mercoledì 30 marzo 2022

ANTONIO FLAMMINIO Oggetti pittorici per la ginnastica mentale 1974



ANTONIO FLAMMINIO

Oggetti pittorici per la ginnastica mentale
1974
a cura di Sandro Ricaldone
Entr’acte, 31 marzo-29 aprile 2022


Con la seconda mostra del 2022, Entr’acte propone una selezione di lavori, totalmente inediti, di Antonio Flamminio che appartengono al suo “periodo razionale”, che culminerà nel 1979 con l’allestimento ideato per “Arte e scienza”, manifestazione inclusa nel ciclo di mostre coordinato da Guido Giubbini al Teatro del Falcone in preparazione dell’apertura, avvenuta nel 1985 del Museo d’arte contemporanea di Villa Croce.

Si tratta di opere che accoglievano la lezione dell’astrattismo geometrico, praticato a Genova, negli anni ’60 da autori di rilevanza nazionale come Rocco Borella, Gianfranco Zappettini e gli esponenti di Tempo 3 (gruppo composto da Bargoni, Carreri, Esposto, Stirone, oltre che dal fiorentino Guarneri), in una versione del tutto personale che fondava l’elaborazione della forma su rapporti predeterminati e la modulazione del colore su formulazioni matematiche elementari. A queste modalità costruttive Flamminio associava, com’era d’altronde nello spirito dell’epoca, un intento etico, intrinseco per un verso alla stessa dinamica progettuale, ma connotato socialmente, come si evince dallo stesso titolo del ciclo: “Oggetti pittorici per la ginnastica mentale”.

In sostanza l’artista ricercava una prassi compositiva che consentisse allo spettatore di “avvicinare” e “possedere” l’oggetto-quadro mediante la percezione dei criteri razionali in base ai quali era strutturato, resi direttamente avvertibili all’osservazione, consentendo in tal guisa una fruizione “democratica”, capace di aggirare lo scoglio della soggezione imposta da retrostanti componenti culturali complesse.

“Il fruitore – annotava Flamminio in uno scritto coevo – può, attraverso la scoperta dell’impianto costruttivo, percorrere a ritroso l’esperienza dell’autore e giungere così al cuore concettuale dell’opera, incontrando sulla sua strada l’attraente ostacolo del bello artistico”.

Il compito dell’artista, secondo il pensiero di Flamminio – esplicitato, in anni più vicini, in lavori che appartengono al canone postmoderno, senza però deflettere dal proposito originariamente dichiarato – consiste nel realizzare oggetti che “analogamente a quelli di utilità fisica (abiti, mobili, attrezzi)” risultino idonei a stimolare l’esercizio mentale del pubblico, “piuttosto che provvedere soltanto a consumare, edonisticamente poco coinvolti, come fanciulli, la propria necessità di giocare facendo Arte”.

Ma, al di là della “funzione democratica”, o – se si vuole – pedagogica, intesa a proporre un linguaggio estetico comprensibile a chiunque voglia riflessivamente accostarvisi, nelle tele di Flamminio si innesta una funzione immaginativa che – pur muovendo da un alfabeto essenziale, fatto di proporzioni, di bande verticali e orizzontali, di rari elementi obliqui, di graduazioni cromatiche attentamente governate e sovvertito da tratti curvilinei talora minimali, altrove dominanti – perviene ad esiti di quieta felicità visiva, in costante trasformazione. (s.r.)


giovedì 24 marzo 2022

Gli italiani di Crimea

 

   (Da Wikipedia)

Gli italiani di Crimea

La presenza di popolazioni italiane in Ucraina e Crimea  ha una storia che risale ai tempi della Repubblica di Genova e di Venezia.

Un flusso migratorio italiano giunse a Kerč' all'inizio dell'Ottocento. Nel 1820 in città abitavano circa 30 famiglie italiane provenienti da varie regioni. Il porto di Kerč' era regolarmente frequentato da navi italiane ed era stato aperto anche un consolato del Regno di Sardegna. Uno dei viceconsoli, Antonio Felice Garibaldi, era lo zio di Giuseppe Garibaldi.

Fra il 1820 e la fine del secolo giunsero in Crimea, nel territorio di Kerč', emigranti italiani provenienti soprattutto dalle località pugliesi di Trani, Bisceglie e Molfetta, allettati dalla promessa di buoni guadagni e dalla fertilità delle terre e dalla pescosità dei mari. Erano soprattutto agricoltori, uomini di mare (pescatori, commercianti, capitani di lungo corso) e addetti alla cantieristica navale. La città di Kerč si trova infatti sull'omonimo stretto che collega il Mar Nero col Mar d'Azov. Presto si aggiunse un'emigrazione più qualificata, con architetti, notai, medici, ingegneri e artisti.

Gli italiani si diffusero anche a Feodosia (l'antica colonia genovese di Caffa), Simferopoli, Odessa, Mariupol e in alcuni altri porti russi e ucraini del Mar Nero, soprattutto a Novorossijsk e Batumi.

Secondo il Comitato statale ucraino per le nazionalità, nel 1897 gli Italiani sarebbero stati l'1,8% della popolazione della provincia di Kerč', percentuale passata al 2% nel 1921; alcune fonti parlano specificatamente di tremila o cinquemila persone.

Alla vigilia della prima guerra mondiale a Kerč' c'era una scuola elementare italiana, una biblioteca, una sala riunioni, un club e una società cooperativa, luoghi d'incontro per la comunità unita e agiata. Il giornale locale Kerčenskij Rabocij in quel periodo pubblicava regolarmente articoli in lingua italiana.

Con l'avvento del comunismo, alcune famiglie fuggirono in Italia via Costantinopoli, gli altri furono perseguitati con l'accusa di simpatizzare per il fascismo.

A metà degli anni venti, gli emigrati italiani antifascisti rifugiati in Unione Sovietica furono inviati a Kerč' per "rieducare" la minoranza italiana: furono loro a decidere la chiusura della chiesa, a sostituire i maestri di scuola con personale politicamente più organico alle direttive del partito, a infiltrarsi nella comunità italiana per coglierne i malumori e riferire alla polizia segreta. Nel quadro della collettivizzazione forzata delle campagne, gli italiani furono obbligati a creare il kolchoz "Sacco e Vanzetti"; coloro che non vollero farne parte furono obbligati ad andarsene, lasciando ogni avere, o furono arrestati. A seguito di ciò, nel censimento del 1933 la percentuale degli italiani risultava scesa all'1,3% della popolazione della provincia di Kerč.

Infine, tra il 1935 e il 1938, le purghe staliniane fecero sparire nel nulla molti italiani, arrestati con l'accusa formale di spionaggio in favore dell'Italia e di attività controrivoluzionarie.

Nel 1942, a causa dell'avanzamento della Wehrmacht in Ucraina e in Crimea, le minoranze nazionali presenti sul territorio finirono deportate con l'accusa di collaborazionismo, seguendo il destino della minoranza tedesca già deportata nell'agosto 1941 durante l'Operazione Barbarossa. La deportazione della minoranza italiana iniziò il 29 gennaio 1942 e chi era sfuggito al primo rastrellamento fu catturato e deportato l'8 e il 10 febbraio 1942: l'intera comunità, compresi i rifugiati antifascisti che si erano stabiliti a Kerč, venne radunata e costretta a mettersi in viaggio verso i Gulag. A ciascuno di loro fu permesso di portare con sé non più di 8 chilogrammi di bagaglio.

Il convoglio attraversò i territori di Russia, Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan,Uzbekistan e Kazakistan: via mare da Kerč' a Novorossijsk, poi via terra fino a Baku, fu quindi attraversato il Mar Caspio fino a Krasnovodsk e infine, nuovamente sui binari, i deportati giunsero sino ad Atbasar, per essere poi dispersi nella steppa tra Akmolinsk e Karaganda, dove furono accolti da temperature fra i 30 e i 40 gradi sotto zero, che li decimarono. Lo stretto di Kerč e il Mar Caspio furono attraversati con navi sulle quali gli italiani erano confinati nella stiva; una di esse fu affondata nel corso di un bombardamento tedesco e tutti i deportati a bordo perirono. A causa della lentezza con cui procedevano i convogli, il viaggio verso il Kazakistan durò quasi due mesi. Durante il viaggio morirono centinaia di deportati e fra loro tanti bambini.

Scrisse Giulia Giacchetti Boico:

«Tutta la strada da Kerč' al Kazakistan è irrigata di lacrime e di sangue dei deportati o costellata dai nostri morti, non hanno né tombe né croci»

Una volta giunti a destinazione, gli italiani furono sottoposti a processi sommari e condannati a pene detentive fino a 10 anni di prigionia da scontare nei campi di lavoro, dove quindi restarono rinchiusi per diversi anni dopo la fine della guerra. Nei Gulag la comunità italiana fu quasi annientata dalla fame, dal freddo, dalle malattie e dai lavori forzati. Dei circa 1.500 deportati censiti negli anni '90, dopo la dissoluzione dell'URSS, riuscirono a tornare in Crimea solo in 78 (dati ufficiali del ministero dell'Interno sovietico). Considerando che alcune decine di italiani - per lo più vedove con bambini piccoli - non ce la fecero ad affrontare il viaggio di ritorno e quindi si stabilirono nelle regioni sovietiche dell'Asia Centrale, si calcola che i sopravvissuti, in totale, non furono più dei 10 per cento dei deportati.

Una volta tornati a Kerč, molti degli italiani celarono la loro origine etnica e alcuni ottennero la russificazione del nome. Ma all'interno della comunità le famiglie hanno continuato a incontrarsi e hanno tramandato la lingua italiana ai figli e ai nipoti. I tragici eventi hanno instillato nei sopravvissuti alla deportazione il timore di essere riconosciuti come italiani tanto che anche dopo la fine dell'Unione Sovietica molti testimoni diretti della deportazione erano restii a raccontare la propria esperienza per paura di discriminazioni o ritorsioni.

La popolazione degli italiani di Crimea ammonta a circa trecento persone, anche se un censimento ufficiale non è mai stato effettuato. La maggior parte di loro risiede a Kerč, dove nel 2008 è stata costituita l'associazione "C.E.R.K.I.O." (Comunità degli Emigrati in Regione di Crimea - Italiani di Origine)

A seguito dell'occupazione militare e annessione della Crimea alla Russia nel 2014 l'interlocutore dell'associazione Cerkio è divenuto il governo della Crimea e in seconda battuta il governo russo. Il 21 aprile 2014 la presidenza russa ha emanato un decreto per il riconoscimento delle minoranze crimeane perseguitate dallo stalinismo, omettendo però di includere quella italiana. A questa mancanza è stato posto rimedio il 12 settembre 2015.


(Fonte: Wikipedia, consultata il 23 marzo 2022)


mercoledì 23 marzo 2022

Il significato della guerra

 


martedì 22 marzo 2022

Sarà un sorriso che ci salverà

 


Sarà un sorriso che ci salverà

Cosa c'è di più caldo e vivo del legno? Certo la creta è malleabile e lavorarla ha qualcosa di magico, come rimpastare il cosmo tanto che qualcuno ci scrisse su un trattato bellissimo di antropologia, “La vasaia gelosa”, che ancora ci dice molto sul mito.

Ma il legno ha il calore di un abbraccio e la forza della vita. Collodi ci ha svelato cosa può nascondersi in un umilissimo ciocco e, nonostante siamo tutti diventati grandi e un poco cinici, non lo abbiamo mai dimenticato.

Dopo aver letto Pinocchio lavorare il legno ha per noi qualcosa di magico. Ma, come nella favole la magia non riesce sempre. Perché l'incantesimo si compia e il pezzo di legno prenda vita non occorre una formula magica, ma alcune doti assai rare, difficili da trovare riunite insieme: un cuore di bambino capace di cogliere la magia profonda della vita, due occhi da poeta capaci di vedere la bellezza dove gli altri vedono solo materia, due mani di artista capaci di fondere magia e bellezza e dar vita a qualcosa che non solo prima non c'era ma che sa anche darci emozioni profonde..

Per questo ogni mostra di Bobo Pernettaz è un approdare nel mondo della fiaba, un attraversare, come Alice, lo specchio, alla ricerca di un altrove dove si nasconde il bambino che siamo stati e che la vita ci ha reso invisibile se non estraneo.

Non ci sono evasioni possibili dal mondo in cui ci è toccato vivere, ma nessuno può impedirci di sognarne un altro, più innocente e umano. Un'isola che non c'è ma di cui le opere di Bobo ci disegnano la mappa, affascinante come un arcobaleno dopo una giornata di pioggia.

giovedì 17 marzo 2022

Chi giustifica e chi no. Quando il silenzio diventa complicità.


"Impegno per lo stop ai combattimenti e ripristino del diritto internazionale" e "battere le ragioni della guerra aperta dalla Russia". Così il capo dello Stato Sergio Mattarella nel giorno in cui l'Italia commemora il 161° anniversario del raggiungimento dell'unità del Paese. "La indivisibilità della condizione umana ci deve spingere oggi, con fermezza, insieme agli altri paesi che condividono i valori democratici, ad arginare e a battere le ragioni della guerra aperta dalla Federazione Russa al centro dell'Europa".(Da La Repubblica di oggi)

"L’invasione russa è il punto di arrivo di tensioni e polemiche, alle volte molto violente, non solo fra Stati Uniti e Federazione russa, ma specificamente fra l’Unione Europea e la Federazione russa, in particolare da quando sono entrati nell’Unione Europea (e nella Nato) i Paesi dell’Est. È essenziale sottolineare inoltre la giustificata preoccupazione della Russia per il proliferare della presenza della Nato nei Paesi dell’Est" (Comunicato del Presidente nazionale dell'ANPI)

Dopo questa dichiarazione del Capo dello Stato, forse è venuto il momento che il presidente nazionale dell'ANPI dichiari pubblicamente che il suo comunicato è stato un errore. Non si può andare in piazza a manifestare per la pace e allo stesso tempo considerare giustificate le ragioni addotte dall'aggressore per scatenate una guerra criminale contro un popolo intero. Mi stupisce e addolora il silenzio di persone che stimo e che sono iscritte e attive nell'ANPI. Possibile che nessuna di queste noti la contraddizione e apra un dibattito interno all'ANPI? O si è davvero perso ogni minimo senso critico e, come ai tempi di Togliatti e Stalin, la linea è ancora quella del "non capisco ma mi adeguo"?

Giorgio Amico

martedì 15 marzo 2022

Danilo Montaldi e la centralità del punto di vista operaio

 


Giorgio Amico

Danilo Montaldi e la centralità del punto di vista operaio


Il rapporto instaurato con i compagni francesi di Socialisme ou Barbarie è alla base del contributo più interessante di Montaldi alla stampa internazionalista, la traduzione e la pubblicazione a puntate, a partire dal numero di febbraio-marzo 1954 di Battaglia comunista, del saggio «L'operaio americano» di Paul Romano, ripreso dalla versione apparsa sui primi numeri della rivista francese. Il testo è importante in quanto narrazione dall'interno della fabbrica del vissuto quotidiano di un operaio ed è da considerarsi uno dei fondamenti della futura corrente operaista. Particolarmente significativa l'introduzione di Montaldi proprio perché con estrema chiarezza, in maniera quasi didascalica, egli mette a fuoco quello stretto rapporto tra ricerca militante sul campo e intervento politico in fabbrica che sarà uno dei pilastri della conricerca:

« Il documento di cui iniziamo la pubblicazione, è stato scritto da Paul Romano, un operaio americano. Esiste un'America di cui nessuno ci parla, e che va ricercata al di là del mito del frigorifero, dell'automobile e della televisione, al di là del mito del benessere per tutti. È l'America delle fabbriche: un'America sconosciuta, la cui storia è fatta di scioperi, di sfruttamento e di miseria proletaria. I protagonisti di questa storia sono gli operai, e Paul Romano è un operaio che scrive sulla vita degli operai. Non è casuale che un documento di così profondo interesse ci venga dal Paese più altamente industrializzato del mondo, a smentire la menzogna secondo la quale il proletariato americano non ha una coscienza di classe. [...] Tanto L'operaio americano che il giornale «Corrispondence» esprimono con molta forza e profondità questa idea, dal movimento marxista praticamente dimenticata dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, che l'operaio è innanzi tutto un essere che vive nella produzione e nella fabbrica capitalistica prima di essere l'aderente di un partito, un militante della rivoluzione o il suddito di un futuro potere socialista; e che è nella produzione che si forma tanto la sua rivolta contro lo sfruttamento quanto la sua capacità di costruire un tipo superiore di società, la sua solidarietà di classe con gli altri operai e il suo odio per lo sfruttamento e gli sfruttatori, i padroni classici di ieri ed i burocrati impersonali di oggi e di domani. Lo sviluppo di questa idea fondamentale è l'apporto principale del gruppo al movimento rivoluzionario contemporaneo. Ma il valore documentario del libro di Paul Romano risiede anche in questo: che rivela come sia universale la condizione operaia. Per questo noi invitiamo i compagni, gli operai, i lettori, a scrivere a “Battaglia” confrontando la propria situazione con quella dell' “operaio americano”, vale a dire con l'operaio di tutti i paesi, con l'operaio per quello che è, là dove essi la sentono simile e là dove la vedono diversa». (Battaglia comunista, Milano, a. XV, n. 4, giugno 1954. Ora in D. Montaldi, Bisogna sognare, cit., pp. 501-2)

In una situazione critica come quella del movimento operaio italiano dei primi anni Cinquanta, dove il peso della sconfitta subita alla fine del decennio precedente paralizza la classe , non ci si può semplicemente arroccare, come fanno i bordighisti, nella teoria, pensando che ciò da solo basti a evitare le insidie dell'opportunismo. Né tantomeno, come i trotskisti, mettere in campo spericolate manovre entriste pensando di spostare a sinistra la politica dei partiti che, almeno a parole, dichiarano ancora di rappresentare la classe operaia. Fondamentale è ritrovare il contatto con il proletariato, e non semplicemente distribuendo volantini agli ingressi degli stabilimenti, ma calandosi nell'interno stesso della classe e assumendo una posizione non tanto di predicazione quanto di ascolto. Occorre tornare a conoscere la fabbrica dall'interno, i suoi meccanismi di funzionamento, come realmente vivono e soprattutto cosa pensano gli operai. Un lavoro necessario, se non si vuole ridurre la teoria marxista a pura proclamazione di principi astratti. Una impostazione ripresa alla fine del decennio da Raniero Panzieri e dal gruppo dei Quaderni Rossi. Non è un caso che Montaldi prenda esplicitamente come riferimento il Marx del primo libro del Capitale, esattamente come farà Panzieri con il saggio «Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo», apparso nel primo numero dei Quaderni Rossi. E d'altronde lo stesso Panzieri in una lettera Asor Rosa dell'aprile 1960 definirà il libro di Paul Romano: «assai discutibile ideologicamente, con uno sfondo anarcoide, individualista, esasperato - ma d'altra parte dotato di straordinari elementi 'reattivi' nei confronti della realtà organizzativa attuale del movimento operaio» (R. Panzieri a A. Asor Rosa, 22 aprile 1960, in R. Panzieri, Lettere. 1940-1964, a cura di S. Merli e L. Dotti, Venezia, Marsilio, 1987,p. 270.)

Per Montaldi il punto di vista operaio deve tornare centrale. Un concetto, ripreso poi alla fine degli anni Sessanta dai gruppi della nuova sinistra che lo riducono però a puro slogan. Montaldi farà invece del materiale autobiografico, delle vite stesse dei proletari lo strumento più adatto per svolgere l'analisi della realtà della condizione operaia ela base dell'intero suo lavoro di ricerca e di intervento politico da «Milano, Corea» del 1960, a «Autobiografie della leggera» del 1961, e poi a «Militanti politici di base» del 1971, fino alla progettata e mai compiuta indagine sulla generazione operaia proveniente dalla grande ondata di lotte del 1968-69. Non è un caso che l'introduzione di Montaldi si chiuda con un invito ai lettori, affinché inviino al giornale un resoconto della loro condizione in fabbrica. Queste narrazioni autobiografiche diventeranno tra il giugno 1954 e il marzo 1955 una rubrica fissa di Battaglia comunista, curata dallo stesso Montaldi e intitolata «Operai parlano della condizione operaia». Rubrica che Montaldi introduce così:

«La condizione operaia viene giudicata una condizione possibile, una condizione normale. Che sia una condizione normale e logica, non è vero. È da questa condizione di schiavitù che nasce la rivolta degli operai nei confronti dei padroni. L'operaio rifiuta di considerare normale la situazione che il sistema borghese gli impone: si tratta della sua vita ed egli reagisce. Questo, è logico e normale. Non per tutti però. Non per i capitalisti e i loro sostenitori. Degli operai ci parlano della condizione operaia. È da questo che bisogna partire». (Introduzione a Operai parlano della condizione operaia (non firmato ma di D. Montaldi), Battaglia comunista, Milano, a. XV, n. 4, giugno 1954)

In realtà quello che interessa veramente Montaldi non è tanto che attraverso questo strumento degli operai prendano contatto con il partito, quanto che si superi l'idea diffusissima nella classe che contino solo i grandi temi di politica nazionale o internazionale e che l'esperienza di fabbrica non conti niente.

«Si ignora quasi sempre, da parte operaia, - scrive ancora nel 1973 - che esista una letteratura fatta di testimonianze proletarie. In genere, il proletariato tende a non lasciar tracce di sé, si ritiene che l'esperienza di fabbrica, o comunque del lavoro, o privata, non valga la pena di venir raccontata, commentata, viene data per scontata, per poco interessante, per banale da parte stessa di chi la esercita». ( Lettera di Danilo Montaldi a Francesco Ciafaloni, 5 febbraio 1973. Ora in Inchiesta sulla nuova classe operaia. Lettere di Danilo Montaldi, Quaderni Piacentini, numero 72-73, ottobre 1979, p. 95)

Se le cose stanno così, allora è proprio da questa prima presa di coscienza che bisogna partire. Una dichiarazione di intenti che non è solo rivolta al partito perché sempre più sposti il centro della sua ricerca teorica sulla condizione di fabbrica, Qui abbiamo davvero la genesi della conricerca e di quella che diventerà negli anni a venire l'attività centrale di Danilo Montaldi: ascoltare gli operai, raccogliere le loro testimonianze, far conoscere le loro storie di vita. Gli interventi sono riportati integralmente e senza alcun commento. Nella rubrica, troveranno spazio testimonianze di diverse situazioni di lavoro: un rettificatore, un operaio di una piccola industria di vasche da bagno poi manovale in fabbrica e poi disoccupato, un panettiere, un impiegato di una ditta industriale, un operaio di fabbrica, un sabbiaiolo, un pacherista [guidatore di un escavatore]. Sono tutti militanti politici, dotati di una forte coscienza della propria condizione di classe e quindi anche in grado di analizzare criticamente dall'interno il meccanismo del potere padronale. Per Stefano Merli queste testimonianze possono essere considerate «uno dei primissimi esempi, se non il primo, di "conricerca"» (S. Merli, L'altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Feltrinelli, Milano 1977, p. 59.)

(Dalle bozze provvisorie di: Danilo Montaldi (1929-1975). Vita di un militante politico di base)

lunedì 14 marzo 2022

Danilo Montaldi, la conricerca e il rapporto con Socialisme ou Barbarie

 


Giorgio Amico

Danilo Montaldi, la conricerca e il rapporto con Socialisme ou Barbarie

Il soggiorno a Parigi sorte comunque l'effetto positivo di consolidare i rapporti con i compagni francesi già conosciuti in occasione di iniziative del Partito di Damen. Tutti coloro che si sono confrontati con l'opera di Montaldi concordano nel sottolineare la centralità nella sua riflessione del rapporto con il gruppo di marxisti critici raccolto intorno alla rivista francese Socialisme ou Barbarie. Per Stefano Merli l'influsso francese avrebbe portato Montaldi a concepire il marxismo come sociologia:

« Infatti Montaldi, a differenza di Guiducci e Pizzorno, e piuttosto sulla scorta delle influenze di 'Socialisme ou Barbarie' (dopo un soggiorno a Parigi del 1950), ripropone una concezione del marxismo come sociologia, ricollegandolo a tutto un filone rivoluzionario creativo, come antidoto e alternativa all'ortodossia del riformismo secondinternazionalista e al dogmatismo staliniano. Ed è all'interno di questa battaglia, che egli incomincia a far circolare nella cultura italiana i nomi di Lukacs, Benjamin, Korsch, ecc. e le ricerche di D. Mothè e Paul Romano sulla condizione operaia nella grande fabbrica » (Stefano Merli, L'altra storia. Bosio, Montaldi e l'origine della nuova sinistra, Milano, Feltrinelli 1977, p. 17.)

E che a Montaldi si debba una conoscenza più approfondita delle tesi della rivista francese in Italia lo rimarca Philippe Gottraux, autore di una pregevole storia della rivista e del gruppo di eretici del marxismo che la redige:

«Questo personaggio, divenuto relativamente noto nella sinistra radicale italiana per il suo originale percorso nell'estrema sinistra antistalinista del dopoguerra, ha contribuito, grazie ai suoi inserimenti in vari ambienti, a far conoscere più ampiamente le posizioni di SouB nella penisola» (P. Gottraux, “Socialisme ou Barbarie”. Un engagement politique et intellectuel dans la france de l’Après-guerre, Lausanne, Payot, 1997, pp. 247-248.)

Un rapporto non a senso unico. La conoscenza di Montaldi rappresenta un'aquisizione importante anche per il gruppo francese, come chiarisce Dominique Frager, uno dei pochi membri ancora in vita di SouB:

«Montaldi si recava a Parigi abbastanza spesso, fin dalla sua prima visita nel 1953, durante la quale aveva incontrato SouB, e ognuna di queste visite era per noi, e per me in particolare, un'esperienza emozionante, non solo per le notizie che portava sulle lotte sociali e sulla situazione politica in Italia, ma forse ancora di più per la carica di realtà viva che dava a queste informazioni e che emanava dalla sua stessa persona, dando almeno ai miei occhi sostanza all'idea rivoluzionaria.» (Dominique Frager, Socialisme ou barbarie. L'aventure d'un groupe (1946-1969), Paris, Syllepse, 2021, p. 63)

Secondo Mariuccia Salvati: «per Montaldi l'incontro [...] significò la possibilità di arricchire il campo politico radicale italiano con una concezione della testimonianza operaia che si trasformerà poi in pratica diffusa, sotto forma di inchiesta, nei gruppi militanti. A sua volta Moltaldi gioca un ruolo fondamentale per la diffusione delle teorie della rivista francese in Italia […] anche tra le più ampie frange intellettuali critiche della sinistra, che da noi erano meno succubi che in Francia del Partito comunista staliniano» (M. Salvati, Per una biografia intellettuale in “Parolechiave” n. 38, 2007)

Tesi ulteriormente ribadita nell'ambito di una più complessiva valutazione dell'intero percorso montaldiano.

« Una lettura più riavvicinata consente di stabilire la presenza riconosciuta del giovane Montaldi (con il suo gruppo politico cremonese) nei primi anni Cinquanta, dentro la rivista, quale unico referente italiano. È un rapporto che si trasformerà con alcuni dei suoi esponenti in amicizia duratura (come dimostrano in particolare le visite di lefort a Cremona nel 1964, nel 1973 e 1974) e, in secondo luogo, l'attenzione alla cultura operaia come fulcro dei primi anni della rivista e come centro dello scambio e dell'interesse per Montaldi».(Mariuccia Salvati, Montaldi e la sociologia. In G. Fofi- M. Salvati, Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento, Roma, Viella 2021, p. 86)

Una tesi, a dir la verità, già avanzata al momento della morte di Montaldi da Sergio Bologna:

« Nella seconda metà degli anni '50, ben prima di “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”, egli è stato il punto di riferimento in Italia di quella trama segreta ma importante di gruppi internazionali che, ponendosi oltre le dissidenze storiche bordighiste e trotzkiste, stvano elaborando la piattaforma politica dell'operaio massa., “Socialisme ou Barbarie”, “Solidarity”, “Facing Reality”, quanto restava del comunismo tedesco anni '20, sono diventati patrimonio teorico per merito di Danilo Montaldi». (Primo Maggio, n.5, Primavera 1975)

C'è poi chi, come Enzo Campelli ritiene che i rapporti tra l'intellettuale cremonese e il gruppo di «Socialisme ou barbarie» siano fondamentali per comprendere la genesi del metodo della conricerca da parte di Montaldi:

«Di conricerca, sia pur implicitamente, parlava “Socialisme ou barbarie” già nel 1952, ed è da qui che Montaldi trae, sviluppandole, le indicazioni più precise. Denunciando la pretesa di una sociologia falsamente «operaia» da poco apparsa soprattutto negli Stati Uniti, di analizzare concretamente i rapporti sociali nei luoghi di produzione, “Socialisme ou barbarie” scriveva che la produttività di “pseudosociologi di indagare sulle attitudini degli individui rispetto al loro lavoro e ai loro compagni e di mettere a punto i migliori metodi di adattamento sociale” incontra un insuperabile ostacolo, dovuto alla loro stessa prospettiva di classe, che inverte i termini reali della contraddizione operaia: “questo scacco mostra i presupposti di un'analisi veramente concreta del proletariato. L'importante è che questo lavoro sia riconosciuto dagli operai come momento della propria esperienza, un mezzo di formulare, di condannare e di confrontare una conoscenza ordinariamente implicita, piuttosto "sentita" che riflessa, e frammentaria. Tra questo lavoro e la sociologia di cui parlavamo c'è tutta la differenza che separa la situazione del cronometraggio in una fabbrica capitalistica da quella di una determinazione collettiva nel caso di una gestione operaia... Il lavoro che noi proponiamo si fonda sull'idea che il proletariato sia impegnato in una esperienza progressiva che tende a far saltare il quadro dello sfruttamento; non ha dunque senso che per gli uomini che partecipano a tale esperienza”. Questo lavoro avrebbe dovuto rivolgersi, secondo “Socialisme ou barbarie”, alle relazioni dell'operaio verso il suo lavoro, ai rapporti con gli altri operai e con gli altri strati sociali, ai legami operai con la vita sociale al di fuori della fabbrica, con una tradizione ed una storia propriamente proletarie, ed alla sua conoscenza, della società totale». (Enzo Campelli, Note sulla sociologia di Danilo Montaldi: alle origini di una proposta metodologica, La Critica Sociologica, n. 49, 1979. Per i passi citati da Campelli cfr. C. Lefort, L'expérience prolétarienne, in Socialisme ou barbarie, n. 11, 1952.)

E alla forte influenza esercitata Lefort si rifà anche Luigi Parente nel suo studio su Montaldi e il Sessantotto:

«Sulla condizione operaia in particolare egli si rifà al metodo di C. Lefort, il quale contesta l'economicismo dell'operaio, e di conseguenza anche la pratica corrente dei marxisti di leggere il solo aspetto politico dell'organizzazione del proletariato, mentre è stato inspiegabilmente trascurato - a dire dello stesso teorico di «Socialisme ou Barbarie» - come gli uomini, posti nelle condizioni del lavoro industriale, si appropriano di questo lavoro e vi costruiscono le proprie .relazioni con il resto della società. È questo l'assunto di base de L'expérience prolétarienne di Claude Lefort, in «Socialisme ou Barbarie», n. 11, dicembre 1952 (…) la novità che emerge dalla sua proposta è nella direzione del superamento del rimosso del marxismo ortodosso verso la socialità operaia, che contraddistingue la vita dell'operaio sia all'interno che all'esterno del mondo della fabbrica. “Questa classe non può essere conosciuta che da se medesima - è la conclusione del teorico francese che rimarrà come è noto il leit-motiv dell'analitica sociale di Montaldi - che alle condizioni che colui che interroga ammetta il valore dell'esperienza proletaria, metta radici nella situazione e faccia suo l'orizzonte sociale e storico della classe”.»(Luigi Parente, Il sessantotto e Danilo Montaldi. In L. Parente (a cura di), Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, Napoli, La Città del Sole, 1988, pp. 53-54)

Un concetto dunque, largamente condiviso anche se non mancano le obiezioni di chi, come Toni Negri, tende a relativizzare l'influsso lefortiano contrapponendogli una presunta “pratica padana”:

« Non v'è dubbio che Danilo avesse ben masticato ed assimilato le discussioni francesi, sia politiche che di metodo, che invariabilmente facevano centro su Socialismo ou Barbarie: ma la "conricerca" di Montaldi, è qualcosa di più, è una pratica tutta "padana". Intendo dire che "conricerca" è qui un atteggiamento che oggi potremmo chiamare "biopolitico" un'immersione radicale dentro le contraddizioni soggettive, antagoniste, della società "padana" in feroce trasformazione sotto un'irresistibile pressione capitalista. »

Ma il rapporto con i “sociobarbari” non si limita al tema, assai controverso, della paternità del metodo della conricerca, ma tocca l'ambito ben più vasto di come, dopo il sostanziale fallimento del comunismo terzinternazionalistico in tutte le sue componenti, trotskista e bordighista incluse, debba porsi il problema del partito.

«È proprio grazie all’influenza di Socialisme ou Barbarie- annota Arturo Peregalli - che Montaldi inizia a riflettere sul problema del partito, o meglio, come di diceva allora, sull’organizzazione della classe. Egli pensa alla formazione di un’organizzazione basata sull’attività politica cosciente dei rivoluzionari, dentro le esperienze di lotta, di vita, di rapporti sociali con la classe. L’elaborazione della teoria del partito viene intesa come sintesi del momento pratico, attivo, cosciente e antagonistico dell’esperienza diretta proletaria. Montaldi dirà che gli aderenti a questo partito devono essere dei militanti organici non al partito, ma alla classe.» (Arturo Peregalli, Danilo Montaldi nella storia del movimento operaio, p 5. www.aptresso.org)

(Dalle bozze provvisorie di: Danilo Montaldi (1929-1975). Vita di un militante politico di base)


venerdì 11 marzo 2022

La Resistenza del popolo d'Ucraina ha un nome: Dignità

 


Ieri ricorrevano 150 anni dalla morte di Giuseppe Mazzini. Proponiamo una pagina del suo libro “Doveri dell'uomo” in risposta a chi accusa gli Ucraini di fomentare la guerra rifiutando ostinatamente di arrendersi, a chi chiede che senso abbia resistere. Basta una parola per rispondere a questa domanda ed è “DIGNITÁ” . Ce lo ricorda Piero Calamandrei chiamando la Resistenza un “patto giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono per dignità e non per odio”. È il patto che lega oggi le donne e gli uomini d'Ucraina contro l'invasore russo, come ieri legava donne e uomini d'Italia contro l'invasore tedesco. Ma è inutile spiegarlo a chi ostinatamente non vuol capire. Che almeno abbiano il pudore di non parlare in nome dei partigiani e della pace.

Giuseppe Mazzini

Dei doveri dell'uomo


Un popolo, il Greco, il Polacco, il Circasso, sorge con una bandiera di patria e d'indipendenza, combatte, vince, o muore per quella. Cos'è che fa battere il vostro cuore al racconto delle battaglie, che lo solleva nella gioia alle sue vittorie, che lo contrista alla sua caduta?

Un uomo, vostro o straniero, si leva, nel silenzio comune, in un angolo della terra, proferisce alcune idee, ch'ei crede vere, le mantiene nella persecuzione e fra i ceppi, e muore, senza rinnegarle, sul palco. Perché lo onorate col nome di Santo e di Martire ? Perché rispettate e fate rispettare dai vostri figli la sua memoria ? E perché leggete con avidità i miracoli d'amor patrio registrati nelle storie Greche e li ripetete ai figli vostri con un senso d'orgoglio quasi fossero storie dei vostri padri ?

Quei fatti Greci sono vecchi di duemila anni e appartengono a un'epoca d'incivilimento che non è la vostra, né lo sarà mai. Quell'uomo che chiamate Martire moriva forse per idee che non sono le vostre, e troncava a ogni modo colla morte ogni via al suo progresso individuale quaggiù. Quel popolo che ammirate nella vittoria e nella caduta, è popolo straniero a voi, forse pressoché ignoto: parla un linguaggio diverso, e il modo della sua esistenza non influisce visibilmente sul vostro: che importa a voi se chi lo domina è il Sultano o il Re di Baviera, il Russo o un governo uscito dal consenso della nazione ?

Ma nel vostro cuore è una voce che grida: « Quegli uomini di duemila anni addietro, quelle popolazioni ch'oggi combattono lontane da voi, quel martire per le idee del quale voi non morreste, furono, sono fratelli vostri: fratelli non solamente per comunione di origine e di natura, ma per comunione di lavoro e di scopo. Quei Greci antichi passarono; ma l'opera loro non passò, e senza quella voi non avreste oggi quel grado di sviluppo intellettuale e morale che avete raggiunto. Quelle popolazioni consacrano col loro sangue un' idea di libertà nazionale per la quale voi combattete. Quel martire insegnava morendo che l'uomo deve sacrificare ogni cosa, e, occorrendo, la vita a quel ch'egli crede essere la Verità.

Importa lo sviluppo dell'Umanità. Importa che la generazione ventura sorga, ammaestrata dalle vostre pugne e dai vostri sacrifici, più alta e più potente che voi non siete nella intelligenza della Legge, nell'adorazione della verità.

mercoledì 9 marzo 2022

Ucraina. Il genocidio dimenticato

 


Roberto Massari

Ucraina. Il genocidio dimenticato

Mi è stato chiesto da più parti, in Italia e all’estero, perché tardassi a intervenire sui tragici fatti in corso in Ucraina - a titolo personale, ovviamente, non avendo Utopia rossa, per definizione e per scelta fondativa, una linea politica comune. (Senza dimenticare però che il secondo dei suoi Princìpi di adesione ideale recita: «Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione indipendentemente dalle loro direzioni politiche».)

Ho evitato di intervenire finora per le seguenti ragioni:

1. Speravo di ricevere dei materiali daI compagni di Utopia rossa in Ucraina (Kiev e Odessa), ma non riesco più a entrare in contatto con loro e ne ignoro la ragione.

2. Mi sembrava inutile e superfluo entrare nella sconclusionata discussione scatenatasi in Rete sulla necessità o no di impedire il massacro del popolo ucraino, di sostenere o no la sua resistenza all’invasione russa. Ma per uno con la mia storia personale - che l’unica lotta per l’autodeterminazione che non ha potuto sostenere (quella ungherese del 1956) è stato solo perché avevo dieci anni - e che per l’intera sua vita si è schierato attivamente sempre a favore della vittoria dei popoli in lotta per la loro indipendenza, che altro potevo dire o aggiungere per la lotta del popolo ucraino?

Schieratissimo per gli algerini contro la Francia, per i congolesi contro il Belgio, per i tibetani contro la Cina, per i vietnamiti contro gli Usa, per i palestinesi contro Israele, per i cecoslovacchi contro l'Urss, per gli angolani contro il Sudafrica, per gli eritrei contro l’Etiopia, per gli abitanti di Timor Est contro l’Indonesia, per gli abitanti di Grenada contro gli Usa, per gli irlandesi del Nord contro la Gran Bretagna, per i baschi contro lo Stato spagnolo, per i ceceni contro l’Urss, per i kosovari contro la Serbia, per gli afghani contro l’Urss e poi contro gli Usa, per gli iracheni contro gli Usa, per i curdi contro la Turchia… e sicuramente nella foga sto dimenticando qualche altra lotta importante per l’autodeterminazione, nel qual caso mi scuso presso i diretti interessati.

Date queste premesse di un’intera vita, che altro dovrei o potrei aggiungere per la lotta degli ucraini, senza cadere in vuoti slogan o considerazioni banali nella loro ovvietà?

3. Va anche detto che, a differenza della maggior parte delle lotte sopra elencate, questa volta gran parte dell’umanità è schierata dalla parte dei più deboli, cioè dalla parte degli ucraini contro gli invasori. Nel passato le cose non furono sempre così chiare, anche perché esisteva la penosa illusione che l’Urss e la Cina fossero paesi socialisti e per molti ciò rappresentava un freno ad esprimere solidarietà ai popoli da loro aggrediti, secondo la famigerata e orrenda teoria del «fine che giustifica i mezzi». E come all’epoca del Vietnam, oltre alla resistenza del popolo aggredito, vi sono anche movimenti di protesta in seno al paese aggressore. Mentre scrivo sono già 14.000 i russi imprigionati per aver protestato contro la guerra. Sarà infatti compito dello stesso popolo russo (come già per gli Usa del Vietnam) - e senza interventi esterni - contribuire alla fine della guerra, anche se non sarà possibile nell’immediato una vittoria degli ucraini. Ma col tempo verrà anche questa, come già per i vietnamiti, gli afghani o i cecoslovacchi.

4. Una ragione in più per tacere o mantenere un profilo defilato è il frastuono orchestrato in Rete da centinaia di siti che nella più totale ignoranza della storia mondiale del Novecento e in preda a deliri di protagonismo narcisistico, dicono le cose più disparate sul conflitto in corso, quasi tutti indaffarati a trovare delle giustificazioni all’intervento russo se non addirittura ad applaudirlo. Nel gergo di Internet sono i cosiddetti «putiniani» (schiera che includerebbe anche personaggi tra i più impensabili come Trump, Berlusconi fino all'altroieri, l’attuale metropolita ortodosso di Mosca).

A loro vanno affiancati quelli del «né coi russi né con la Nato», che è come dire: «noi viviamo sulla luna e quello che voi, governo russo, state facendo al popolo ucraino non ci riguarda perché noi siamo degli antimperialisti puri, quindi siamo anche contro la Nato e perciò non muoveremo un dito per impedirvi di proseguire il massacro: continuate pure, ma ricordatevi della nostra posizione politica equidistante e soprattutto così ben formulata…». Si ricordi comunque che questa posizione è difesa da quella stessa Rifondazione comunista che nel 2006 votò a favore della missione italiana in Afghanistan e a favore di tutte le altre missioni militari, fossero o non fossero sotto il cappello della Nato.

A questo mondo profondamente malato non vale la pena di rispondere e comunque sarebbe impossibile perché non ci si trova davanti a correnti di pensiero caratterizzate e unificate come nel passato (belle o brutte che fossero), ma davanti a una miriade sparsa di individui gesticolanti: ognuno si è fatto il proprio sito, ognuno sta pensando fondamentalmente al proprio ego, ognuno sta mettendo in pratica la propria autoglorificazione sulla scia del «io non me la bevo», già emersa tristemente con il mondo dei no-vax (che spesso e volentieri coincidono con i «putiniani»).

Questa del «io non me la bevo» è diventata ormai una delle leve principali per l’autocelebrazione del proprio io e assisteremo nel futuro a una crescita esponenziale di questo espediente «privato», al quale si può dare una netta definizione psicopatologica solo in termini di disturbi della personalità.

Del resto, come potremmo chiamare diversamente lo stato mentale di una persona che non sente sulla propria pelle le ferite non metaforiche che vengono impresse al corpo sociale di una nazione? non riesce a vedere il fratello uomo o la sorella donna nelle persone che vengono uccise in queste ore insieme ai loro figli e figlie? che razza di essere umano è un simile individuo incapace di commuoversi, incapace di solidarietà umana, incapace in fondo di essere egli stesso umano?

Può la politica assolvere tutto ciò, vale a dire questa disumanizzazione «programmatica»?

Se sì, al diavolo allora l’analisi politica se essa deve diventare un pretesto per affermare la propria bestialità verso altri esseri umani. Che dico, «bestialità»: gli animali mi perdonino, perché sappiamo che essi uccidono solo per difendersi o per nutrirsi. Mentre qui ci si trova davanti a individui mascherati da blog che glorificano i massacri in corso, addirittura inneggiano a un folle capo di Stato che ha minacciato di scatenare la guerra atomica se qualcuno gli ostacola l’aggressione. Il quale Putin è probabile che faccia la stessa fine di Berija, liquidato da una congiura dei «boiardi», cioè gli oligarchi ai quali questo ex poliziotto, staliniano e megalomane, sta facendo più danni che tutta la Comunità europea messa insieme. 

E riguardo alla minaccia nucleare lanciata da Putin, con che faccia si presenteranno i suoi improvvidi sostenitori nelle prossime mobilitazioni per il Pianeta, per il cambio climatico e tutto il resto, dopo aver trovato normale che un folle dottor Stranamore  minacci nuovamente la sterminio atomico, a 60 anni di distanza dalla paura che già si prese la mia generazione.

A questo mondo profondamente malato è comunque impossibile rispondere perché, trattandosi di una miriade di individui, occorrerebbe formulare una miriade di risposte diverse, laddove invece sarebbero molto più appropriati degli interventi terapeutici individualizzati di altra natura.

Non ha senso quindi cercare di far sentire la propria voce in questo frastuono. Ho quindi pensato di rendermi utile in una forma più modesta (del resto che altro potrei fare per aiutare il popolo ucraino nella sua lotta?), rivolgendomi ai giovani che, a differenza dei «da soli ideologici», hanno tutto il diritto di ignorare le vicende del passato che hanno portato alle tragedie del presente. Per loro quindi cercherò di far comparire su questo blog dei materiali formativi, sperando che circolino e passino di mano in mano… pardon, di video in video. Tali materiali, nella loro brevità, dovranno avere soprattutto l’effetto di stimolare la ricerca da proseguire su altri libri o saggi. Parleremo quindi del holodomor, della concezione leniniana dell’autodeterminazione dei popoli (l’unica cosa valida del patrimonio teorico di Lenin e che egli non ha mai cambiato, a differenza di tutte le altre), di Chernobyl, di piazza Maidan e, speriamo, anche della fine del conflitto.

Oggi cominciamo quindi dal genocidio dei contadini ucraini nel 1931-33: un crimine contro l’umanità non lo si dimentichi, e che tale è stato definito da alcune istituzioni internazionali. Dò quindi la parola a uno storico tra i più onesti, accurato nella sua metodologia di ricerca: il lucano Ettore Cinnella.




UCRAINA

IL GENOCIDIO DIMENTICATO

di Ettore Cinnella


[…] Ancor prima che la loro terra conquistasse l’indipendenza [nel 1991], gli ucraini all’estero equipararono a un vero e proprio genocidio nazionale quello che oggi chiamiamo holodomor [la morte per inedia imposta da Stalin agli agricoltori ucraini togliendo loro il ricavato dei raccolti e anche le semenze da piantare (n.d.r.)]. Dopo il 1991, poi, gli storici e l’opinione pubblica del nuovo Stato indipendente hanno accolto senza tentennamenti questa tesi, chiamando talvolta il martirio subìto dal loro popolo all’inizio degli anni Trenta l’«olocausto ucraino». Quest’ultimo termine a me sembra improprio e andrebbe riservato solo allo sterminio degli ebrei per mano dei carnefici nazisti. È invece lecito, e perfino doveroso, definire genocidio sociale la carestia terroristica che, nel 1932-1933, rubò la vita ad alcuni milioni - da tre a quattro - di agricoltori ucraini. Del resto, sono molti gli storici, anche russi, che concordano nel considerare un genocidio sociale la decimazione della popolazione contadina, anche ucraina, decisa da Stalin per collettivizzare le campagne. Quel che essi negano risolutamente è che il caso ucraino sia stato diverso da tutti gli altri, che cioè gli agricoltori di quella terra siano stati crudelmente puniti non solo perché contadini, ma anche perché appartenenti ad una determinata comunità nazionale.[…]

Sull’Ucraina la vendetta dell’onnipotente del Cremlino si abbatté qualche settimana più tardi che altrove, ma fu ancor più funesta, non foss’altro che per l’elevatissimo numero di agricoltori caduti  nei mesi della grande carestia, in modo simile al resto del paese: uccisi lentamente dall’inedia, falciati dalle tante epidemie, spentisi in séguito alle malattie contratte mangiando tossici surrogati di cibo o carne di carogne e di cadaveri. Sorge spontaneo, a questo punto, il quesito se possa definirsi genocidio, e di che tipo, il lento sterminio per fame di tre o quattro milioni di ucraini. […]

Gli abitanti delle campagne ucraine furono decimati in quanto contadini o subirono quel tremendo castigo anche per altre ragioni?

Rispondere alla prima domanda in modo affermativo, come si può e si deve, non chiude la questione e non appaga chi vuole indagare su quell’orribile misfatto storico. Anzitutto, assieme alla guerra senza quartiere contro i contadini, in quegli stessi anni Stalin sferrò un furibondo attacco all’intellighenzia ucraina, cioè ai custodi della memoria storica della nazione, e represse finanche il locale Partito comunista, reo di non obbedire compattamente agli ordini di Mosca.

Come interpretare tutto ciò se non come segni della volontà di annullare gli spazi di autonomia di cui l’Ucraina ancora godeva? D’altronde, proprio negli anni della collettivizzazione la coscienza patriottica dei contadini ucraini, qualunque essa fosse stata prima, fece passi da gigante individuando nel giogo sovietico e moscovita la vera causa dei mali della loro terra. […]

La coscienza nazionale dell’Ucraina contemporanea aveva preso corpo per la prima volta dopo la Rivoluzione bolscevica, quando il paese conobbe per pochi anni [1917-1922 (n.d.r.)] l’esperienza dell’indipendenza. La difficile via dell’autonomia nell’ambito dell’Urss fu percorsa negli anni ’20, ma si interruppe bruscamente in séguito alla svolta politica centralizzatrice decisa da Stalin. Il calvario del holodomor creò tra Ucraina e Russia un baratro, che non si è più colmato. Malgrado le ingenuità e le intemperanze dell’odierno nazionalismo ucraino, non si può dar torto a quanti pensano e dicono che, se non avesse fatto parte dell’Urss, l’Ucraina non avrebbe conosciuto un’esperienza annichilente come lo sterminio per fame di milioni di pacifici e laboriosi agricoltori.

La tragedia del holodomor non è soltanto una fosca pagina di storia, appartenente al passato e ormai archiviata. Essendo assurta a doloroso simbolo del riscatto nazionale dell’Ucraina, essa dev’essere conosciuta anche da chi vuol capire qualcosa dei sentimenti più profondi di quel popolo.

Anziché chiedere perdono e lenire così le antiche ferite, la Russia contribuisce a riaprirle, facendole sanguinare ancora una volta.

(tratto da: Ettore Cinnella, Ucraina. il Genocidio dimenticato, Della Porta Editori, Pisa 2015.)

www.utopiarossa.blogspot.com

Miseria - Una storia Arbëreshe

 


In libreria l'ultimo libro di Mario Calivà, attivissimo esponente della rinascita culturale arbëreshe in Italia. Certo, gli arbëreshë di Piana sono una piccola minoranza, ma il libro di Mario, carissimo amico dai tempi in cui presentò proprio qui a Savona il suo bel libro sulla strage di Portella della Ginestra, ci ricorda che un popolo vive finché vive la sua lingua e la sua cultura non si pietrifica in folclore, ma sa interfacciarsi con il presente. Ce lo ha insegnato François Fontan nel suo libro sull'etnismo, ce lo dimostrano i fermenti culturali delle valli occitane, penso alla realtà della Rafanhauda, e degli Arbëreshë di Sicilia. Ne proponiamo la prefazione.


Miseria - Una storia Arbëreshe

Prefazione di Gazmend Kapllani*

Tutte le strade portano a Piana degli Albanesi, Hora e Arbëreshëvet. Hora – un paesino di strette viuzze, di sogni rurali e nevrosi divine - si trasforma, così, in un luogo chiuso e allo stesso tempo universale. Al centro di questo universo ruota la storia di Salvatore e Giuseppina. Lui è stato testimone diretto - “dopo aver percorso l’Italia da capo a coda” - di uno dei grandi eventi del mondo: la Prima Guerra Mondiale. Giuseppina, invece, svolge il ruolo tradizionale di una donna che vive in una società patriarcale dove nessuno non può e non vuole vivere fuori dalla famiglia e dalla chiesa. Si sposano senza innamorarsi e fanno quello è giu- sto fare: una famiglia.

L’ordine normale delle cose sembra governare la loro vita anche se il loro mondo interiore ed este- riore comincia ad agitarsi in maniera sconvolgente. Intanto, ricomincia la violenza di un’altra guerra mondiale che vede l’Italia protagonista. Durante il secondo dopoguerra in Sicilia i comunisti sono molto vicini a prendere il potere. Per questo si innesca il banditismo di Salvatore Giuliano.

Tutti gli eventi importanti coinvolgono direttamente gli arbëreshë di Piana i quali hanno una relazione molto importante con la storia. Infatti, sono in Sicilia dal 1488 dopo la fuga dai Balcani per sfuggire alle armate vincenti degli Ottomani. I loro avi erano diventati famosi in tutta l’Europa cristiana per la resistenza eroica contro i musulmani. Poi, sconfitti, avevano varcato il mare ed erano finiti lì, in quel posto in cui gli inverni sono rigidi. Con il tempo anche la storia si era scordata di loro, perché la storia dimentica sempre gli sconfitti e si occupa solo dei vincitori. E loro, esistendo tra il ricordo della gloria passata e l’imbarazzo della sconfitta, erano diventati rigidi come gli inverni di quel luogo.

Ma sotto quella rigidità dei costumi, delle credenze e dei rituali, si agitano i desideri e le passioni umane, le loro paure, le loro nevrosi, i loro sogni e le loro illusioni. La grande storia di solito lascia fuori le emozioni. Ma per lo scrittore rappresentano la materia prima. E per questo lo scritto- re, inevitabilmente, si interessa alle emozioni, soprattutto se obliate dalla storia. Cioè a quelle cha hanno scritto, scrivono e scriveranno sempre la vera storia umana, di ogni luogo e di ogni tempo.

Mario Calivà, con la maestria di un cronista pirandelliano, in bilico tra realtà e fantasia, racconta la storia degli uomini e delle donne di Piana di quasi un secolo fa. Con una lingua semplice e profonda costruisce una realtà fatta di paradossi e passioni dove si mettono a nudo le commedie e le tragedie delle relazioni umane: Hora e Arbëreshëvet, luogo culturalmente unico nel Mediterraneo, che ha resistito sempre ai venti folli della storia, delle identità e delle lingue. Alla fine della lettura del romanzo quello che rimane di Hora è l’impressione di un quadro, come “un effimero dipinto ad olio che non sarebbe mai asciugato”. Ed è questa impressione di “un effimero dipinto” che costituisce la vera forza di questo romanzo che è il coacervo di un intero universo umano e geografico, così piccolo e immenso.


* Professore alla DePaul University – Chicago, Usa