venerdì 29 marzo 2024

Avanguardia Operaia. Reprint del primo numero (Dicembre 1968)




Avanguardia Operaia, o meglio l'Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia (sigla OCAO), nasce a Milano nel 1968 nel quadro della disintegrazione avvenuta in quell'anno dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari (GCR), la sezione italiana della Quarta Internazionale.

Abbandonato il campo trotskista in favore di un maoismo moderato, ben lontano dalle pagliacciate dei gruppi m-l, come "Servire il Popolo" di Aldo Brandirali paradossalmente proveniente dallo stesso ambito trotskista milanese, AO prende presto carattere nazionale unificandosi via via con gruppi e collettivi di Torino, Venezia, Perugia, Roma, Napoli e aprendo sedi in città importanti come Genova.

Già dal dicembre 1968 editerà una rivista teorica dallo stesso nome, di cui in previsione di un quaderno interamente dedicato a ricostruire storia e posizioni dell'organizzazione, presentiamo in questo quaderno il primo numero.

Della rivista usciranno 27 numeri per essere poi sostituita nel febbraio-marzo 1973 da una nuova rivista: "Politica comunista". Nel frattempo, a partire dal 1971 al mensile si affiancherà un foglio di agitazione dal titolo simile, "Avanguardia Operaia, giornale di agitazione comunista", con cadenza prima quindicinale e poi settimanale, a sua volta sostituito a partire dal 1974 dal giornale "Quotidiano dei lavoratori" che cesserà le pubblicazioni nel 1979.

Quanto all'Organizzazione politica, dopo un lacerante e confuso dibattito interno, di cui il pamphlet polemico "I senza Mao" di Silverio Corvisieri resta efficace testimonianza, Avanguardia Operaia si scioglierà nel 1977 per confluire nel processo di formazione di Democrazia Proletaria.


Il quaderno è liberamente consultabile e scaricabile dal sito www.academia.edu


domenica 17 marzo 2024

La sinistra italiana e Stalin

 


Simul stabunt vel simul cadent.

La sinistra italiana e Stalin





In questo quaderno pubblichiamo, riprendendolo dagli atti parlamentari, il resoconto delle sedute che il 6 marzo 1953 Senato e Camera dei deputati della Repubblica dedicarono alla commemorazione di Stalin. Una documentazione importante non solo per comprendere meglio il clima di quel particolare momento della storia politica italiana, ma anche per approfondire la conoscenza di alcuni degli esponenti principali di una sinistra quasi interamente asservita allo stalinismo e alla propaganda sovietica.

L'intervento di Scoccimarro in rappresentanza del Partito comunista ne è forse l'esempio più chiaro e, nella sua brutale ottusità ideologica, segna una delle pagine più buie della storia del Senato. Il discorso dell'esponente comunista, che riprende senza batter ciglio una ad una le peggiori menzogne della propaganda staliniana, al punto di esaltare come una conquista della civiltà quella collettivizzazione forzata delle campagne costata la vista a milioni di piccoli contadini, è paragonabile per il disprezzo della verità e dell'autorità morale del Parlamento solo ai discorsi tenuti nella stessa aula da Benito Mussolini negli anni infausti della dittatura. E non cambia ovviamente nulla che l'esponente comunista fosse fanaticamente convinto delle sue idee. Anche Mussolini era convinto di ciò che sosteneva e di essere la guida di una rivoluzione di tipo nuovo che avrebbe trasformato in meglio l'Italia. Insomma, anche se espresse in buona fede, le menzogne restano comunque menzogne.

Che dire poi della celebrazione apologetica di Pertini, che interviene per il Partito socialista ? Frase dopo frase vediamo crollare il mito costruito su di lui durante e dopo gli anni della Presidenza della Repubblica, portando alla luce il cinismo di quello che fu in realtà un politico mediocre, prima autonomista, poi stalinista, poi di nuovo autonomista. A differenza di Nenni, personaggio altrettanto contraddittorio ma che ragionava secondo una visione politica di prospettiva, Pertini si dedicò soprattutto a difendere la rendita di posizione derivante dal suo comunque importante passato antifascista, appoggiando di volta di volta chi gli pareva potesse garantirgli meglio gli spazi di potere, peraltro esigui, detenuti all'interno del gruppo dirigente socialista. Un cinico, lo definirà Panzieri e anche in questa occasione Pertini si mostrerà attento a non eccedere nei toni, allineandosi allo stalinismo imperante nella sinistra ma con moderazione. Limitandosi, insomma, a fare della mera retorica da comizio.

Più calibrato l'intervento di Togliatti alla Camera, ulteriore prova, se ce ne fosse bisogno delle capacità dialettiche dell'uomo, ma anche del suo insopportabile vezzo a posare da professorino. La sua citazione manzoniana, che di fatto assimila Stalin a Napoleone, è un pezzo da antologia.

Quanto a Nenni, non può non colpire, nonostante dall'inizio degli anni Trenta a decine si contassero le testimonianze sui metodi usati nella gestione del potere dall'autocrate del Cremlino, la asserita, ma chissà quanto sincera, convinzione che parlare per la Russia di dittatura fosse una mera calunnia a fini propagandistici di un Occidente guerrafondaio e bellicista che in Stalin combatteva soprattutto l'eterno anelito dell'umanità alla pace.

La storia, si sa, è impietosa e non fa sconti. Tre anni dopo, proprio uno dei principali complici di Stalin, quel Chruščëv responsabile dello sterminio per fame dei contadini ucraini insofferenti del potere sovietico, rivelerà al mondo gli orrori della dittatura staliniana. Era la conferma di ciò che Souvarine, Serge, Silone – giusto per citare alcuni dei testimoni più noti di quegli orrori – avevano coraggiosamente sostenuto già dalla fine degli anni Venti. Ma non servirà a molto. La verità rende libero solo chi vuole essere libero. Lo dimostrerà sempre in quel 1956 la difesa ostinata dell'URSS in occasione della rivoluzione ungherese fatta da Togliatti e da un Ingrao chissà perché ancora oggi da qualcuno visto come un “eretico” del comunismo.

Abbiamo, per completezza di documentazione, aggiunto poi in appendice l'articolo che Enrico Berlinguer, allora segretario dei giovani comunisti, scrisse in quei giorni sulla rivista “Pattuglia”. Colpisce in quell'ossessivo invito all'impegno, ripetuto come una formula religiosa o un giuramento solenne, già un accenno di quel moralismo curiale, spacciato per etica, che caratterizzerà gli interventi del futuro segretario comunista negli anni del compromesso storico. A dimostrazione di una continuità di pensiero e di un Partito incapace di affrontare realmente le contraddizioni della propria storia e di fare una volta per tutte i conti con lo stalinismo.

Sarà solo nel dicembre 1981 che Berlinguer parlerà di “fine della spinta propulsiva” del comunismo sovietico. Una affermazione a cui non seguirà però alcuna riflessione autocritica né alcun atto concreto. Una semplice presa d'atto da spendersi nel teatrino angusto della politica italiana. Come se sessant'anni prima, nel marzo 1921, non ci fosse stata la Comune di Kronstadt, e poi la collettivizzazione forzata delle campagne, lo sterminio per fame dei contadini ucraini, l'industrializzazione fondata sul lavoro schiavo fornito dai Gulag, le grandi purghe di fine anni Trenta, il patto Ribentropp-Molotov e l'alleanza di fatto con il nazismo che aprì le porte alla guerra, il XX Congresso, l'asservimento dei popoli di mezza Europa e la repressione sanguinosa della rivoluzione ungherese, l'URSS era restata fino ad allora il faro del socialismo che segnava con la sua luce la rotta dell'umanità verso un avvenire radioso di civiltà e di pace. Solo nel 1981, lo ripetiamo, ci si accorgerà che quel faro non faceva più luce. Una presa d'atto tardiva e neppure condivisa da tutti, come dimostrerà l'opposizione prima della componente cossuttiana e poi la storia fallimentare del Partito della Rifondazione comunista.

Simul stabunt vel simul cadent, verrebbe da dire. PCI e stalinismo erano dal 1926 indissolubilmente legati. Lo dimostrerà nel 1991, a 38 anni dalla morte di Stalin, il crollo parallelo dell'impero sovietico e del Partito comunista italiano.


Giorgio Amico


Il quaderno è liberamente scaricabile dal sito www.academia.edu

giovedì 14 marzo 2024

Gramsci In America Latina



Come negli Stati Uniti così in America Latina assistiamo da anni ad un fiorire di studi sul pensiero di Gramsci che non ha eguali in Europa e ancora meno in Italia dove la ricerca si è sempre più ristretta all'ambito accademico senza agganci con la realtà politica, riducendosi spesso a rimasticature filologiche valide solo a far curriculo.

Una ricerca di cui cercheremo di dare conto in futuro. Per ora proponiamo questi due volumi, entrambi di grande interesse, reperibili sulla pagina web "Archivio obrero".





martedì 12 marzo 2024

Sull'odierno antisemitismo

 

L’articolo di Ginzburg sull’antisemitismo è interessante, ma ha un grosso difetto.

Il suo sbaglio, secondo me, consiste nel  trattare la questione senza mettere in primo piano un elemento fondamentale: la Shoah, lo sterminio degli Ebrei voluto e tentato, e in grande misura anche attuato, da Hitler e dal nazismo tedesco, è uno spartiacque decisivo nella storia dell’antisemitismo. 

Perché è così?

Non perché prima non ci siano stati massacri di villaggi e nuclei ebrei, dall’antica Giudea (coi Persiani e coi Romani), e poi via via in giro per il Medio Oriente e per l’Europa. Non perché non sia esistita prima una sistematica discriminazione e persecuzione degli Ebrei in varie forme.   

Ma perché l’opera dei boia nazisti ha mostrato al mondo intero in che modo l’odio per gli Ebrei e le sue manifestazioni più o meno banali e quasi “innocue” siano propedeutici e ausiliari rispetto a un disegno mostruoso che intende realizzare un genocidio totale impiegando le tecnologie più moderne disponibili.

Dopo la Shoah chiunque si dichiari esplicitamente antisemita si sta schierando con Hitler e coi suoi progetti osceni e demenziali. Ovviamente molti al giorno d’oggi si risentono se le loro posizioni vengono descritte usando questa terminologia.

Non è un caso se in Urss, fin dai tempi di Stalin nei primi anni '50, si è insistito sulla presunta distinzione tra “antisionismo” e antisemitismo.  

Il secondo è Hitler,mentre il primo sarebbe la “legittima opposizione ai progetti razzisti del sionismo”, e dunque il tentativo di delegittimare lo Stato di Israele e propugnarne, in modi più o meno espliciti e più o meno radicali, la scomparsa dalla faccia della Terra.

Ma “antisionismo” e antisemitismo sono soltanto due modi diversi di dire la stessa cosa, e sottendono una stessa nozione di fondo: “gli Ebrei non sono un popolo come tutti gli altri popoli”, “gli Ebrei non hanno diritto ad avere un proprio Stato (e tantomeno nelle loro terre ancestrali)”, “il mondo sarebbe migliore se gli Ebrei non esistessero”.   

Una distinzione logica molto valida e necessaria è quella fra il dire “Il Tale è un antisemita” e il dire “Il Tal'altro ha una posizione antisemita” ovvero “ha detto qualcosa che è antisemita”.

Criticare Israele non è di per sé una manifestazione di antisemitismo. Alcune “critiche” sono però espressioni di antisemitismo, ovvero esprimono in forma blanda una posizione che è in sé antisemita senza per questo invocare apertamente la distruzione dello Stato di Israele e lo sterminio degli Ebrei. 

Definire antisemite tali posizioni è possibile, anzi è necessario, proprio perché rientrano in quella “sottovalutazione dell’antisemitismo” operata da alcuni personaggi, come Marx e Kautsky, di cui parla proprio Ginzburg.

Ma fra loro (o anche Liebknechkt e Rosa Luxemburg sul processo Dreyfus) e gli odierni “sottovalutatori” dell’antisemitismo, se vogliamo chiamare così tutti coloro che Ginzburg cerca di difendere in qualche modo, c’è di mezzo la Shoah. E questo cambia tutto.

Nel 1848 o nel 1903 si poteva fare una distinzione, giusta e sensata, fra i pogromisti di Kišinev [1903, in Moldavia] o le Centurie nere in Russia, da una parte, e coloro che criticavano i sionisti e il Bund anche in termini molto duri, dall'altra.

Nel 2024, dopo i massacri, gli stupri e gli ostaggi del 7 ottobre 2023, chiunque gridi “Dal fiume al mare la Palestina sarà libera” può anche essere un ignorante che non conosce il nome del fiume e del mare di cui blatera, ma quella è una posizione antisemita. 

Ed essa si colloca su un continuum che inizia con gli idioti che negli stadi gridano “Ebrei” ai tifosi della squadra avversaria ma finisce con l’apologia della Shoah.

Oggi essere un “sottovalutatore” non è più una giustificazione valida per nessuno.

Perché vuol dire contribuire ad alimentare l’antisemitismo genocida, quali che siano le intenzioni più o meno “buone” o “ignoranti” di chi sottovaluta i pericoli dell’antisemitismo.

Luciano Dondero

Lettera inviata al Foglio


lunedì 11 marzo 2024

Genova nei ricordi di un giovane viaggiatore argentino (1843)

 



Italia, nelle tue città è la tua poesia, non nei tuoi poeti, tu non scrivi; fai poesia.

J.B Alberdi


Juan Bautista Alberdi (Tucumán, 1810-Parigi, 1884) nacque a Tucuman in Argentina. Era figlio di un mercante spagnolo e di una signora, della buona borghesia di Tucumán. Convinto democratico e sostenitore della rivoluzione repubblicana, ebbe una gioventù scapigliata. Abbandonò gli studi universitari nel 1824 per dedicarsi alla musica. Infine studiò legge e nel 1840 si laureò in giurisprudenza a Montevideo. Filosoficamente era autodidatta, ma aveva una buona conoscenza del pensiero liberale. In particolare fu influenzato dalle opere di Rousseau, Bacon, Buffon, Montesquieu, Kant, Adam Smith, Hamilton e Donoso Cortés.

Nel 1843 andò in Europa per conoscere da vicino gli usi e i costumi delle principali nazioni. Tornato in America si stabilì a Valparaíso (Cile) dove esercitò la professione forense. Massone, fu l'ispiratore della Costituzione argentina del 1853.

Entrato nel corpo diplomatico, dopo il 1859 compì alcuni viaggi in Europa per ottenere il riconoscimento della repubblica argentina da parte delle principali potenze europee. Nel corso di queste missioni incontrò l'imperatore Napoleone III, il papa Pio IX e la regina Vittoria di Inghilterra. Svolse attività diplomatica per quattordici anni e nel 1878 fu nominato deputato al Parlamento nazionale. Morì a Parigi nel 1884.

Autore molto prolifico di studi giuridici e di politica internazionale, scrisse anche note di viaggio dove minuziosamente annotò impressioni e ricordi. Un libro, pubblicato a Barcellona nel 2021, ne raccoglie alcune fra le più interessanti.

Un capitolo riguarda Genova dove soggiornò quasi un mese durante il suo primo viaggio in Europa. Un viaggio di formazione compiuto nel 1843 a poco più di trent'anni. Ne riprendiamo la parte più interessante, relativa al viaggio e alle impressioni che la città gli suscitò. Impressioni, come si vedrà, controverse. Lo colpì la maestosità delle vie principali, ma anche la dimensione ridotta dei vicoli. Gli piacquero i caffè che trovò eleganti e colti, vere e proprie sale di lettura. Molto meno lo colpirono le donne che trovò poco eleganti. Da buon americano, democratico e repubblicano, fu stupito dallo sfarzo dei nobili e dall'onnipresenza della Chiesa.


Giorgio Amico

giovedì 7 marzo 2024

Evola e Kerouac uniti nella lotta? La rivolta giovanile vista da destra


 

Liberamente scaricabile da www.academia.edu