Pubblichiamo
l'intervento di Gabriella Freccero al Convegno di Albenga del 7
dicembre 2015 su “Quando la diversità spaventa...”.
Gabriella Freccero
Il culto pagano delle
streghe come sopravvivenza della Società dell’Antica Europa
“Secondo le ipotesi
degli archeologi e degli storici la civiltà implica
un’organizzazione politica e religiosa di tipo gerarchico,
un’economia bellica. […] Io contesto la tesi che la civiltà si
associ esclusivamente a società guerriere androcratiche. Il
principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua
creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione
di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale
che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini,
nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i
sessi”. (M. Gimbutas, La civiltà della dea, 1991)
L’antropologa inglese
Margaret Murray già nel 1921 con la pubblicazione del volume The
witch cult in western europe formulava l’ipotesi che alla base
del culto occidentale delle streghe vi fosse una antichissima
religione pagana che risaliva a tempi molto più remoti
dell’insediamento indoeuropeo nel vecchio continente, al cui centro
vi era l’adorazione di una dea madre e di un dio cornuto (Horned
God) da parte di una congregazione femminile di sacerdotesse ed
adepte con diversi gradi di iniziazione, un culto aperto a donne e
uomini che credevano in una profonda connessione tra le forze della
natura, gli esseri umani e le forze soprannaturali preposte al culto
della rigenerazione cosmica.
La Murray nasce come
egittologa e al momento dell’uscita del libro ha alle spalle due
decenni di pubblicazioni, in qualità di assistente del professor
William Flinders Petrie, di resoconti delle campagne di scavo ad
Abido e Saqqara che le diedero successo e celebrità e contribuirono
a diffondere nel regno britannico l’egittomania. Mentre nel mondo
accademico svolgeva un ruolo di mentore per altre donne che
incoraggiava a dedicarsi alla professione archeologica era impegnata
nel movimento femminista con marce, dimostrazioni e volantinaggi.
Nel 1933 con Il dio
delle streghe ripropone in uno stile più adatto al grande
pubblico i risultati degli studi sul folclore britannico; lo
scetticismo con cui viene accolta la sua teoria dal mondo accademico
contrasta nettamente con il favore del pubblico che consacra lo
studio della Murray alcuni decenni dopo come la base ideologica del
movimento neopagano della Wicca.
La ricostruzione della
Murray, per quanto ispirata da una solida conoscenza sul campo delle
culture antiche che comprese dopo l’Egitto anche scavi a Malta e
nell’isola di Minorca, era tuttavia priva di una concreta base
documentaria; solo con il lavoro pionieristico di Marija Gimbutas
prese davvero corpo l’ipotesi che in Europa si fosse perpetuata in
tempi storici lunghi anzi lunghissimi e all’interno di culture
rurali più che urbane una religione basata su un divino immanente
centrata sul corpo femminile, la natura e i cicli cosmici di eterno
rinnovamento.
La biografia di Marija
Gimbutas è fondamentale per studiare il suo metodo
rivoluzionario di lavoro. Nata a Vilnius in Lituania nel 1921 da due
medici appassionati di tradizioni folcloriche che decisero di non
iscrivere la figlia alle scuole pubbliche ma di darle un’educazione
privata che comprendesse l’approfondimento dell’arte, della
musica e delle tradizioni popolari, che l’occupazione russa prima e
quella polacca poi avevano tentato di sradicare. Marija perse il
padre a 15 anni e decise di continuare la sua opera, in particolare
lo studio dei riti funerari precristiani; a 16 anni registrò
personalmente più di 5000 canti popolari con cui i contadini lituani
accompagnavano i lavori, le feste e gli eventi della vita.
L’invasione tedesca
della Lituania nel 1939 e l’anno dopo quella sovietica la
convinsero a lasciare l’Europa; appena laureata con la prima figlia
per una mano e la tesi nell’altra emigrò negli Stati Uniti. Iniziò
la carriera universitaria alla Harvard University come traduttrice
dalle lingue slave ed in seguito, riconosciuta la sua competenza nel
mondo preistorico, pubblicò diversi volumi dedicati alle antiche
civiltà dell’Europa centrale. Nel 1963 ottenne una cattedra presso
l’Università della California a Los Angeles ove svolgerà il suo
insegnamento fino al 1989 come titolare della cattedra di Archeologia
Europea e Studi Indoeuropei.
Durante le campagne di
scavo condotte tra il 1968 ed il 1980 nei siti neolitici lungo il
bacino del Danubio, nella Grecia nordorientale, in Macedonia, Bosnia
e nell’Italia meridionale rinvenne più di 2000 manufatti databili
tra il 6000 e il 3000 a.C. tra ceramiche dipinte, modellini di
templi, altari, vasellame per le offerte; più del 90% degli oggetti
erano statuine antropomorfe femminili, spesso con maschere animali
sulla testa (uccello, orso, serpente, rana), decorate con un
complesso sistema simbolico a spirali, zigzag, cerchi, a X oppure a
onde.
Si trattava comunque di
reperti totalmente diversi da quelli rinvenuti fino ad allora nelle
sepolture indoeuropee; gli stessi siti individuati d’altronde
presentavano ubicazione, insediamento, resti delle abitazioni
totalmente diversi da quelli di epoche successive. La Gimbutas si
rese quindi conto che tali materiali non erano da considerare poco
più che curiosità della storia dell’arte, da immagazzinare nei
depositi dei musei senza alcun ordine né classificazione, ma che
erano vere e proprie chiavi utili a riportare alla luce una civiltà
europea tanto remota da essere ormai totalmente dimenticata. In
assenza di una qualsiasi chiave di lettura già codificata costruì
un suo metodo di lavoro cui darà il nome di archeomitologia e
nominò questa perduta civiltà Società dell’Antica
Europa.
Per l’analisi dei
reperti sviluppò un approccio fortemente interdisciplinare
utilizzando gli strumenti della linguistica, dell’archeologia,
dell’etnologia, della paleografia che lei padroneggiava dai tempi
delle sue precoci ricerche sul folclore lituano, in controtendenza
rispetto alla eccessiva specializzazione del sistema accademico
moderno. Partendo dall’assunto che le cosmologie sacre
rappresentano il centro di tutte le società antiche e che le
credenze fortemente radicate sono soggette a trasformazioni
lentissime e tendono a riaffiorare come substrato culturale anche in
tempi in cui risultano ufficialmente abbandonate, le immagini non
rimangono mute ma forniscono la testimonianza di contesti sociali
viventi, il loro studio va fatto per raggruppamenti a seconda
dell’intima coerenza oppure per classi di significato e di
occupazione di un ben specifico posto nell’immaginario sacro dei
popoli che le crearono.
Marija Gimbutas vide così
riaffiorare nei misteriosi manufatti disseppelliti in Europa Centrale
i testimoni di un sistema di credenze estremamente familiare, legato
all’adorazione della terra come madre fonte di ricchezze e
nutrimento inesauribili che i contadini baciavano all’alba andando
ai campi e al tramonto ritornando dal lavoro. L’idea è riproposta
dalle innumerevoli rappresentazioni femminili della Dea come
contenitore, recipiente, brocca, utensile per conservare cibi e dalle
statuine della dea gravida della vegetazione.
Le maschere animali che
coprono il viso dell’idolo fanno riferimento alla forma immanente
dell’eterno ciclo del rinnovamento: il viso di uccello evoca le
migrazioni dei volatili che partendo e ritornando secondo cicli ben
precisi scandiscono il succedersi delle stagioni; la dea serpente
accovacciata in posizione yoga con le estremità avvolte in spirali è
un potente simbolo di rigenerazione suggerito dal cambiamento della
pelle dell’animale; l’orsa suggerisce con il letargo invernale e
la riapparizione primaverile con i piccoli il simbolo della nuova
vita ed anche la presenza divina durante il parto (credenza trasmessa
anche alla Grecia storica).
Le immagini della Dea a
postura rigida o a forma di uccello rapace dai grandi occhi aperti
nella notte testimoniano che da quelle popolazioni la morte era
venerata al pari della vita, come un passaggio senza il quale il
ciclo eterno vita-morte-rigenerazione sarebbe cessato. “Il concetto
di rigenerazione e rinnovamento è forse il più sorprendente e
drammatico tema che percepiamo in questo simbolismo” scrisse la
Gimbutas nel 1989.
Il nome di dea che
l’archeologa attribuì alle statuine scoperte suscitò la
perplessità degli studiosi abituati a riconoscere come tali ben
individuabili figure dei pantheon divini dei tempi storici e timorosi
che si intendesse rinnovare l’interesse per un generico culto della
fertilità ed un matriarcato mitico quanto indimostrabile. Gimbutas
sostiene che il termine dea vuole esattamente intendere il
contrario, cioè che la simbologia femminile presiede agli aspetti
tanto creativi che distruttivi dei cicli cosmici, andando ben al di
là del puro culto della fertilità; la dea è tale in quanto
distrugge tanto quanto crea: è la dea avvoltoio che scarnifica le
carni dei cadaveri per finire il lavoro della distruzione e rimettere
in circolazione il nutrimento, ma è anche la dea della vegetazione
nel cui impasto di terracotta sono ritrovati i semi di cereali che
garantiscono la sopravvivenza degli umani.
Dagli scavi sono venuti
alla luce resti di villaggi che fanno pensare ad una struttura
sociale piuttosto egualitaria. Non si vedono abitazioni più ricche
ed altre più povere, appaiono invece tutte addossate le une alle
altre come alveari con i morti seppelliti al di sotto per consentire
agli antenati di continuare a proteggere la famiglia e la casa. Il
tempio non risulta in posizione dominante o appartata rispetto alle
case ma si trovava in mezzo ad esse con dimensioni appena di poco più
grandi; dai modellini di templi in terracotta e dagli scavi emerge
una struttura templare a due piani: al piano terra grandi forni per
cuocere le offerte a base di grano, torte e focacce oppure il
vasellame cultuale, al piano superiore si trovavano altari, oggetti
sacri, simboli di rigenerazione come soli, serpenti, uova, spirali,
centri concentrici, con resti di pittura alle pareti in ocra rossa
simbolo di vita; dai modellini in ceramica si riconoscono tamburelli,
troni sedili, tavoli e sedie che fanno pensare ai templi come ritrovi
in cui la musica avesse un ruolo importante.
Nelle sepolture non sono
state rinvenute armi né resti di individui che facciano pensare a re
o principi per la ricchezza del corredo come nelle successive
inumazioni indoeuropee; le sepolture più ricche di oggetti cultuali
sono di donne, spesso anziane, quelle maschili hanno corredi di
oggetti legati al lavoro come asce di pietra per lavorare i metalli o
di conchiglie che alludono a commerci con paesi lontani, in
entrambe le sepolture si trovano attrezzi per frantumare il grano,
facendo pensare alla condivisione dei lavori destinati alla
sopravvivenza del gruppo tra i sessi.
Dal quinto millennio a.c.
iniziano a trovarsi negli stessi siti le enormi sepolture a tumulo il
cui nome indoeuropeo è Kurgan, col quale la Gimbutas denomina le
popolazioni centro europee che mano a mano sostituirono la civiltà
dell’Antica Europa. Nelle grandi tombe i corredi funerari splendidi
di potenti guerrieri a cavallo suggeriscono la comparsa di nuovi
valori: il culto per la ricchezza, la gerarchizzazione della società,
la svalutazione del femminile, l’esaltazione della forza e delle
armi. Alla fine del terzo millennio a.C. il passaggio è completato.
I risultati di decenni di
studi sul territorio europeo sono contenuti nell’ultima grande
opera di Gimbutas La civiltà della dea che in Italia
appare in traduzione solo tra il 2012 e il 2013 per i tipi di Stampa
Alternativa di Viterbo. Anna Schgraffer recensendo l’uscita del
primo volume nel 2012 sottolinea che la pubblicazione non a caso
avviene ad opera di una casa editrice che non si chiama “Stampa di
Regime o Taci e Acconsenti”; evidenziandone i contenuti
rivoluzionari fa notare come la disponibilità al pubblico italiano
solo dopo ben 21 anni dall’edizione originale segnali il ritardo
culturale del nostro paese e la miopia della classe intellettuale
italiana (editori compresi) rimasta sostanzialmente indifferente a
ciò che nelle accademie non è materiale più che accreditato in
quanto innocuo e non certo innovativo.
La stessa Gimbutas si era
d’altronde meravigliata che le pubblicazioni delle sue prime
ricerche negli anni ‘70 e ‘80 piuttosto che dagli studiosi e dai
colleghi venissero acquistate da donne, spesso non specialiste della
sua materia ma che intravedevano in questa accurata ricostruzione di
un passato tanto diverso dalla loro condizione attuale una
formidabile possibilità di ispirazione culturale e di critica al
patriarcato, non più condizione storica immutabile ma databile
storicamente.
Mariagrazia Pelaia,
curatrice dell’edizione italiana de La civiltà della
dea, in un intervento sulla rivista Le
simplegadi dell’Università di Udine, attribuisce
all’archeologa lituana Gimbutas il merito di aver dato nome a
materiali e simboli totalmente incomprensibili ai nostri tempi poiché
andato distrutto l’universo di significato che essi esprimevano;
quando conia le espressioni Dea Uccello, Dea Avvoltoio, Dea Civetta
oppure Dea Occhio, Dea della morte e rigenerazione, Dea gravida della
vegetazione, o lo stesso nome di Antica Europa, rinomina interamente
un mondo perduto e lo rimette al mondo; condizione assai simile a
quella del movimento femminista quando si trovò a costruire da capo
un soggetto femminile perduto senza avere parole per significarlo.
Gli stessi termini di matrismo o società matristica furono
inventati e adottati dalla Gimbutas al posto di matriarcato, per
rimarcare che nelle società da lei scoperte non vigeva l’opposto
del patriarcato, cioè il dominio delle donne sugli uomini.
Gimbutas inoltre scopre
una vera e propria forma di scrittura sui reperti neolitici, che
oltre ai simboli già menzionati di zig zag, spirali, cerchi e
losanghe in alcuni casi presentano un vero script di simboli
collegati in stringhe o grappoli a formare evidentemente una
paleo-scrittura ancora indecifrata. Interessanti somiglianze sono
state evidenziate con la scrittura antico-cipriota e antico-cretese
per cui ancora manca una decodificazione; la nascita della scrittura
parrebbe pertanto non risalire al mondo mesopotamico, ma al vecchio
continente nascendo sotto una spinta religiosa anziché per scopi
archivistici e burocratici come ci è stato insegnato.
A Marjia Gimbutas va
riconosciuta non soltanto la rivoluzionaria opera scientifica ma
anche il grande esempio di fedeltà al suo sguardo femminile, che si
è tradotto nella capacità di fare ricerca tenendo insieme tutta se
stessa, il mondo degli affetti con lo spirito scientifico, come ha
dimostrato riconoscendo, nel modo in cui fanno le bambine per
istinto, valore e verità alle parole della madre e del padre
e attendibilità ai loro racconti; proprio quei racconti cui
spesso agli studiosi viene chiesto di rinunciare in nome di una
obbiettività razionale senza radici, senza sesso e quindi anche
senza fondamento.