è il più vicino a noi. […] Montaldi, come sai, si occupa già della diffusione del giornale». (Masini a Vinazza. In A. Cervetto, Opere 24, Milano, Edizioni Lotta comunista, 2019, p. 10).

Dal resoconto di Masini emergono due elementi di grande interesse: l'atteggiamento, già sottolineato da altri, di estrema cautela tenuto da Montaldi nelle riunioni pubbliche, ed il fatto, del tutto sottovaluto finora, che mentre collabora con gli internazionalisti di Damen, il giovane militante cremonese funge anche da punto di riferimento a Cremona per i Gaap diffondendone in città il giornale «l'Impulso».

Ma Montaldi non si limita a questo, egli instaura uno stretto rapporto con il quasi coetaneo Arrigo Cervetto, caratterizzato da reciproca simpatia e grande amicizia. Montaldi e Cervetto concordano insieme un lavoro di ricerca sulle prime forme di opposizione in Russia. In particolare Montaldi traduce la Piattaforma Smirnov-Sapronov del 1923, mentre Cervetto lavora sul libro della Kollontaj « L'opposizione operaia in Russia».

«Sto vedendo – scrive Montaldi – il modo di tradurre estratti dalla “Piattaforma Smirnov-Sapronov” secondo quanto avevamo concordato insieme. È un lavoro interessante, questo che si può fare. Parlare prima delle Opposizioni nel partito russo, poi delle Opposizioni nell'Internazionalew: Pannekoek, Gorter, Rühle. Questo lavoro andrebbe fatto soprattutto con ampie citazioni dei testi e con brevi note di accompagnamento. Lefort nel suo articolo sui Temps Modernes cita due altri gruppi di opposizione che Trotsky stesso avrebbe contribuito a reprimere: il “Gruppo Operaio” e “Verità Operaia”. Sarebbe interessante poter inserire nel lavoro che stiamo facendo un'analisi anche breve di questi gruppi minori. Non puoi trovare del materiale […] magari sulla stampa anarchica». (Montaldi a Cervetto, lettera del 28 maggio 1954. In A. Cervetto, cit., p. 57)

Oltre al riferimento a Claude Lefort, esponente di punta dei socialbarbari, è interessante qui notare come Montaldi lavori sui fattori che già dall'inizio degli anni '20 pongono le basi in URSS poi della controrivoluzione staliniana. Montaldi non ha preclusioni ideologiche, tanto da cercare appigli nella stampa anarchica a partire proprio da “L'Impulso” che sta portando avanti una innovativa sintesi del pensiero marxista e di quello libertario. Cervetto risponderà con una lunga e articolata lettera in cui non solo accetta, ma addirittura rilancia la proposta di Montaldi ampliandone gli ambiti ad un lavoro « per fare una vera storia del Pcb (e della rivoluzione russa e della controrivoluzione stalinista) in confutazione di quella “ufficiale”». La chiusura della lettera rivela la profonda stima che lo lega al compagno cremonese e al gruppo di giovani riuniti attorno a lui:

« A mia conoscenza per le città che ho girato, avete l'unico gruppo superiore della media e ciò mi ha fatto piacere. Lo dico disinteressatamente. Anzi spero di poter col tempo essere di nuovo a Cremona perché ho trovato basi serie e interessanti di discussione abbastanza elevata. Dunque io credo che a Cremona si possa fare questo lavoro collettivo. E in seguito si possa fare anche un convegno di studi delle rispettive organizzazioni. Vedremo.» (Cervetto a Montaldi, lettera del 1 giugno 1954. In A. Cervetto, Opere, 24, cit., p. 59)

Proposta immediatamente accettata con entusiasmo da Montaldi con una lettera a Cervetto del 7 giugno che evidenzia anche il rapporto di amicizia e di reciproca stima creatosi fra i due giovani rivoluzionari:

«Caro Cervetto,

per quanto interessa Toller, appena riceverò il libro da Vinazza, cercherò di scrivere qualcosa per Prometeo con del materiale inedito in Italia (Poesie, lettere, ecc.). ti sarei grato se mi potessi indicare qualche saggio su riviste (escluso il Politecnico).

Per l'opposizione Smirnov-Sapronov so portando a termine la traduzione. Si tratta di un opuscolo di ottanta pagine, che bisogna ridurre moltissimo, e questo non è facile. È già pronto il tuo saggio sull' “Opposizione operaia” ? Me ne potresti mandare una copia? Mi servirebbe come indicazione. Mi interesserò per le collezioni di riviste francesi. Intanto aspetto la tua bibliografia e a giorni pereparerò anch'io per te una cosa del genere, ma te lo dico subito, non ho molto. Siono d'accordo completamente su quanto concerne il lavoro per una storia del Pcb.

Anche i compagni sono d'accordo. Bottaioli ci potrebbe aiutare. (…)

Allo stato attuale delle cose bisogna coordinare i nostri sforzi. (…) A Cremona c'è qiualcuno che potrebbe fare altre cose. Vedi tu nell'ambuente dei GAAP le possibilità che ci sono per un lavoro in équipe. Scrivi presto. Ti scriverò ancora.

Saluti ai compagni.

Fraternamente» (Ivi, pp. 65-6)






Franco Astengo, Bordiga nell'insensibilità della indifferenza


 

Franco Astengo

Bordiga nell'insensibilità della indifferenza


Bordiga, il fascismo e la guerra, 1926-1944”, pubblicato da Massari: un testo nel quale Giorgio Amico, storico attento delle diverse “derivazioni comuniste” del XX secolo, affronta il tema dell’atteggiamento tenuto dal fondatore del P.C.d’I verso il fascismo e la guerra.

Un testo molto documentato che richiama molti degli autori che nel tempo si sono cimentati con questo passaggio storico interrogandosi sulla sorta di “insensibilità dell’indifferenza” che il primo segretario del Partito Comunista tenne nei confronti delle tragedie di quello scorcio di secolo.

Sono molti gli episodi che colpiscono nel corso della lettura e non vale la pena richiamarli in questa sede.

E’ il caso invece di soffermarsi su di una operazione intellettuale che percorre, quasi come filo rosso, tutto il lavoro di Amico e che può essere raccolta nella frase finale che l’autore parafrasa traendola dal linguaggio hollywoodiano : l’Humphrey Bogart della “è la condizione umana bellezza” (”é la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente: “Quarto Potere” regia di Orson Welles, 1941).

Non si tratta però di una semplice presa d’atto della realtà da affrontare come tale.

Siamo invece dentro nella storia di Bordiga ad una visione nella quale la condizione umana e la teoria politica sono portate dentro l’estremo di una rigida visione del determinismo storico.

Piuttosto ci si dovrebbe chiedere : ci troviamo nella condizione umana o nella miseria della condizione umana?

Il libro ci conduce verso questo interrogativo: attorno all’ing. Bordiga che lascia (momentaneamente) la politica perché un “suo”disegno è stato sconfitto si stava muovendo l’epopea di un secolo.

In quei decenni di esercizio da parte di Bordiga dell’assenteismo dell’indifferenza si consuma una crisi epocale del capitalismo, sale al potere Hitler mentre Stalin vince la lotta per il potere, scoppia la Guerra Civile Spagnola, si avvia la Shoah e il tutto, alla fine, è ricoperto dal ferro e dal fuoco del più esteso conflitto della storia.

Si staglia nell’immaginario collettivo e nella quotidianità della vita lo scontro tra il bene e il male: anzi tra il “Bene” e il “Male” con le maiuscole ben evidenziate.

Il Bene e il Male però non interessano :non c’è spazio però per prendere partito ; tutto è putrido e ci penserà lo scorrere del fiume mentre siamo fermi sulla sua riva a presentarci i cadaveri di coloro che il fato ha deciso di far soccombere.

Non traspare neppure il dilemma di tanti operai rosi dal dubbio: “sarà necessario perdere la guerra, tra lutti e rovine, per togliere di mezzo il fascismo ? E far così trionfare quello che si pensava potesse essere il Bene”.

Nel suo lavoro Amico non passa il guado della fine della guerra, della ripresa dell’attività politica di Bordiga che rimarrà chiuso soltanto all’interno dello stesso concetto che aveva accompagnato il suo “star fuori” quando l’esprimersi avrebbe comportato il pericolo della reprimenda da parte del delegato di polizia.

Bordiga concederà una sola intervista televisiva, per la trasmissione “Nascita di una Dittatura”: lo farà soltanto perché l’autore, Sergio Zavoli è stato il commentatore del suo amato giro d’Italia nel “Processo alla Tappa”.

Ecco:la storia della prima fase di vita del comunismo italiano sembra scorrere tra due poli: l’interrogarsi sul dilemma tra “pessimismo dell’intelligenza e “ottimismo della volontà” e l’ “insensibilità dell’indifferenza”.

Entrambe le opzioni finiranno sconfitte, come sempre o quasi, dal trionfo della “Realpolitik” e dal gioco sottile dell’autonomia del politico portato da chi, in quel momento, sapeva parlare la “langue russe”.

Ma questa sarebbe un’altra storia.


(Da: sinistra savonese.it)


venerdì 19 novembre 2021

Razzismo e schiavitù

 


Un sistema come quello schiavistico non poteva non creare a livello di massa una ideologia che in qualche modo ne fornisse una giustificazione e allo stesso tempo servisse alle classi dominanti per consolidare il loro potere. Questa ideologia fu la convinzione diffusa della inferiorità naturale del nero e della sua pericolosità sociale. Una convinzione destinata a sopravvivere alla fine dello stesso sistema economico che l'aveva creata.


Giorgio Amico

Razzismo e schiavitù


Fin dalle prime società organizzate, pensiamo agli antichi Egizi o ai Greci, la schiavitù è sempre stata accettata come un aspetto naturale e normale dell'esistenza umana, però quasi mai, nella storia tale istituzione fu fatta poggiare su basi razziali. In genere si diventava schiavi in quanto prigionieri di guerra, o frutto di razzie, addirittura per debiti. Il colore della pelle c'entrava comunque poco.

La schiavitù che prese forma nel Nuovo mondo fu invece fin dall'inizio fondata su fattori etnici. A partire dal XVII secolo la quasi totalità degli schiavi delle Americhe erano africani, e ciò comportò che la schiavitù diventasse di fatto una condizione basata sulla razza. La presa del razzismo fu di conseguenza più forte in quelle nazioni (Inghilterra, Francia, Olanda ) che più direttamente parteciparono alla trasformazione del mondo moderno e alla nascita della società capitalistica. Il razzismo moderno, inteso come ideologia di massa e non come presunta teoria scientifica, è la risultante di un insieme di profondi mutamenti della società e di conseguenza anche della psicologia delle masse. Con il nascere del capitalismo e il tramonto progressivo dell'agricoltura e dell'artigianato a favore dello sviluppo dell'industria muta radicalmente il modo di lavorare e quindi di vivere. Nonostante si pensi il contrario, nel mondo moderno si lavora di più, con ritmi più intensi, senza i lunghi periodi di riposo assicurati dalle numerosissime festività religiose tipiche del mondo medievale. Questo nuovo e totalizzante modo di lavorare determina la formazione di un nuovo tipo di lavoratore: uomini e donne totalmente privi di controllo sui processi produttivi e dunque sulla loro stessa vita, in termini marxisti totalmente alienati, professionalmente e socialmente insoddisfatti. Il sistema capitalistico richiede per il suo stesso funzionamento la costante repressione di impulsi naturali e la subordinazione alle logiche della produzione. Come ben descritto nelle opere di Foucault nei secoli di transizione, XVI e XVII , si modifica progressivamente la psicologia umana. Il singolo impara fin dai primi anni a reprimere i propri istinti più naturali, a sublimarli in altro modo. E ciò rende il bambino moderno diversissimo da quello molto più libero da condizionamenti delle società precedenti.

Nei suoi lavori Rawick si rifà alla situazione creatasi in Inghilterra nei secoli XVI e XVII, in cui le classi superiori erano alle prese con la crisi della società contadina tradizionale, una economia non di mercato in cui l'agricoltore era abituato a lavorare solo quel tanto che gli era sufficiente per vivere o per i bisogni della collettività tipo la manutenzione delle strade, e ostile a considerare il lavoro solo in termini monetari. Da qui la protesta dei ceti dominanti contro i "senza padrone" che avevano avuto una volta un posto nell'ordinamento sociale e che ora invece girovagavano elemosinando, rubando, commettendo violenze. Un popolo di ex contadini e di artigiani impoveriti destinati a diventare un enorme serbatoio di manodopera non specializzata, disposta a lavorare per salari di sussistenza. Questo mutamento profondo che di fatto disumanizzava sempre più l'uomo, allontanandolo dai suoi simili e costringendolo via via a pensare solo in termini di guadagno, ebbe effetti profondi anche sul modo di pensare delle masse. In questo contesto l'incontro con l'altro, rappresentato dall'africano, ebbe effetti dirompenti e di lunga durata.

Le reazioni estreme degli europei all'incontro con gli africani possono essere davvero comprese se si considera come gli abitanti dell'Africa Occidentale di quel periodo fossero, sotto numerosi aspetti, molto simili a ciò che gli europei erano stati fino a non molto tempo prima, portatori di una visione della vita ormai considerata in Europa tipica di periodi primitivi e barbari. Nasce con lo sfruttamento delle Americhe e dell'Africa, di cui la schiavitù rappresenta uno dei principali aspetti, il concetto della missione civilizzatrice dell'Occidente che Kipling definirà a fine Ottocento “il fardello dell'uomo bianco”. Ma se il bianco è portatore di civiltà, il nero non può che essere barbaro e dunque inferiore. Il razzismo diventa così un modo di pensare e soprattutto una sorta di giustificazione del fenomeno, questo si barbaro, della tratta. I mercanti di schiavi, a cui addirittura vengono eretti monumenti per il benessere procurato alla comunità con il loro commercio, si sentono espressione di una società che non solo trova nulla di negativo in ciò che fanno, ma che, proprio in base alla concezione del nero come un essere subumano, considera la schiavitù un fattore oggettivo di civilizzazione.

Le economie africane erano in larga parte economie agricole di sussistenza con rapporti di lavoro consuetudinari. Il lavoro era profondamente intriso di sacralità, scandito da pratiche cerimoniali che lo rendevano indistinguibile dalla religione. Come per il contadino medievale, lavorare la terra seguendo il ciclo delle stagioni era partecipare alla vita del cosmo e dunque compiere un atto che avvicinava al divino. Per i bianchi questo modo di pensare era ormai incomprensibile. Lo scarso interesse per il denaro veniva visto come un segno di infantilismo, di qui l'idea del nero come un eterno bambino, necessitante anche in età adulta di una autorità capace di disciplinarne le tendenze distruttive. In realtà, l'africano era tutto meno che un anarchico, la comunità tribale era strettamente coesa quasi una sorta di famiglia allargata dove gli anziani svolgevano un ruolo centrale. Altro punto era l'atteggiamento dell'africano nei confronti della natura e delle forze, anche immateriali, che essa sprigiona. Centrali erano i miti e i riti relativi alla fertilità. Ne derivava un atteggiamento verso la sessualità, soprattutto femminile, relativamente poco repressivo. Un atteggiamento scandaloso per gli inglesi che lo consideravano come segno di una promiscuità animalesca e della totale mancanza di senso morale. Anche questo contribuiva a rafforzare l'idea di una superiorità etnica del bianco rispetto al nero, anche se, va detto, a livello inconscio questa visione del nero sessualmente libero scatenava fantasie e desideri che dovevano essere repressi e il razzismo si prestava bene anche a questa funzione.

Le tensioni psicologiche create dal guardare ai neri da un lato come come bestie da lavoro o da riproduzione e dall'altro dal dover ammettere che erano comunque esseri umani, erano troppo grandi per una società fondata sulle piantagioni. L'unica soluzione stava nella rimozione del problema, accettando come un dato oggettivo, addirittura frutto della volontà divina, l'inferiorità degli uomini di colore. Ciò rendeva impossibile anche l'idea che neri e bianchi potessero vivere insieme su un piano di parità. In una realtà come gli Stati del Sud dove la presenza dei neri era molto forte, tutto questo si traduceva nell'idea che la sottomissione dei neri fosse fondamentale per l'esistenza stessa della società e della civiltà. Solo il mantenimento di “corretti rapporti” fra le “razze” potevano garantire l'ordine sociale. Ideologia di una classe dominante fatta di grandi proprietari di piantagioni, questa concezione era condivisa dalle classi subalterne in base ad una logica perversa per cui anche l'ultimo dei “poveri”, se di pelle bianca era solo per questo superiore a un nero. Il razzismo dunque come un pilastro della società sudista, funzionante come un collante sociale: nell'atteggiamento da tenere verso i neri non esistevano differenze di classe, l'interesse del grande proprietario e quello del proletario erano gli stessi. Da qui la difesa strenua dell'istituto della schiavitù.

Siamo di fronte ad una specificità tipica degli Stati del Sud. Nelle Indie Occidentali, dove gli atteggiamenti razzisti non erano certo inferiori, i bianchi poterono comunque accettare pacificamente l'abolizione della schiavitù poiché essi, di fatto, non avrebbero dovuto vivere in mezzo ad un popolazione di neri liberi. Nelle isole caraibiche i bianchi erano pochi, assai diffusa era la figura del proprietario assenteista che trascorreva la sua vita a Londra e mai avrebbe pensato di stabilirsi nei Caraibi. Negli Stati Uniti l'abolizione della schiavitù avrebbe richiesto invece l'accettazione della coesistenza. di neri e bianchi nello stesso territorio, condizione inaccettabile per la maggioranza dei bianchi . Inoltre i piantatori del Sud non volevano rinunciare allo stile di vita. aristocratico e raffinato che li contrapponeva ai gretti industriali del Nord. Certo, I piantatori avrebbero potuto impiegare gli schiavi nell'industria nascente, cosa che un piccolo numero di essi fece, ma la maggior parte non si mosse in quella direzione, poiché vedeva nell'industria una minaccia allo stile di vita tipico del Sud.

Razzismo e lotta di classe

Dopo la guerra civile e la fine schiavitù l'inferiorità civile dei neri, codificata per legge e imposta con le armi dal Ku Klux Klan, diventerà negli Stati del Sud lo strumento per tenere sotto controllo una popolazione di colore il cui tasso di natalità era più alto di quello dei bianchi e che dunque tendenzialmente rischiava di divenire maggioranza. La libertà formale non mutò in meglio la situazione dei neri, passati da schiavi a salariati. In molti casi addirittura la peggiorò.

D'altronde, gli stessi Stati Uniti erano nati nel segno della contraddizione. Figli di una Costituzione avanzatissima i cui estensori erano però in larghissima parte proprietari di schiavi. Gli Stati Uniti nascono nel segno sia della libertà in forme sconosciute in Europa se non nel breve periodo giacobino in Francia, sia della permanente esclusione dal contratto sociale dei neri e dei nativi americani. La cosa non fu senza conseguenze anche per quanto atteneva i rapporti fra le classi. Il movimento operaio nascerà “bianco” e, come per i “poveri bianchi” del Sud, anche l'ultimo degli immigrati appena sbarcato sul suolo americano si sentirà, proprio perché bianco, comunque superiore alla popolazione nera che pure abitava quel paese da secoli. La divisione fra bianchi e neri diventerà l'arma principale di divisione dei proletari ed uno dei motivi per cui il socialismo non attecchirà mai, neppure nei momenti in cui più acceso era lo scontro sociale, negli strati profondi della classe operaia.


1977