mercoledì 27 aprile 2022

Assolutamente da leggere. Il libro nero dei Puffi

 


"Meglio esercitare la propria intelligenza con le scemenze, che la propria scemenza con cose intelligenti" scrive l'autore ed in effetti, nonostante l'argomento, il libro è serissimo e di un fascino incredibile. Personalmente credo di essermi divertito poche volte come durante la lettura di questo libro, dalla scrittura amabilissima, ma profondamente politico. In allegato la presentazione editoriale e le prime pagine dell'Avvertenza premessa dall'autore al suo libro.

G.A.

Nota editoriale

In un villaggio collettivista dove l'iniziativa privata è vista con sospetto, Grande Puffo è Stalin e Quattrocchi il suo Trotzky. Oppure no, i puffi sono militanti hitleriani, un modello perfetto di società nazista guarda caso minacciata da un Garganella che evoca l'"avido ebreo" della propaganda antisemita. In questo esilarante libro, il giovane filosofo francese Antoine Buéno rilegge il fortunato fumetto per svelare le tracce soggiacenti di archetipi e ideali propri dei regimi totalitari, sia fascisti sia comunisti. Scritto come un'accattivante analisi fantapolitica, il libro ha suscitato in Francia immediate polemiche. I difensori chiamano in causa la personalità apolitica di Pierre Culliford, in arte Peyo, creatore dei Puffi. I più sospettosi rincarano la dose, ricordando la visione stereotipata delle donne nell'unica rappresentante del gentil sesso, una Puffetta civettuola e disimpegnata. Un libro destinato a far discutere gli affezionati di questo fumetto, diffuso in tutto il mondo, divenuto poi un celebre cartone animato, che accompagna piccoli e grandi da due generazioni.

Antoine Buéno (1982) é docente universitario di Scienze Politiche.


Antoine Buéno

Avvertenza

Né denuncia, né disincanto. Il nostro testo non vuole né accusare, né demolire. Solo analizzare.

Questa la tesi: la società dei puffi è un archetipo di utopia totalitaria di stampo stalinista e nazista.
Detto ciò, non andremo a imbastire una requisitoria ai danni di Pierre Culliford alias Peyo, l'inventore dei puffi: sarebbe totalmente insensato accusarlo di stalinismo o di nazismo, poiché Peyo non appoggiava né l'uno, né l'altro. Non era un uomo schierato. Secondo Hugues Dayez, il suo biografo, non "sviluppò mai una vera e propria coscienza politica". Il che è confermato dal figlio, Thierry Culliford: "Mio padre non seguiva per niente la politica".

Per quel che ne sappiamo, quello di Peyo era un credo piuttosto moderato. Nel quadro dell'offerta partitica del Belgio del secondo dopoguerra, i suoi conoscenti più intimi lo descrivono come una persona abbastanza liberale. Ossia: non votava né per il Partito Popolare Cristiano, di destra e conservatore, né per il Partito Socialista, bensì per il Partito Liberale. Quindi, possiamo collocare Peyo al centro - o meglio al centrodestra - fermo restando che aveva tutta l'aria di scegliere per esclusione e non per adesione: "Votava i liberali per non votare né i cristiani né i socialisti".
Senza contare che Peyo non aveva niente dell'estremista di sinistra o del nazista. Sembrava non sapere nulla, o quasi, del comunismo: "Per lui, il comunismo sono i Russi o i Cinesi, tutto lì", svela Thierry Culliford. Serve precisare che il partito comunista in Belgio non ha mai costituito una forza politica determinante. D'altra parte, l'ideatore dei puffi, nato nel 1928, aveva vissuto l'occupazione tedesca e non sembrava provarne particolare nostalgia.

Ciò invaliderebbe d'un sol colpo la tesi dello stalinismo e del nazismo dei puffi? Assolutamente no. Un'opera è in grado di veicolare un insieme organico di immagini che l'autore stesso, in buona fede e senza esserne completamente cosciente, può sottovalutare. In questo senso, I Puffi sarebbero un tipico caso di dissociazione fra le intenzioni dell'autore e le rappresentazioni e le idee che effettivamente si esprimono nel fumetto di sua creazione. Nati nel 1958, I Puffi rispecchiano forse più lo spirito di un'epoca che quello dell'autore.

Alla luce di ciò, si capisce che Peyo cadesse letteralmente dalle nuvole a ogni nuova accusa - e le accuse mosse contro di lui furono numerose. Molto semplicemente, a Peyo è toccato sentire tutto e il contrario di tutto: i puffi sono gay; i puffi sono antisemiti; i puffi sono hippies; i puffi sono razzisti; i puffi sono massoni; i puffi sono membri del Ku Klux Klan...

Certo, la critica più frequente che poggiava sul comunismo dei Puffi ha avuto un enorme successo negli Stati Uniti. Infatti a suo tempo I Puffi penetrarono in maniera capillare nel mercato americano, che li inglobò perfettamente. Nel 1981 diventarono un cartone animato. Gli studios Hanna-Barbera ne trassero una versione per la televisione americana, diffusa dalla NBC. Per un processo dialettico di mercificazione del reale - assolutamente debordiano - i puffi divennero merce vendibile e, insieme, prodotto di largo consumo. La critica si scatenò: Peyo, un liberal-moderato, fu tacciato di comunismo e al contempo assorbito dalla macchina di una delle massime industrie del capitalismo mondiale: l'enterteinment hollywoodiano. Fin qui, dunque, non stiamo muovendo nessun'accusa.
E nessun disincanto, come si diceva in apertura. Scriviamolo pure nero su bianco: amiamo i puffi. Il loro universo è parte integrante della nostra infanzia. Fuori discussione che si distrugga la magia, che si spezzi l'incantesimo: non intendiamo rompere un giocattolo con cui ci siamo divertiti così a lungo. Al contrario, continueremo a giocarci: ma in un'altra maniera.

In queste pagine sovrapporremo l'approccio adulto alla percezione infantile. Il che non significa che il nostro approccio sarà meno ludico! Come dicono gli Shadoks, "meglio esercitare la propria intelligenza con le scemenze, che la propria scemenza con cose intelligenti". Questa massima fondata sul buon senso ci ha guidati nell'analisi della società dei puffi, che di primo acchito non sembrerebbe - a torto, come proveremo a dimostrare - poter essere l'oggetto di uno studio serio. Quindi, definiamo subito il nostro campo di analisi disciplinare e materiale.

In effetti, i puffi si possono studiare da innumerevoli prospettive: culturale,estetica, commerciale, economica, giuridica, storica, sociologica, psicologica, psicanalitica. E anche pedagogica, perché prevalentemente rivolti a un pubblico di bambini. Tale indirizzo giustifica alcuni fra i tratti salienti del mondo dei puffi, come l'assenza di sessualità. In questa prospettiva il villaggio può apparire come la metafora di una classe di scolari, in cui Grande Puffo incarnerebbe l'educatore e gli altri puffi i suoi allievi. La differenza d'età fra Grande Puffo e gli altri puffi avvalora l'ipotesi. Grande Puffo è circa cinque volte più vecchio dei suoi "buoni, piccoli, puffi", come un professore rispetto agli studenti delle prime classi. Sempre nella medesima ottica. Quattrocchi incarnerebbe l'implacabile secchione, lo spione che si fa malmenare all'intervallo, l'equivalente puffoso del personaggio di Agnan ne Il piccolo Nicolas. Inoltre, l'interesse pedagogico dei puffi aumenta nella misura in cui il fumetto si assume, in modo sempre più pregnante, il compito di volgarizzare una serie di questioni sociali. Ma su questo torneremo a breve.

Osserveremo l'argomento esclusivamente con gli occhi della scienza e della sociologia politica.

domenica 24 aprile 2022

Che te lo dico a fare

 


Giorgio Amico

Che te lo dico a fare”

“Donnie Brasco” è un film del 1997 che racconta la storia vera di un agente dell' FBI infiltrato nella mafia che poco a poco inizia a parlare e a pensare come un mafioso. Il film, di Mike Newell, si caratterizza per la strepitosa prova di recitazione dei due protagonisti Johnny Depp e Al Pacino. La cosa che resta più impressa è quell'intercalare “Che te lo dico a fare” usato continuamente da Al Pacino.

In inglese la frase suona "Forget about it" che tradotta letteralmente diventa "dimenticati di ciò che ho detto" o in modo più libero “fai conto che non te lo abbia detto”. Da qui la geniale traduzione “Che te lo dico a fare”.

Quando a Donnie Brasco/Johnny Depp viene chiesto di spigare il senso della frase, lui, che ormai ragiona da mafioso, risponde così:

«Ah… “Che te lo dico a fare?” significa… se tu sei d’accordo con qualcuno, uh? gli fai: “Raquel Welch è un gran bel pezzo di fica, che te lo dico a fare?” Invece se non sei d’accordo che una Lincoln è meglio di una Cadillac: “Che te lo dico a fare?”, uh? oppure, se una cosa secondo te è buona, ma tanto buona: “Minchia ‘sti peperoni, che te lo dico a fare?” Ma può anche voler dire: “Va’ al diavolo!”. Tipo… uno fa all’altro: “-Ehi, Buby dice che hai il cazzo piccolo. –Ehi, Buby che te lo dico a fare?” E a volte non significa niente… solamente…: “Che te lo dico a fare?”».

Il che può significare sia l'evidenza di una cosa che ne rende superflua l'enunciazione, sia l'inutilità di discutere di certe cose tanto ognuno resta della propria idea.

Una lezione da ricordare ogni volta che ci si siede alla tastiera.


giovedì 21 aprile 2022

Aspettando il 25 aprile


 

mercoledì 20 aprile 2022

Trattare con Putin?

 


Giorgio Amico

Trattare con Putin?


Qualcuno sostiene che discutere sia sempre utile, che comunque non potrà che uscirne qualcosa di positivo. Cacciari, ad esempio, sostiene che l'Europa ha fallito perché non ha trattato con Putin. Cacciari evidentemente scrive sui giornali, ma non li legge. Altrimenti avrebbe visto che in questi due mesi non c'è stato capo di stato di una qualsiasi media o grande potenza, leader europei compresi, che non abbia cercato un contatto con Putin. Ma per trattare occorre la volontà di entrambi e Putin non ha accettato neppure di trattare sull'evacuazione dei civili da Mariupol. Le tesi russe, espresse ancora ieri dal ministro degli esteri Lavrov, si riassumono in una sola: resa incondizionata. Perchè questo significa porre come condizione della fine della guerra la cessione del Donbass e della Crimea, oltre che la smilitarizzazione e la neutralità dell'Ucraina.

Insomma, quello che Putin vuole è un accordo come quello di Monaco del 1938 che lasciò mano libera a Hitler che infatti ci riprovò immediatamente in Polonia con gli effetti che tutti sanno.

Lo sanno soprattutto i paesi baltici che Stalin si annesse allora assieme a metà della Polonia e i finlandesi, che furono invasi, e che oggi si risentono nel mirino. E persino gli svedesi, da sempre neutrali, ma pericolosamente vicini alla Russia.

L'aggressione all'Ucraina spiega perché i paesi dell'ex Patto di Varsavia o ex parte dell'URSS si siano affrettati dopo il crollo dell'impero sovietico a entrare nella NATO. Avendo pagato sulla loro pelle per decenni il peso dell'oppressione sovietica, conoscevano bene il modo di ragionare dei governanti russi e come questi non avrebbero mai rinunciato ai territori persi e dunque si sono sentiti più sicuri sotto l'ombrello NATO (tanto per usare l'espressione di uno come Berlinguer che la Russia la conosceva bene). L'errore degli Ucraini è di non aver fatto lo stesso e di aver preso per buone le dichiarazioni di Mosca che fino al 2014 riconoscevano l'integrità dello Stato ucraino, Crimea e Donbass compresi. Se l'Ucraina fosse stata nella NATO, come i paesi baltici, questa guerra non ci sarebbe stata, come non ci sarebbe stata nel 2008 l'aggressione russa alla Georgia se anche questa non si fosse fidata del diritto internazionale più che di una copertura militare occidentale.

Quanto all'Europa sicuramente ha sbagliato, ma non nel senso sostenuto da Cacciari o dai "pacifisti" a senso unico dell'ANPI. L'Europa ha sbagliato per quieto vivere e per preservare i suoi interessi commerciali, a non intervenire prima nel 2008 e nel 2014.

Se lo zar Putin fosse stato fermato allora, se non gli fosse stata concessa la certezza dell'impunità, probabilmente la tragedia ucraina sarebbe stata evitata.


sabato 16 aprile 2022

Il tempo del lavoro


 

martedì 12 aprile 2022

La bella lavanderina, grande madre pop. Archeologia culturale di una filastrocca

 

    Renoir, La lavandaia accovacciata

Raffaele K. Salinari


La bella lavanderina, grande madre pop

Archeologia culturale di una filastrocca, significati, allusioni, spiritualità, cortili disegnati col gessetto


«La bella lavanderina, che lava i fazzoletti, per i poveretti, li metta ad asciugar. Fai un salto, fanne un altro, fai la riverenza, fai la penitenza: orsù, orsù, dai un bacio, a chi vuoi tu!». Nel testo della nota filastrocca popolare La bella lavanderina, che tutti abbiamo recitato da bambini, sono contenute diverse immagini che brillano e compaiono su quel limite indistinto, e per questo potenzialmente simbolico e poetico, che separa, o per meglio dire meglio ricongiunge, il sacro al profano.

Giorgio De Santillana, nel suo celeberrimo Mulino di Amleto, sostiene come nelle fiabe, nelle filastrocche, nei miti, siano spesso contenute le visioni di civiltà antiche, addirittura relitti di interi assetti cosmologici oggi dimenticati, come quelli precedenti la precessione equinoziale e dunque al cambio dell’eclittica. A questo proposito porta come esempio, tra gli altri, la caduta della Ganga (strettamente femminile) il fiume sacro della spiritualità induista, sulla testa dello Yogi cosmico Shiva. Non è questa la sede per approfondire il mito, ma chi volesse farlo lo troverebbe altamente significativo della tesi sostenuta dallo studioso.

Tornando alla nostra filastrocca non ci è dato sapere se La bella lavanderina risponde a criteri così arcaici, ma certo contiene elementi molto antichi che collocano i gesti via via descritti e suggeriti in una prospettiva il cui recupero è di importanza fondamentale per il futuro dell’umanità: la figura della Dea Madre e una gestualità che ne onora il Sacro e l’Eros come parte di esso. È infatti più che evidente come la progressiva materializzazione dei rapporti tra individui e tra individui e Mondo, la ingravescente prospettiva del Regno della Quantità, come la definiva il Libero Muratore René Guénon nell’omonimo libro, sta portando l’umanità oltre ogni equilibrio esistenziale, sia sul piano fisico sia su quello metafisico, e che il recupero di antiche figure di una spiritualità senza dogmi ci può aiutare a non oltrepassare il punto, già molto vicino, di non ritorno.

Cominciamo allora dalla figura centrale: «la bella lavanderina». Non è affatto azzardato vederla come una ipostasi pop della Grande Madre, della Grande Potnia, secondo la descrizione che ce ne da Umberto Pestalozza nel suo Eterno femminino mediterraneo. Qui, infatti, oltre alla decisiva affermazione della sacralità espressa dalla Grande Madre attraverso tutte le donne, le «piccole potnie», troviamo due caratteristiche che vengono evidenziata nella «bella lavanderina»: la bellezza certo, segno principe di una cosmesi che diviene cosmologia. Le genealogia che lega questa idea del Cosmo alla Bellezza è antichissima e procede da una genealogia che passa attraverso la Tanit cartaginese, la Demetra greca, Ishtar ed Inanna a Babilonia e via enumerando sino alla Madonna.

Ma è soprattutto l’umiltà della «bella lavanderina» che colpisce: questo è il segno troppo spesso trascurato, ma di fondamentale importanza, per l’abbinamento della Bellezza alla Saggezza. Umile si riferisce all’humus, al principio generativo terrestre, a quell’«umido radicale» che gli alchimisti ricercano come caratteristica della loro Prima Materia e che dunque, per la legge dell’analogia propria al linguaggio simbolico, deve corrispondere alla postura dello spirito di chi vuole l’accesso alle Verità ultime dell’Essere.

L’attitudine umile della «bella lavanderina» si evince evidentemente dal suo gesto di «lavare i fazzoletti per i poveretti», e di metterli ad asciugare al sole. Chi frequenta la simbologia ermetica conosce bene questa immagine del lavare e del lasciar asciugare, una ennesima forma del Solve e Coagula, ma questo ci porterebbe forse troppo lontano, così come una analisi seppur appena accennata di quell’oggetto, oramai imbalsamato solo in alcuni taschini, che è il fazzoletto. Quante immagini sensuali sono legate ad esso! Dalla gelosia di Otello al sensuale lasciarlo cadere affinché venga raccolto e restituito. Oltre alla biancheria intima, questo accessorio di abbigliamento è, infatti, il più vicino al corpo. Questo pezzo di stoffa è così pronto ad impregnarsi di odori ed aromi, naturali o artificiali, dal sudore al sangue, dagli umori erotici ai profumi più inebrianti. Per i più tradizionalisti cultori della gangia, basti citare il significato del safi che si mette all’imboccatura del chilum. Restando al nostro tema, oltre a ricordare la canzone «amor dammi quel fazzolettino, alla fonte lo vado a lavar», che riprende in toto il tema di aperture della «bella lavanderina», il «fazzoletto di un poveretto» nelle mani della «bella lavanderina», rappresenta tutto il carico di povertà e degrado delle loro vite, ed il lavarlo diventa un vero e proprio battesimo lustrale per interposto oggetto, un gesto catartico potente ed altamente sacro.

Fai un salto, fanne un altro

Di fronte a questo verso della filastrocca non possiamo che pensare al «gioco del mondo», quella serie di dieci case che collegano, attraverso i salti ed il tiro dei dadi, la Terra al Cielo. Al proposito cominciamo con l’osservare come alcuni giochi, comuni a tutti i bambini del mondo, esprimono descrizioni profonde dell’anima mundi, al di là delle distanze tra culture. Ad esempio, colpisce l’analogia tra il gioco del mondo (il gioco del mondo!) – detto anche Campana o Rayuela in spagnolo, che si trova in tutte le culture – e le Sefirot della Cabbala ebraica. Lo schema è lo stesso, ma anche il percorso della conoscenza è uguale. Il bambino, come il saggio, deve superare delle prove per arrivare alla testa dello schema, quella che nella descrizione cabbalistica dello Zohar viene chiamata Keter ‘Eliyon: la «Corona Eccelsa di Dio… che giace oltre la nostra comprensione razionale» (Zohar, XVII). Eppure i bambini ci provano e, con i loro salti – gridando di gioia istintiva, pura e non condizionata – finalmente ci arrivano; ad un certo momento della nostra vita ci siamo arrivati tutti, anche se oramai ci siamo scordati (scordati… come fossimo uno strumento non più in grado di suonare la melodia che ci è stata consegnata).

Il «gioco del mondo» è, allora, un percorso spirituale che, da secoli, viene indagato razionalmente senza riuscire a penetrarne il significato. Eppure, quanto semplice sarebbe dire che il Mondo è realmente un gioco; con questo tutto sarebbe più chiaro, e la manutenzione dello spirito assicurata. Dice Mircea Eliade: «I bambini continuano a giocare al gioco della Campana, senza sapere di ridare vita ad un gioco iniziatico, il cui scopo è di penetrare e riuscire a tornare fuori da un labirinto; giocando alla Campana i bambini scendono simbolicamente agli inferi e tornano sulla terra».

A questo punto, forse, alcuni potrebbero tacciare queste riflessioni di mera casualità; Un caso, una banale analogia tra Rayuela e Sefirot, tra il «gioco dei nomi di Dio» ed il gioco del mondo? Ma cosa significa caso? Forse una necessità della quale non riusciamo ancora a cogliere l’intimo significato. Prova ne sia il fatto che, spesso, nell’interpretazione di passi oscuri del Midrash ebraico, viene utilizzato il potere vaticinante dei bambini, capaci ancora di vivere tra gli opposti, di soffermarsi «là dove si situa la vita». Fai un salto, fanne un altro… Questo apprese Rabbi Loewe, celebre rabbino in Praga, creatore, secondo la leggenda, del mitico Golem – il servitore di fango descritto già nella Bibbia – che si ribellò, come tutti gli esseri di fango, al suo padrone.

Ritrovare allora questa «infanzia dello spirito» nello «spirito dell’infanzia», ci interessa come presupposto politico, perché è oramai chiaro che gli adulti alienati generano soltanto confusione e disarmonia. Certo, i bambini sono centrali, a parole, in ogni concezione adulta dello Spirito, ma solo come corpi di passaggio, nei quali esso si manifesterebbe inconsapevolmente. L’età della cosiddetta maturità discrimina e divide, è «diabolica», dal greco dia-ballo separare, quella infantile non discrimina è, dunque, simbolica, da sin-ballo riunire. L’importanza apparentemente casuale che le cose hanno per un bambino – la sua indifferenza tra materiale ed immateriale, organico ed inorganico – diurno e notturno, reale o immaginale, rappresenta questo punto di vista unificante. Per questo, dalla Cabbala ai Veda, dai Sufi musulmani ai mistici cristiani, la manifestazione della scintilla che vitalizza l’anima mundi, può essere percepita solo da una natura «infantile». Non è liberatoria la scena di Mary Poppins in cui il padre dei ragazzi, appena licenziato, saltella via dall’austera sala del consiglio di amministrazione col suo ombrello strappato? Sarà quello il momento della sua ritrovata serenità profonda, dell’amore per i figli.

Fai la riverenza

Fare la riverenza era un gesto che si insegnava alle ragazze di buona famiglia in segno di rispetto verso qualcuno ma, a differenza dell’inchino, gesto rigido e formale più decisamente maschile e gerarchizzante, anche per sottolineare, con quell’atteggiamento aggraziato del corpo, una forma di equilibrio interiore, segno di una segreta e profonda armonia. Già questa semplice distinzione, diremmo oggi di genere, tra due atteggiamenti di rispetto, fanno comprendere come la percezione e l’espressione del Sacro sia più naturalmente appannaggio della sensibilità femminile, o meglio di quella parte del femminile che vive in ogni essere vivente, la parte che «porta ad effetto» la forza creatrice.

E allora, per comprendere la profondità simbolica della riverenza, il suo significato per così dire archetipico, dobbiamo in primis riferirci al concetto di Sacro. Per una schematica definizione di un campo così vasto, perché onnipervasivo della realtà sottile dell’esistenza, o meglio così avvolgente l’esistenza stessa, sono infatti le cose ad essere nello Spirito e non questo nelle cose, possiamo limitarci a riferire la sua originaria etimologia di sacer cioè separato, rinviando il resto all’omonimo libro di Rudolf Otto. Ma questa separatezza non significa in nessun caso esclusione dalla possibilità di poterlo percepire, anzi, rappresenta solo (solo!) l’unico mezzo per farlo. In poche parole, si deve entrare nel Sacro attraverso la percezione della sua separatezza e poi prepararsi ad affrontare il cammino che ad esso ci ricongiunge.

Ogni spazio dedicato allo Spirito è uno spazio sacro, la cui sacralizzazione deriva proprio da questa separatezza dal mondo profano, cioè letteralmente dalla realtà puramente materiale che resta o dovrebbe «restare fuori dal Tempio». Le Chiese sono, o dovrebbero essere, spazi sacri, nei quali si entra non semplicemente attraversando una porta, non a caso che si apre sempre verso il suo interno, ma inginocchiandosi di fronte al Mistero, segnandosi allo stesso tempo. Questo atteggiamento del corpo predispone dunque all’incontro col Sacro, con il totaliter aliter che, però, informa di Sé tutto. Nei templi della Libera Muratoria lo spazio sacro si crea ogni volta, con rituali che, anch’essi, predispongono attraverso la postura dei corpi, a farsi attraversare dalla luce dello Spirito.

Ma, e qui sta la specificità della riverenza, ci sono gesti che servono a evidenziare la presenza dello Spirito, del Sacro attraverso la Bellezza anche nella quotidianità di spazi profani, posture che hanno, seppure per un solo istante, il potere di sacralizzare l’aura di chi li compie; l’inchino è uno di questi, perché? Perché esso ha, come abbiamo detto, il potere di suscitare la grazia, o meglio le Grazie. Queste divinità fondamentali, nominate nella Teogonia di Esiodo (907) sono le inseparabili compagne di Venere e ne rappresentano, per così dire, le qualità. Sono Aglaia, l’Ornamento ovvero lo Splendore, Eufrosine, la Gioia o la Letizia, e Talia, la Pienezza ovvero la Prosperità. Se cosmo e cosmesi hanno la stessa matrice linguistica, significa che l’equilibrio tra le cose ha bisogno di Bellezza; se poi tutto questo è legato allo splendore, cioè alla luce come simbolo della conoscenza, la triade ci mostra già una strada da seguire. La Gioia poi, cioè quel sentimento di felicità che nasce dal condividere con umiltà l’equilibrio raggiunto, ed infine la Pienezza, cioè la realizzazione di se stessi in tutte le proprie potenzialità in armonia con il resto delle vite, completano il quadro di una riverenza ben fatta.

Ecco, allora che un gesto che le contiene tutte, un gesto aggraziato come dovrebbe essere la riverenza, evoca quell’Afrodite anima del Mondo che Plotino ci dice essere l’Essenza stessa delle cose. Ma non basta: come ci ricorda Davide Susanetti nel suo Luce delle Muse, le Grazie sono strettamente legate alle Muse, queste «splendide ragazze dall’animo concorde», figlie di Zeus e Mnemosine, la Memoria. Create dalle due divinità per rendere stabile il Cosmo, esse formano un’unica voce. Dimorano nell’Olimpo insieme alle Cariti, alle Grazie, e ben si comprende perché siano loro compagne, insieme a Desiderio, unica presenza maschile. Così nella reggia celeste le Muse e le Grazie, non cessano di rallegrale la mente del loro padre, «come se il loro compito fosse di rifare in perpetuo la storia del mondo, di fissare la forma dell’universo nella trama di una voce che mai si interrompe».

Naturalmente, e questo invece pertiene molto ad una certa cultura della colpa, dopo la riverenza, cioè un gesto aggraziato che attira lo sguardo ed ha, come abbiamo visto, una certa connotazione erotica, non può mancare la penitenza, cioè, appunto, il gesto che esprime il senso della colpa, del peccato per aver ceduto alle lusinghe del mondo.

Orsù dai un bacio a chi vuoi tu

Ma, la penitenza dura poco, quasi un atto dovuto per allontanare da sé i beghini benpensanti, i sessuofobi che vedono nell’energia erotica l’impossibile da governare. Ed ecco che finalmente, sbrigata l’incombenza, senza partecipazione dell’anima che ancora aleggia libera nell’aura della riverenza, anzi caricati da questa, si arriva al bacio, per di più «a chi vuoi tu», pienamente titolari delle proprie scelte erotiche, un compimento del percorso iniziato con la figura della «bella lavanderina» che si conclude con il gesto amoroso per antonomasia. E così si chiude il gioco del mondo che la filastrocca ci ha fatto percorrere, le sue case sono state tutte esplorate ed in ognuna abbiamo trovare una risposta e, forse ancora più importante, una nuova domanda per ricominciare il gioco.

Il manifesto/Alias – 9 aprile 2022

lunedì 11 aprile 2022

Micro considerazioni su arte e cultura materiale

 


Giorgio Amico

Micro considerazioni su arte e cultura materiale

Santuario di Montegrazie. Particolare degli affreschi dei fratelli Biazaci (1483). Come da una scena di un affresco della fine del XV secolo, si possono trarre preziose indicazioni "archeologiche" per uno studio della cultura materiale soprattutto dei ceti dominanti dell'epoca. La scena fa parte della storia di S. Giovanni Battista ed è un particolare del riquadro in cui Salomè durante un banchetto porta a Erode la testa del profeta. Noi abbiamo ripreso il dettaglio della tavola imbandita. Da notare la qualità del vetro delle bottiglie (una per l'acqua e l'altra per il vino), la mancanza di forchette (che appariranno solo nel Settecento), la carne servita già tagliata in piccoli pezzi, i piatti quadrati di foggia modernissima, la disposizione del pane, la finezza della tovaglia. Il vino naturalmente è bianco come la maggior parte dei vini liguri di allora.

Una prima valutazione delle presidenziali francesi

 


Una delle cose buone di internet sono le considerazioni che quasi quotidianamente Franco Astengo condivide con una cerchia di amici che comprende anche me. Non sempre le nostre visioni coincidono, ma sempre il suo contributo è uno stimolo prezioso alla riflessione. In un tempo di urlatori sbragati, compresi nomi illustri di cui per carità democristiana (tanto per citare Totò) preferisco non fare il nome tanto sono comunque noti a tutti, le pacate e argomentate considerazioni socio-politiche di Franco Astengo ci rimandano a tempi in cui la politica era forse più dura, ma sicuramente più civile.

G.A.


Franco Astengo

Una prima valutazione delle presidenziali francesi

Spoglio quasi completato per il primo turno delle presidenziali francesi svoltosi domenica 10 aprile: scriviamo, infatti, al 97% delle schede scrutinate e a questo punto è possibile tentare qualche prima valutazione posta sul piano generale, riservandosi una analisi più approfondita posta sul terreno dell’articolazione territoriale.

Molto opportunamente il sito del Ministero dell’Interno francese riporta anche le percentuali sul totale degli aventi diritto: in Italia questo tipo di analisi non si svolge quasi mai e si finisce con lo stravolgere il senso delle percentuali effettive di voto assegnandole soltanto sulla base dei voti validi (sorgono così equivoci come quello clamoroso delle Europee 2014 con il PD attestato a un fasullo 40% ottenuto semplicemente per una massiccia diserzione dalle urne).

Nella Francia 2022 l’astensione è ancora cresciuta e questo elemento deforma il valore delle percentuali ottenute dai diversi candidati.

Andando per ordine, su questo punto: nel 2017 ci si era attestati sul 77,77% dei votanti con l’1,78% di schede bianche e lo 0,78% di schede nulle. Nel 2022 il totale dei votanti è sceso al 74,86% (meno 2,91% : circa 1.500.000 in più di elettrici ed elettori che non si sono recati al seggio).

Nel computo dei voti relativi ai diversi candidati si rileva anche una forte volatilità elettorale (non ancora, però, ai livelli assunti dal fenomeno nelle più recenti elezioni italiane) con la caduta dei due grandi partiti che avevano segnato il bipolarismo francese: il partito socialista e quello gollista (ed eredi) e la grande differenza tra centri urbani e Francia profonda.

Considerato che i due candidati che arriveranno al ballottaggio hanno incrementato il loro plafond passando (al 97% dei voti scrutinati) Macron da 8.656.346 voti a 9.560.579 e Le Pen da 7.678.491 a 8.109.802 diventa fondamentale per capire cosa è successo valutare il crollo di gollisti e socialisti facendo presente prima di tutto un elemento.

Si tratta della divisione a sinistra: la presenza di 5 candidature (compresa quella dei Verdi, che nel frattempo in Francia hanno assunto una dimensione maggiormente “politica” dai tempi ruralisti di Bovè) ha impedito all’ex-socialista ora radical-populista Mélenchon di arrivare al ballottaggio.

La candidatura dell’ex-fondatore di Radio Tangeri è cresciuta in numeri assoluti da 7.059.951 a 7.605.495.

Intorno, a sinistra, registriamo: il pauroso arretramento della candidatura socialista, in questo caso Anne Hidalgo che rispetto a quella di cinque anni fa di Benoit Hamon si ferma a 604.203 voti contro 2.291.288; il comunista Roussel (non presente nel 2017) ottiene 799.352 voti; i Verdi con Jadot 1.587.541 e le due candidature trotzkiste complessivamente 461.720 voti.

Un’ipotetica candidatura da Fronte Popolare (compresi gli ecologisti) avrebbe ottenuto nel 2017 9.978.128 voti saliti nel 2022 a 10.454.108 a dimostrazione che, dal crollo dei socialisti, non si è avuto uno spostamento a destra ma ,considerato il quadro complessivo, semplicemente un maggiore frazionamento.

L’altro punto di caduta che andrà esaminato con attenzione è quello dei gollisti.

La candidatura ufficiale dei “Repubblicani” nel 2017, presentata da Francois Fillon aveva ottenuto 7.212.995 suffragi: nel 2022 Valérie Pécresse, presidente dell’Ile de France, è scesa a 1.658.377 voti con un calo di 5.554.618 suffragi.

Appare evidente che gran parte di questi voti abbiano rappresentato nel 2022 la base del consenso acquisito da Eric Zemmour, ultradestra, che ha raccolto 2.442.673 voti; un’altra parte dei perduti voti gollisti è da ricercarsi (oltre che nell’astensione) nell’incremento ottenuto dalla candidatura Le Pen.

Nella sostanza non c’è complessivamente uno spostamento a destra ma uno spostamento della destra verso l’estrema destra che Macron sta cercando di recuperare corteggiando ( come fa da tempo) l’ala più vicina all’ex-presidente Sarkozy: così la sinistra divisa si limita, pur disponendo di un notevole numero di voti, ad assistere abbarbicata al successo di Mélenchon che verificheremo quanto potrà essere trasmesso e reso efficace nelle elezioni legislative.

In sostanza si può affermare che per la prima volta la candidatura Le Pen di estrema destra non ha fatto il pieno al primo turno e dispone (al contrario dello scontro di 5 anni fa) di margini di crescita: oltre ai 2.442.673 voti di Zemmour sono da considerare anche il 1.095.703 voti di Lassalle (erede di Bayerou) e i 718.240 voti di Dupont – Aignan oltre all’incerta possibile divisione dei voti gollisti.

Macron ha portato avanti una politica di destra sottovalutando l’ampiezza del bacino della sinistra: Mélenchon ha dichiarato “non un voto per la Le Pen” ma non ha invitato a votare Macron.

Esiste allora un margine di incertezza da non trascurare, considerando anche l'articolazione sociale e culturale dell'elettorato di France Insoumise che risulta molto diversa da quella per così dire "classica" di PS, PCF e LO .

Sul voto per Mèlenchon sicuramente hanno insistito frange dei tanti "NO" che agitano l'estremismo europeo dall'emigrazione, all'emergenza sanitaria, alla guerra con richiami che, almeno in Italia, hanno assunto aspetti di dannunzianesimo di ritorno come nel caso del M5S che pure tentarono approcci con il movimento dei "gilet gialli".

Pesa l'incapacità della sinistra francese di valutare le proprie forze nelle diverse componenti e, di conseguenza, l'impossibilità di costruire una qualche dimensione unitaria.

Sarà l’affluenza al secondo turno a decidere il ballottaggio e soprattutto la possibile partecipazione di elettrici ed elettori della sinistra, perché la volatalità elettorale tra il primo e il secondo turno non è così scontata come si verificò invece nel 2002, quando Chirac raccolti 5.665.855 voti al primo turno volò al secondo a 25,537,956 facendo il pieno dell’antifascismo francese e surclassando Le Pen sr. Passato da 4.804.713 a 5.525.032 ( su Chirac si assestarono gli oltre 4 milioni di voti socialisti di Jospin, i quasi 2 milioni del centrista Bayerou, mentre va ricordato che in quell’occasione le due candidature trotzkiste di Lotte Ouvriere e della LCR finirono davanti a quella del PCF).


domenica 10 aprile 2022

La più piccola e più bella biblioteca del mondo



La più piccola e più bella biblioteca del mondo, aperta 24 ore su 24  7 giorni su 7, a disposizione di chiunque, passando, abbia voglia di sedersi e dedicare un po' di tempo alla lettura, si trova in un caruggio del Parasio, il cuore medievale di Porto Maurizio sospeso fra l'azzurro del cielo e il blu intenso del mare.

L'ho scoperta per caso, passando di lì dopo anni.

Conosco i luoghi, ci abitai bambino nel 1954 e quel caruggio allora era in abbandono.

Oggi i vecchi edifici medievali sono stati restaurati e in una nicchia nella parete è stato ricavato uno spazio per i libri, il tutto reso più confortevole da un tappetino e due poltroncine. Il caruggio è coperto da una volta e abbellito da piante ornamentali.

Siamo in un vicolo, ma pare di essere in un salotto.

Prendo un libro a caso e lo sfoglio, impossibile sfuggire alla magia del luogo.

Per un attimo il mio cuore è leggero come quando ero bambino.



Il tempo della rivolta

 


Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta”. Lo scrisse Camus agli inizi degli anni '50 e il concetto ha mantenuto nel tempo intera la sua validità. Ma cosa vuol dire oggi rivolta? Ce lo spiega uno studio accurato e affascinante di Donatella Di Cesare di cui presentiamo l'incipit.

Donatella Di Cesare

Il tempo della rivolta

“La rivolta irrompe ovunque nel mondo. Si accende, si spegne; torna a propagarsi. Varca i confini, scuote le nazioni, agita i continenti. Uno sguardo alla mappa delle sue esplosioni repentine, dei suoi moti imponderabili, ne attesta l’intermittenza nel frastagliato paesaggio politico del nuovo secolo. All’estensione si accompagna l’intensità. La topografia delinea uno scenario dove il confronto si fa contrasto, dissidio, lotta aperta. Le proteste dilagano, gli atti di disobbedienza si moltiplicano, gli scontri si intensificano. È il tempo della rivolta.

Sebbene il fuoco sembri labile, e l’evento fugace, la rivolta non può essere considerata una congiuntura effimera. Nelle sue alternanze è un fenomeno globale che promette di essere duraturo. Neppure la pandemia ha potuto fermarla. Mentre molti si interrogavano già sulla pólis sparita, sullo spazio pubblico perduto, la rivolta è riemersa, travolgente e incontenibile, da Buenos Aires a Hong Kong, da Rio de Janeiro a Beirut, da Londra a Bangkok. La miccia di una nuova deflagrazione si è accesa a Minneapolis. I can’t breathe, le ultime parole di George Floyd, pronunciate mentre il suo carnefice continuava a soffocarlo, hanno assunto un valore emblematico per via di una coincidenza non casuale, rivelata dal segreto sincronismo della storia. Quella morte terribile non è stata effetto del biovirus che toglie il respiro, ma opera di un sopruso razzista perpetrato con tecnica poliziesca.

D’un tratto il respiro è apparso in tutto il suo significato esistenziale e politico. I can’t breathe è assurto a inno delle rivolte, insieme atto d’accusa contro la prevaricazione e denuncia di quel sistema d’asfissia che ruba il fiato. Nel vortice compulsivo del capitale, quella spirale catastrofica che ha reso il respiro un privilegio per pochi, è l’affanno degli sfruttati che viene in primo piano, di quanti devono piegarsi al ritmo accelerato senza pausa, dei più vulnerabili confinati all’angustia opprimente. I can’t breathe è divenuto così lo slogan che rivendica il diritto di respirare, cioè il diritto politico di esistere”.


Donatella Di Cesare insegna Filosofia teoretica alla Sapienza Università di Roma. È tra le voci filosofiche più presenti nel dibattito pubblico sia accademico sia mediatico. Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo Terrore e modernità (2017) e Marrani. L’altro dell’altro (2018).
Per Bollati Boringhieri ha recentemente pubblicato Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» (2014 e 2016), Heidegger & Sons. Eredità e futuro di un filosofo (2015), Tortura (2016), Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (2017; Premio Pozzale per la saggistica 2018; Premio Sila per economia e società 2018) e Sulla vocazione politica della filosofia (2018; Premio Mimesis Filosofia 2019) e Virus sovrano? L’asfissia capitalistica (2020


Donatella Di Cesare
Il tempo della rivolta
Bollati Boringhieri, 2020


venerdì 8 aprile 2022

Storia dell'Ucraina

 


A chi voglia approfondire la intricata questione ucraina, consigliamo questo libro del Prof. Massimo Vassallo, uscito nel 2020, e dunque in epoca non sospetta, che ricostruisce nei dettagli la storia millenaria dell'Ucraina. Proponiamo alcuni passi della corposa introduzione dedicati alla storia recente. Da notare come l'autore, il più importante studioso italiano della materia, consideri – e siamo a meno di due anni fa – possibile ma molto improbabile una aggressione russa.


Introduzione

(...) La grande rivolta cosacca di Bohdan Khmel’nyc’kyj iniziata nel 1648 (...) diede per la prima volta uno Stato al popolo ucraino da poco venuto compiutamente, e irrevocabilmente, alla luce. Questo Stato ucraino, l’Het’manato (XVII-XVIII secolo) non raggiunse mai la piena e completa indipendenza (...) e fin dal 1654 fu in una relazione con Mosca abbastanza ambigua (---) mai l’Het’manato comprese la totalità dell’Ucraina di oggi e nella forma in cui si cristallizzò dopo il 1667 fu nei fatti limitato all’Ucraina centrale e centro-orientale odierna; dopo il 1709, e soprattutto a partire dal 1722, per giunta il controllo russo divenne sempre più soffocante.

Ciò però non sminuisce in alcun modo l’importanza storica dell’Het’manato cosacco ucraino anzi in un certo senso la aumenta: fu l’Het’manato a rappresentare per tutto l’Ottocento l’ideale cui pensarono con nostalgia i primi nazionalisti ucraini, (...) e fu lì che molte tradizioni oggi ritenute essenzialmente ucraine, anche nel folclore, si consolidarono e presero forma (...).

Alla fine del XVIII secolo la maggior parte delle terre ucraine occidentali (rimaste polacche sino a quel momento, donde la polonizzazione delle classi dirigenti il che aiuta a spiegare la mancanza di élites nazionali ucraine) vennero in potere dell’Impero russo, tranne la Galizia che dal 1772 fece parte della Monarchia asburgica.

L’esperienza austriaca della Galizia (1772-1918) che la contraddistingue in maniera radicale dal resto delle terre ucraine più ad oriente tanto quelle rimaste polacche sino alle spartizioni quanto le aree del vecchio Het’manato e a fortiori quelle situate più a est e più a sud, è stata fondamentale e ha avuto effetti dirompenti che permangono tuttora.

Innanzitutto in Galizia, al riparo del tollerante governo asburgico, poté mantenersi l’Unione religiosa che ha impregnato di sé l’ἔθος galiziano a tal punto da rendere di fatto ormai inscindibile l’identità galiziana e l’appartenenza alla fede greco-cattolica.

Poi in Galizia, con l’incoraggiamento o almeno la tolleranza delle autorità costituite, poté svilupparsi nella seconda metà dell’Ottocento in tutta libertà un movimento nazionale ucraino che si temprò nella dura battaglia intrapresa nella stessa Galizia contro il polonismo e, ancor più, nell’epocale e asperrima lotta culturale contro le altre correnti ideologiche allora presenti nella popolazione slava orientale del luogo (la russofilia e il rutenismo), riuscendo alfine vincitore assoluto entro il 1914: la Galizia svolse quindi un ruolo di “Piemonte” ucraino, per usare l’espressione di un libro di Paul Robert Magocsi10 e contribuì in modo essenziale alla Vidrodžennja o Rinascita ucraina!

Fu la sola presenza della Galizia, situata al di fuori del potere repressivo della burocrazia imperiale russa, che rese possibile all’incipiente movimento nazionale ucraino nell’Impero russo di sopravvivere, ad esempio fornendo asilo per gli esuli dall’Ucraina russa.

Fu solo l’esistenza di una Galizia, non soggetta agli ukazy dello Zar, che permise la sopravvivenza della lingua ucraina come moderna lingua scritta di cultura, nei lunghi e oscuri anni, durati un quarantennio sino al 1905, in cui il mero utilizzo dell’ucraino fu bandito nell’Impero russo (circolare Valuev del 1863, decreti di Bad Ems del 1876). (...)

Lo scoppio della Grande Guerra nel 1914 e la rivoluzione russa del 1917 (che ne fu conseguenza) resero possibile la creazione del secondo Stato ucraino, questa volta del tutto indipendente (dal gennaio 1918), ancorché effimero (dapprima chiamato UNR=Ukraïns’ka Narodna Respublika, indi UD=Ukraïns’ka Deržava, poi di nuovo UNR).

(...)

Alla fine del quadriennio rivoluzionario (1917-1921) le terre ucraine si trovarono divise fra quattro Stati, in luogo dei due che se le spartivano nel 1914 (Impero russo e Austria-Ungheria).
L’Ucraina asburgica venne divisa fra la rinata Polonia (Galizia, dal 1919/1923), l’ingrandita Romania (Bucovina, dal novembre 1918) e la neonata Cecoslovacchia (Ungheria nord-orientale, dal 1919/1920). L’Ucraina russa si trovò divisa fra una piccola parte che andò nel 1921 alla Polonia (la Volinia occidentale che era inclusa nella Russia “propria” più la Kholmščyna che faceva invece parte del cosiddetto “Regno di Polonia”) e una grande parte che divenne l’Ucraina sovietica, in teoria indipendente all’inizio (ma già strettamente collegata a Mosca e alla RSFSR) e poi dal 30/12/1922 parte dell’URSS.

L’Ucraina sovietica, non indipendente ma nondimeno provvista delle caratteristiche fondamentali di uno Stato, costituisce il terzo Stato ucraino.

La politica di ucrainizzazione che, sotto veste sovietica, fu intrapresa nei ’20 e nei primissimi ’30 ebbe enorme impatto e, per quanto in parte revocata a partire dal 1933 circa, qualcosa rimase e impedirà anche in seguito la piena russificazione/sovietizzazione dell’Ucraina (…)

A partire dal 1939 l’obiettivo dei nazionalisti ucraini fu paradossalmente realizzato dal loro mortale nemico, Stalin, che realizzò per la prima volta effettiva l’unificazione di praticamente tutte le terre ucraine in un unico Stato ucraino, sebbene non indipendente ma sovietico; Stalin infatti annesse all’Ucraina sovietica, nel 1939 quasi tutta l’Ucraina polacca (Volinia occidentale; Galizia), nel 1940 l’Ucraina romena (Bucovina del nord e distretto bessarabo di Khotyn; Bessarabia meridionale) e nel 1945 financo la Transcarpazia (cecoslovacca fra le due guerre e in precedenza inclusa nella Corona di Santo Stefano); restarono fuori dai confini dell’Ucraina sovietica solo pochissimi ucraini, ovvero quelli nel nord del Maramureş romeno e nella Slovacchia orientale (aree comprese nell’Ungheria nordorientale sino al 1918, esattamente come la Transcarpazia), oltre ai Lemko della Galizia occidentale e a pochi altri ucraini (massime in Kholmščyna) che nel 1939 toccarono al cosiddetto Generalgouvernement tedesco e dal 1945 sono nella Polonia nuovamente restaurata, pur con frontiere ben diverse da quelle prebelliche.

Stalin quindi fu colui che più di tutti, per ironia della sorte, realizzò in pratica gli obiettivi dei più accesi nazionalisti ucraini! e sarà un altro sovietico, il futuro denunciatore di Stalin la cui carrierà fu diverse volte in passato legata all’Ucraina e cioè Nikita Khruščëv, che arrotondò l’Ucraina nel 1954 con il “gentile” dono della Crimea russa (...)

La dura occupazione tedesca (1941-1944) lasciò infiniti lutti, provocò massacri immani (soprattutto di ebrei, ma anche di ucraini e all’ovest di polacchi soprattutto in Volinia) e lasciò strascichi che ancora oggi avvelenano il discorso politico ucraino e hanno valenza regionale; tuttavia ben poco di quanto avvenne in quegli anni di ferro ha avuto dirette conseguenze storiche in Ucraina, se eccettuiamo l’opportunità che allora ebbero diversi ucraini, sia veterosovietici (cioè dimoranti nell’Ucraina sovietica nei confini del 1/9/1939) che neosovietici (cioè residenti nei territori annessi nel 1939-1940), fra i quali un congruo numero di intellettuali (...), di sfuggire al potere del Cremlino riparando all’estero dove poi tennero accesa la fiaccola del nazionalismo ucraino che, spenta in patria, continuò nell’esilio, tornando infine ad ardere più forte che mai alla fine degli anni ’80 in Ucraina e da allora non si è più spenta.

Gli stessi occupanti tedeschi riconobbero, o quantomeno intuirono, la diversità della Galizia (già austriaca) dal resto dell’Ucraina (già russa imperiale) e la sottoposero ad un’amministrazione civile differente, egualmente mortifera e tragica per ebrei e polacchi, ma infinitamente più mite per gli ucraini; si può speculare cosa avrebbe potuto succedere se gli stessi metodi applicati in Galizia fossero stati adottati nel resto dell’Ucraina o almeno nella parte sottoposta ad amministrazione civile, in quanto occorre fare una nettissima distinzione fra aree affidate al governo civile e aree rimaste sotto amministrazione militare: la vecchia Ucraina russa venne infatti suddivisa fra Reichskommissariat Ukraine (sotto il brutale Koch) e aree di diretta amministrazione militare (con un governo di solito più “umano”, almeno per la popolazione slava (...).

Per una quarantina d’anni dopo il 1945 l’Ucraina sovietica ebbe scarsi spazi di autonomia anche se l’adesione all’ONU con seggio separato (insieme alla Bielorussia sovietica) e la partecipazione in modo distinto a varie agenzie internazionali rafforzarono, col senno del poi, la statualità ucraina e resero un po’ più semplice la vita della successiva Ucraina indipendente.

Con l’avvento della perestrojka, soprattutto a partire dal 1988, iniziarono dinamiche che presto sfuggirono a ogni controllo; dal 1988 al 1991 il nazionalismo ucraino, fino ad allora dormiente, si fece di giorno in giorno più forte e spavaldo, pur restando fenomeno minoritario e limitato nei fatti alle terre che negli anni interbellici furono polacche (Galizia e Volinia occidentale) e alle élites intellettuali di Kyïv.

In particolare in Galizia, dove la rinascita nazionale si accompagnò alla rinascita religiosa della Chiesa greco-cattolica (nell’inverno 1989/1990) dopo oltre quattro decenni di persecuzioni, l’appoggio ai nazionalisti fu di massa, al livello del Baltico, e sin dal 1990 le città galiziane furono desovietizzate.
All’estremo opposto (geografico ma non solo), nel Donbas russificato e soprattutto sovietizzato, nulla o quasi cambiò anzi sin da quest’epoca vi furono i primi segnali di una reazione sovietico-comunista contro i nazionalisti accusati di turbare la quiete pubblica.

Il fallito “golpe” di Mosca dell’agosto 1991 rese possibile, se non addirittura inevitabile, l’indipendenza dell’Ucraina (24/8/1991), altro caso di eterogenesi dei fini.

Nacque allora il quarto Stato ucraino, cioè l’Ucraina indipendente, che confermò plebiscitariamente la sua voglia di rompere con il sovietismo durante il referendum del 1/12/1991 che diede una maggioranza schiacciante per l’indipendenza, anche nel Donbas e di misura perfino in Crimea elevata da poco al rango di Repubblica autonoma entro l’Ucraina.

L’Ucraina indipendente non ha finora avuto vita facile e ha già subito autentiche svolte dal lato politico: l’elezione di Kučma contro il filo-nazionalista Kravčuk nel 1994; la “rivoluzione arancione” di fine 2004 che si concluse con la vittoria di Juščenko che tante speranze suscitò, andate quasi tutte deluse; la “rivoluzione” del febbraio 2014 che pose fine alla presidenza del filo-russo Janukovyč e aprì una nuova fase nella storia ucraina, caratterizzata dalla forte desovietizzazione in politica interna, da una politica ferma nei confronti della Russia e da una chiara scelta filo-occidentale e filo-europea; infine l’elezione plebiscitaria di Zelens’kyj nel 2019, con i primi segni di una certa qual reazione alle politiche del quinquennio precedente.

L’annessione russa della Crimea (marzo 2014) e lo scoppio della rivolta separatista, abbastanza apertamente sostenuta da Mosca, negli oblasti di Donec’k e Luhans’k (collettivamente noti come Donbas) in quella stessa primavera, sono stati un duro colpo per l’Ucraina ma le peggiori conseguenze appaiono tuttavia superate: il separatismo è stato controllato e non è riuscito a diffondersi a macchia d’olio nelle altre aree russofone dell’Ucraina meridionale e orientale come verosimilmente i separatisti speravano e, se la Crimea resta russa e ben difficilmente tornerà ucraina, la posizione del governo di Kyïv si è rafforzata a livello internazionale, incassando diverse solidarietà, il che dovrebbe rendere più difficile un’ulteriore aperta e seria aggressione contro l’Ucraina, sebbene l’eventualità non possa ancora essere esclusa del tutto.(...)


MassimoVassallo
Storia dell'Ucraina
Mimesis, 2020

giovedì 7 aprile 2022

Odessa. Splendore e tragedia di una città di sogno

 


Nel 2013 esce per Einaudi la traduzione italiana di un libro splendido, scritto da un professore universitario americano innamorato di Odessa, scoperta , pensate un po', leggendo Mark Twain che un secolo prima aveva visitato la città. Il libro, davvero molto bello, rappresenta un atto d'amore verso la città, i suoi abitanti, la sua storia. L'autore parla di momenti di splendore e di grandi tragedie come elementi connotanti la storia di questa città di sogno. Quando lo leggemmo ne fummo molto colpiti, soprattutto per i continui rimandi a personaggi e opere della grande letteratura russa. Riprenderlo in mano oggi, mentre la città vive una delle ore più buie della sua storia, suscita purtroppo impressioni meno gioiose. Ma proprio per questo ne consigliamo vivamente la lettura, riproponendo una parte dell'introduzione.

Introduzione

Quando, alla fine dell’estate del 1867, Mark Twain visitò Odessa, ebbe subito l’impressione di essere a casa.

Aveva fatto scalo nel celebre porto russo durante quella che si può definire la prima crociera di piacere intorno al mondo, un viaggio nel Medio Oriente, che in seguito raccontò nel suo libro Gli innocenti all’estero. Dopo un giro di ventiquattr’ore intorno al Mar Nero sul battello a vapore americano Quaker City, Mark Twain scese a riva per visitare la cascata di gradini di pietra di Odessa – una delle scalinate piú famose al mondo – che, dal bacino portuale, conduce alla città alta. Una volta in cima, come ogni altro visitatore intento ad ammirare il panorama del porto, incappò nella piccola statua del duca di Richelieu, uno dei primi monumenti della città, che sembrava tendergli la mano accennando a un saluto. Mark Twain si diresse verso le colline e contemplò i silos di grano e il molo in lontananza. Dietro di lui, sorgeva il centro della città, immerso nell’incessante ronzio delle mille attività di scambio, commercio e navigazione.

Ampie strade ben tenute si incrociavano ad angolo retto. Casette basse di due o tre piani costeggiavano i viali. Facciate disadorne intonacate di giallo e azzurro riflettevano la luce del sole che, dalle acque immobili del Mar Nero, si diffondeva verso la riva. I rami delle acacie si protendevano sopra i marciapiedi brulicanti di gente intenta a godersi l’aria estiva, mentre nuvoloni di polvere si sollevavano al passaggio delle carrozze. «Guardatevi intorno, in alto o in basso, da una parte o dall’altra, – scrisse Twain, – vedrete solo una copia dell’America!».

Era un modo strano di vedere le cose. Mark Twain si trovava in una città fondata da un mercenario napoletano, battezzata da un’imperatrice, governata dal marito segreto di lei, costruita da due nobili francesi in esilio, modernizzata da un conte educato a Cambridge e celebrata dall’amante russo della moglie di quest’ultimo. Era una delle piú grandi città russe e il porto commerciale piú importante dell’Impero, anche se si trovava piú vicino a Vienna e ad Atene che a Mosca e a San Pietroburgo. Almeno per un quarto, la popolazione era costituita da ebrei.

Non molto tempo dopo il viaggio di Mark Twain, la città fu testimone di uno dei piú terribili episodi di violenza antisemita della storia della Russia. Gli ebrei furono massacrati per strada, in continue esplosioni di odio e di terrore incontrollati. In seguito, in un capitolo dimenticato dell’Olocausto, la comunità ebraica di Odessa (che a quell’epoca costituiva un terzo della popolazione) fu annientata dal piú radicale programma di distruzione bellica perpetrato da un paese che non era la Germania nazista, e cioè la Romania, alleata del Terzo Reich. Ciò che Mark Twain aveva percepito nelle strade e nei cortili di Odessa era la straordinaria capacità di unificare nazionalità diverse e di ricreare in tal senso la propria identità, generazione dopo generazione, proprio come succedeva nella sua patria americana. Quello che invece non era riuscito a vedere era la tendenza della città a immergersi con agghiacciante regolarità nel precipizio dell’autodistruzione.

All’epoca della sua visita, Odessa stava ancora cercando di sviluppare la sua peculiare fisionomia, che i sostenitori caldeggiavano e che invece i detrattori svilivano: un gusto per l’arguto e per l’assurdo, una patina di cultura russa applicata alle tradizioni yiddish, greca e italiana, un’economia caratterizzata da continui alti e bassi, una passione per la figura del dandy negli uomini e per la fanciulla spregiudicata nelle donne, uno stile nella musica e nella scrittura che associava l’abbandono di tipo libertino alla sperimentazione ben controllata e un modo di abbordare la politica che oscillava con audacia dalle posizioni piú radicali a quelle piú conservatrici. Molti di questi valori e di queste abitudini finirono per essere assorbiti dai nuovi locali che fiorivano un po’ ovunque, dai club di jazz di Leningrado ai saloni per banchetti dei borscht-belt delle montagne Catskills o di Brighton Beach. Rispetto ai quattro stati che l’avevano governata – l’Impero russo, l’Unione Sovietica, la Romania (come potenza occupante) e ora l’Ucraina – Odessa si era distinta per il suo carattere unico di città cosmopolita e multicolore, uno sfaccettato microcosmo arroccato tra il mare e la steppa e tuttavia minacciato dalla sua stessa policroma personalità. «Odessa non possedeva una sua tradizione, ma non aveva timore di sperimentare nuove forme di vita e nuove attività», rammenta Vladimir Jabotinskij, attivista sionista nativo della città. «Questa condizione ci ha permesso di sviluppare piú temperamento e meno passione, piú cinismo forse, ma meno amarezza».
A partire dalla sua fondazione, nel 1794, fino a oggi, Odessa ha lottato per sopravvivere tra i due opposti poli del successo e dell’autodistruzione. Come molte altre vivaci città portuali e come molti tessuti urbani multiculturali, essa ha sempre liberato i suoi demoni piú vitali, quegli spiritelli che incarnano le muse palpitanti della società metropolitana e i creatori instancabili dell’arte e della letteratura. Spesso, tuttavia, ha lasciato emergere anche i lati piú oscuri, quelli che stanno in agguato nei vicoli e bisbigliano parole di odio religioso, invidia di classe e vendetta etnica. Quando tutto andava per il meglio, Odessa era in grado di formare artisti e intellettuali il cui talento seppe illuminare il mondo. Quando invece tutto crollava, il nome della città divenne sinonimo di fanatismo, antisemitismo e bieco nazionalismo.

Questo libro segue l’arco della storia di Odessa sin dagli albori della sua esplosione urbanistica, passando dalle tragedie che hanno costellato il XX secolo, fino a quella che si può considerare la sua consacrazione al regno del mito e della leggenda. Intende tracciare la storia attraverso cui generazioni di odessiti, nativi o trapiantati, hanno costruito una città con un assetto unico nel suo genere, un luogo chiamato a diventare il porto piú ambito della Russia e la fonte di ispirazione di scrittori come Aleksandr Puškin e Isaak Babel´. La storia della città si intreccia con quella di alcune vite individuali emblematiche, celebri o oscure, che l’hanno resa la patria prediletta di ebrei, russi, ucraini e molti altri.(…)



Charles King
Odessa
Splendore e tragedia di una città di sogno
Einaudi, 2013

L'albero capovolto. Lezioni sulla Torah

 


Un libro che aiuta a comprendere le radici profonde dell'ebraismo

L’albero capovolto vuole essere una descrizione sistematica di alcuni temi fondamentali dell’ebraismo. Il metodo è particolarmente interessante: una serie ordinata di citazioni classiche dalla Torah ai commenti rabbinici anche recenti, che vengono esposte e spiegate, per chiarire progressivamente i termini dei problemi. Il titolo ripropone l’immagine dell’albero capovolto, che è quella scelta dai Maestri per spiegare la similitudine biblica dell’uomo con l’albero che, come in ogni confronto, rivela elementi comuni e differenze. Le radici dell’uomo a differenza di quelle dell’albero sono rovesciate, in alto, è da lì che egli trae la sua linfa vitale. In cosa consista questa linfa e quanto importi per noi è il compito che questo libro si propone di illustrare.

(dalla Prefazione di Riccardo Di Segni)

Alberto M. Somekh

L’albero capovolto
Lezioni sulla Torah
Giuntina, € 16

La Rafanhauda.


 

È disponibile l'ultimo numero de La Rafanhauda, la bella rivista di Chiomonte, dedicata al recupero della lingua e della cultura materiale, oltre che della storia del territorio. Tra i temi trattati in questo numero, una biografia dell'ammiraglio De Geneys, padre della moderna marina militare sabauda che ignoravamo fosse di origini chiomontine. Articolo particolarmente interessante perché tratta della marina sarda, del suo costante impegno per larga parte del settecento contro i pirati barbareschi che minacciavano soprattutto le coste della Sardegna fino alla sconfitta subita nel 1798 dalla Francia rivoluzionaria. Segnaliamo poi l'articolo di Alessandro Strano, Dal bosco alla lietto, dedicato ad uno studio particolareggiato del tipo di legno usato per costruire le slitte (lietto) mezzo fondamentale di trasporto e di lavoro durante gli allora nevosissimi inverni chiomontini. Molto interessante anche lo studio di Silvia Piombino sulla genzianella, una delle erbe alpine spontanee più conosciute, oltre che per la bellezza del fiore, per l'uso che se ne fa nella produzione di distillati.Completano il fascicolo, come sempre riccamente illustrato, una presentazione dell'opera poetica di Daniele Ponsiero e la pubblicazione di un documento partigiano recentemente ritrovato che fornisce nuove informazioni sulla Resistenza in valle.

La rivista può essere richiesta al seguente indirizzo:

larafanhauda@gmail.com

lunedì 4 aprile 2022

Orvieto etrusca

 


Che la storia degli etruschi sia piena di misteri è un luogo comune. Uno di questi è la collocazione della città di Velzna, capitale politica e religiosa della Dodecapoli etrusca. Tra la fine dell'Ottocento e primi decenni del Novecento si sviluppò una vivace, ma anche confusa, diatriba se Velzna dovesse essere identificata con l'attuale Orvieto o con Bolsena. Un dibattito che, come dimostra Massari nell'introduzione che riprendiamo quasi integralmente, prese poi negli anni del fascismo carattere politico e perfino economico, legato com'era al commercio dei reperti etruschi. Insomma, un vero e proprio giallo. E piacevole come un giallo è leggere il libro di Pericle Perali, uscito originariamente come saggio nel 1905 e poi in volume nel 1928. Una vera e propria riscoperta di un testo colpevolmente dimenticato per decenni e ancora oggi ostracizzato dagli “addetti ai lavori” per motivazioni, come dimostra Massari, non sempre confessabili.


Roberto Massari

Una congiura del silenzio ben poco etruscologica

Premetto d’essere partigianamente a favore dell’opera che qui presento dell’orvietano Pericle Perali. Lo considero, infatti, l’unico etruscologo (a parte il paletnografo Ugo Antonielli, altro orvietano e suo entusiasta sostenitore) ad aver mostrato la logica storico-archeologica che sottende e unisce due tesi in genere tenute separate o erroneamente accorpate: la Velzna etrusca stava dove doveva stare (sui colli Volsinei) e il Fanum di Voltumna stava dove doveva stare (cioè a Orvieto). Aggiungo che, per mia ignoranza del testo di Perali all’epoca in cui scrivevo il mio Volsinii etrusca nelle fonti greche e latine (Bolsena 2020), non ebbi modo di segnalarlo come il principale antecedente della teoria che nel libro formulavo su Orvieto. Mi resta solo il dubbio se in passato qualcun altro - oltre a Francesco Orioli (†1856) - ha formulato l’ipotesi per ora solo mia, secondo cui i riferimenti liviani al Fanum indicano anche il nome dell’antica zona sacra sita sulla rupe orvietana e intorno ad essa, come il dato archeologico sta confermando definitivamente. Ed è con questo spirito totalmente partigiano che invito il lettore ad accompagnarmi nella riscoperta di uno studioso colpito dalla damnatio memoriae ad opera dei suoi stessi ingrati concittadini.

Oblio ingiusto di due grandi studiosi orvietani

Nel 1928, quando uscì l’edizione rinnovata di Orvieto etrusca - in forma di libro e non più come saggio del 1905 interno a una rivista specialistica - la congiura del silenzio contro l’opera di Perali non era ancora cominciata. Anzi, tutto il contrario, se si pensa che il libro fu pubblicato «a cura del Podestà di Orvieto» e stampato a Roma dalla Tipografia del Senato. E anche la dotta ed entusiastica introduzione di Ugo Antonielli - uno dei massimi paletnografi italiani, successore di Luigi Pigorini (un monumento nazionale nel campo dell’etnografia preistorica, morto tre anni prima) e direttore del Museo omonimo - contribuiva ad accrescerne l’ufficialità. Si aggiunga che il 1928 non fu un anno qualsiasi nella storia d’Italia, perché allora nacque effettivamente il «regime» fascista: adozione della nuova legge elettorale; instaurazione del totalitarismo in campo scolastico, linguistico, giudiziario, corporativo-sindacale, di stampa e radio; partenza a pieno ritmo dell’azione politico-repressiva da parte del Tribunale speciale (attivo dal 1927) con condanne a valanga, mentre si preparava il Patto col Vaticano che sarà firmato l’anno dopo. Ebbene, l’etruscologia non fu neutrale. Ci fu un utilizzo ideologico del dibattito sulla provenienza tur(s)enica (orientale o autoctona), con strumentalizzazioni razziste e nazionalistiche, e con diramazioni in campo artistico e letterario1: il tutto sotto impulso dei principali etruscologi, i più noti dei quali, fascistissimi e collaboratori del regime in campo culturale, furono tra gli altri, oltre a Massimo Pallottino, Doro Levi (Trieste 1898-Roma 1991), Pericle Ducati (Bologna 1880-Cortina d’ampezzo 1944) e Giulio Quirino Giglioli (Roma 1886-1957), scopritore dell’Apollo di Veio, deputato del Partito nazionale fascista nel 1934. Ma fascista e filohitleriano fu anche Ranuccio Bianchi Bandinelli [1900-1975], prima di convertirsi all’antifascismo militante (Partito d’Azione e poi Pci) nel 1944.

Un atto importante per la futura valorizzazione propagandistica (ma anche scientifica) dell’etruscologia era stato compiuto nel 1925 con la fondazione a Firenze dell’Istituto nazionale di Studi etruschi e italici. Sotto la sua supervisione s’iniziò nel 1927 la pubblicazione della rivista annuale Studi Etruschi e tra aprile e maggio del 1928 - l’anno di Orvieto etrusca - fu convocato il I Congresso Internazionale Etrusco. Il lavoro di Perali e la concorde introduzione di Antonielli non potevano che essere valide carte di presentazione per entrambi nell’àmbito dei lavori di tanto illustre consesso. E quanto illustre esso fosse lo sta a dimostrare la lista dei 360 partecipanti italiani ed esteri, in larga parte membri dell’Istituto. Più o meno nella stessa epoca a Perali fu intestata una strada a Roma, nei pressi della stazione di Ottavia (terminata nel 1927), come atto onorifico giacché nella stessa zona erano stati trovati l’ipogeo degli Ottavi (nel 1920) e tracce d’epoca etrusca pertinenti l’asse viario proveniente da Veio. Mai però fu intestata, nella loro città natale, una strada a lui e all’altro celebre orvietano, Ugo Antonielli. Ancor oggi i loro nomi sono sconosciuti nella toponomastica di Orvieto. Ragion per cui, le brevi note che seguono cercheranno di fornire elementi per una prima riflessione su questo grave vulnus (sgarbo?) alla loro memoria di studiosi. E si vedrà che non è stato mai perdonato loro di aver così strenuamente difeso l’ubicazione bolsenese e non orvietana dell’antica Velzna etrusca.

Dal garbuglio all’imbroglio

Conviene partire da alcuni dati sugli inizi della questione, per darle un minimo d’inquadramento storico. Nel 1905, quando uscì la 1ª versione di Orvieto etrusca, l’argomento era ancora oggetto di una discussione teorica, anche se ben poco scientifica, fra etruscologi. Esisteva una lunga tradizione, a dir poco bimillenaria, che aveva sempre riconosciuto nella città sita sui colli volsinei la diretta discendente della città-stato di Velzna, capitale politica e religiosa della Dodecapoli etrusca centroitalica. Era quindi dato per acquisito che il centro cittadino si fosse spostato dalle alture (Mozzeta di Vietena e dintorni) a siti in maggiore prossimità al lago (Poggio Moscini e dintorni) dopo la repressione della rivolta servile (264 a.C.), di cui parlano ampiamente le fonti latine e greche. Riguardo a tale forzoso spostamento urbanistico, il consenso era stato sempre generale, includendo anche fonti autorevoli come George Dennis (1814-1898) e Karl Otfried Müller (1797-1840) nel suo Die Etrusker del 1828 (vol. I, pp. 220-2). Lo stesso Müller, però, aveva avuto un parziale ripensamento e nello stesso tomo, in una noticina di p. 451, aveva espresso il dubbio che Velzna fosse ubicata originariamente a Orvieto. Una semplice frasetta che però, nell’edizione del 1877, il curatore Wilhelm Deecke (1831-1897) farà scomparire, considerandola probabilmente controproducente per lui che credeva sul serio che Velzna stesse a Orvieto. Sicché col tempo la frasetta del 1828 era diventata irreperibile, ma in qualche modo doveva esser girata la voce che Müller aveva cambiato idea, tant’è vero che alcuni studiosi di fine Ottocento cominciarono a far propria tale posizione, attribuendola artificiosamente allo studioso prussiano, senza distinguo di sorta e soprattutto senza mai citare la famigerata frasetta. Era nata comunque la leggenda che esistesse una «teoria» di Müller sull’ubicazione orvietana di Velzna: credenza ancor oggi in pieno auge presso i principali etruscologi che continuano a ignorare il testo mülleriano e, per ignoranza o malafede, non citano la frasetta in questione.

Nel corso dell’Ottocento la tesi degli «orvietani» (d’ora in avanti chiamerò in tal modo i sostenitori dell’ubicazione di Velzna in Orvieto, per distinguerli dai «bolsenesi») trovò proseliti, ma anche oppositori e a volte una confusa mescolanza dei due, creando una sorta di garbuglio teorico, se non un vero e proprio guazzabuglio. I contributi alla discussione dati da studiosi come Chevalier Bunsen (1791-1860), Niccola Palma (1777-1840), Francesco Orioli (1783/85-1856), Luigi Canina (1795-1856) e gli altri sopra citati, sono stati comunque tutti analizzati nel mio lavoro già segnalato, dove credo di essere riuscito a dipanare in gran parte il garbuglio.

A parziale spiegazione, e forse giustificazione della confusione tra gli etruscologi di fine Ottocento, va detto che le ricerche archeologiche sui colli volsinei (e non nella sola città etrusco-romana) stentavano a partire, e soprattutto ancora non era stato intrapreso lo scavo di una parte dei 6 km della cinta muraria di Velzna (che comincerà solo negli anni ’40), anche se Perali aveva parlato già da tempo di quei «grandiosi muri tufacei etruschi nelle vicinanze della moderna Bolsena» (per es. nella conferenza per la Società Storica Bolsenese, a luglio del 1905).

Va riconosciuto, comunque, che si trattò pur sempre di una discussione teorica, con argomenti più o meno condivisibili da una parte e dall’altra, venata di quel tanto di toni polemici che non possono mancare nelle diatribe fra studiosi, meno che mai in campo archeologico. Ma quando nel 1881, un pezzo da novanta dell’etruscologia come Gamurrini scrisse il saggio appena citato, il piatto della bilancia sembrò pendere dalla parte «orvietana». Per incredibile che possa sembrare, quel testo così ingenuo, rimane ancor oggi l’unico saggio che si sia posto il compito di dimostrare che Velzna stesse a Orvieto e non a Bolsena. Gli altri etruscologi «orvietani», infatti, si sono sempre guardati bene dal proporre un’analisi complessiva a dimostrazione della propria tesi: si limitano a brevi cenni all’argomento (spesso in forma di frecciatine polemiche), si danno ragione o si rinviano gli uni con gli altri, oppure (vedi per es. «Società e cultura a Volsinii» [1985] di Giovanni Colonna) forniscono una descrizione dell’antica Orvieto dando per acquisito che essa fosse Velzna.

Sulla storia di come il garbuglio divenne imbroglio tornerò tra breve. Si può immaginare lo scompiglio che nel mondo etruscologico si verificò quando nel 1896 Gamurrini ritrattò pubblicamente la sua precedente posizione e affermò che Velzna era stata sempre a Bolsena (v. avanti, pp. 121 sgg). Certo, nei primi del Novecento restavano ancora degli accaniti difensori della tesi «orvietana» (in primis Luigi Adriano Milani [1854-1914]) o un po’ meno accaniti (come Ettore Gabrici [1868-1962]); ma tornando al 1928, si può dire che la fase più accesa della polemica era sostanzialmente superata e ormai nel mondo etruscologico italiano la maggior parte degli studiosi propendeva per la tesi «bolsenese». Fosse stato altrimenti, Perali e Antonielli non avrebbero avuto tanto riconoscimento ufficiale proprio nel 1928.

La conferma concreta di quanto appena detto l’abbiamo nel 1939, quando il trentenne Massimo Pallottino (Roma 1909-1995) - già emerso alla celebrità con il libro sulla lingua etrusca (1936) e al quale il regime aveva conferito importanti incarichi come la Sovrintendenza alle Antichità di Roma (1933) o la direzione del Museo di Villa Giulia (1937) - pubblicò la 1ª edizione del suo celebre manuale: Gli Etruschi (C. Colombo, Roma, 296 pagine). È una «1ª edizione» che non viene mai citata, preferendo fingere che la prima sia stata nel 1942 (Hoepli, stesso formato, stesso numero di pagine e contenuti simili, ma titolo mutato in Etruscologia). E la ragione è molto semplice: nell’ed. del 1939 Pallottino aveva affermato chiaramente che Velzna si trovava accanto al lago di Bolsena (p. 197), mentre in quella di gennaio 1942 (edizione rivista quindi nel corso del 1941, quando l’Italia era entrata in guerra a fianco di Hitler) Bolsena scompare (salvo rari e generici accenni), mentre di Orvieto si dice solo che era «una grande città etrusca della quale ignoriamo il nome antico» (p. 135).

Insomma, Bolsena e Orvieto etrusche erano state di fatto cancellate! Qualcosa era accaduto o qualcuno era intervenuto perché Pallottino facesse marcia indietro sulla questione Velzna bolsenese. Ma lui, pur tacendo, aveva trovato il modo di ribadire più o meno celatamente che Orvieto non era stata Velzna. Nel 1947, nella 2ª edizione del manuale (la 3ª, nel mio conteggio), Velzna ricomparve miracolosamente sui colli bolsenesi e, visto ciò che lì stava emergendo grazie a Raymond Bloch e all’École française, Pallottino fece anche un riferimento ai «ritrovamenti di una certa importanza che si sono fatti» (p. 144). Con parole analoghe e varie aggiunte questa sarà la sua posizione in tutte le edizioni successive fino alla 6ª (in realtà la 7ª) del 1968 che ebbe 4 ristampe, ogni volta riviste («integrate») fino al 1980. (Nel mio libro le ho tutte citate, riportando sempre i numeri di pagina.)

Ora ci dobbiamo concentrare invece sulle tre date «pallottiniane» perché gettano un fascio di luce sinistro sull’intera vicenda: abbiamo detto che nel 1928, domina ufficialmente la posizione «bolsenese» (Perali, Antonielli ecc.); nel 1939 Pallottino lo conferma nell’edizione in anteprima del suo celebre libro; nel 1942 (in realtà 1941), Pallottino tace sull’argomento e solo indirettamente fa capire che continua a pensarla come prima; nel 1947 Pallottino torna a difendere esplicitamente la posizione «bolsenese», come del resto farà fino al 1980.

Cos’era accaduto tra il 1939 e il 1947?

La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. In mezzo a quelle due date c’era stata la guerra, con un crescente avvicinamento del regime fascista al nazismo, e con un aumento vertiginoso dell’influenza nazista in Italia, sfociata poi nell’occupazione vera e propria dopo il settembre 1943. Ed è noto che i nazisti andarono a caccia di reperti etruschi, così come avevano fatto e continuavano a fare alcuni ricchi esponenti dell’aristocrazia orvietana e della Tuscia. Ma i nazisti, a differenza della maggioranza degli studiosi italiani, avevano alle spalle anche una tradizione teorica tedesca di stampo «orvietano» risalente all’Ottocento (vedi Deecke e altri) e via via rafforzatasi. Inoltre in Germania le questioni accademiche e archeologiche dipendevano dal Ministero della propaganda nazista diretto da Joseph Goebbels, mentre in Italia erano in mano al MinCulPop, cioè il Ministero della cultura popolare, dal quale dipendevano anche istituti economici come l’Ente nazionale per le industrie turistiche e il Comitato per il credito alberghiero. Parlando quindi del periodo bellico va detto che, al di là della dimensione teorica e secondo le ben note leggi di mercato, cominciò a prevalere la dimensione commerciale, nel senso della valorizzazione (=accrescimento di valore) che potevano acquisire i reperti etruschi comprati o trafugati, se si fosse potuto garantire che la loro provenienza era dalla capitale della Dodecapoli etrusca e non semplicemente da tombe sparse nella valle del Paglia o da una rupe tufacea della cui città posta in cima s’ignorava il nome. In realtà il trafugamento e il mercato dei reperti esistevano da oltre un secolo, ma il contesto bellico e il connubio nazi-fascista (con tutta l’illegalità che essi rendevano più facile) favorì inaspettatamente tale «commercio».

Fu quindi per ragioni economiche che la teoria «orvietana» riprese vigore, grazie al nazismo e alla collaborazione dei gerarchi fascisti, locali o di altre città. E fu così che anche alcuni «collezionisti» italiani di etruscherie trovarono più utile ricominciare a imporre la teoria «orvietana» a detrimento della «bolsenese». Ma fu anche questa la ragione per cui il nome di Perali e il suo Orvieto etrusca caddero nell’oblio, dal quale li trae fuori ora, dopo quasi un secolo, questa pubblicazione. Mi rendo conto di non aver prove concrete per quanto affermo, perché il mio ragionamento è fondamentalmente d’ordine logico-storico. Sono però pronto ad ascoltare chiunque riesca a spiegarmi 1) perché nel 1941-42 Pallottino dovette tacere sulla questione Velzna «bolsenese» che aveva invece difeso nel 1939; 2) perché nel 1947 poté tornare a esprimerla liberamente; ma soprattutto 3) perché la tesi «orvietana» riprese vigore nel dopoguerra, proprio quando era divenuta più che mai indifendibile in séguito allo scavo di 6 km di mura ciclopiche sui colli volsinei.(...)

E comunque, se la tesi «orvietana» riprese vigore durante la guerra non per nuove scoperte teoriche o archeologiche, ma per ragioni puramente materiali, significa che si trattò di una truffa. E di questa ora dobbiamo parlare, avvisando che essa ha perso da tempo gli originari connotati economici (pur restando un qualche strascico in campo turistico), e ha invece acquisito dimensioni accademiche ferree: da decenni, infatti, non viene più consentita la carriera universitaria o archeologica a coloro che non sottostanno al diktat di alcuni titolari di cattedra, di alcuni responsabili di Sovrintendenze o di istituzioni museali. Tra tutti costoro si è da tempo stabilita una sorta di omertà «etruscologico-orvietana», per cui solo continuando a fingere che Velzna stesse a Orvieto si può sperare di accedere alle relative carriere. Se un paio di studiosi affermati, seguendo l’esempio di Gamurrini, avessero il coraggio di denunciare dall’interno delle istituzioni l’inconsistenza della tesi «orvietana» (come ha fatto il sottoscritto, ma da outsider) il castello crollerebbe e si vedrebbe che l’imperatore è nudo.

La paura che la verità emerga spiega anche comportamenti frutto di autentica paranoia o inquisitoriali come quelli che riporto al termine di questo libro.