domenica 28 agosto 2016

L'amatriciana di Dioniso

    Amatrice: affresco di Vergine in trono col Bambino che sorregge una città (1492)

Un bell'intervento sulla tragedia di Amatrice, metafora della morte di una cultura. Perchè - sostiene Salinari - l’abbandono dei territori da parte della politica è solo la conseguenza di un abbandono precedente, l’allontanamento simbolico di ciò che una volta si chiamava tradizione.

Raffaele K. Salinari

L'amatriciana di Dioniso

Leggo di una catena di ristoranti internazionali che propongono un surplus di due euro per la pasta all’Amatriciana da versare ai terremotati. Bene. Ma noi, italiani, penseremo alla distruzione di Amatrice quando cucineremo in futuro, o ordineremo in qualche ristorante magari in giro per il mondo, un piatto di questi spaghetti? Saremo in grado, gustandolo, di fare il collegamento tra il nostro piacere sensoriale e la cultura che originariamente lo ha sviluppato, oramai ridotta in polvere anche, e forse soprattutto, dalla nostra incuria proprio per quei luoghi che l’hanno generato?

In questi giorni terribili si susseguono le notizie dalle zone terremotate e le conseguenti polemiche sulle mancate norme di messa in sicurezza del nostro territorio nazionale che, notoriamente, condivide con altre parti del mondo il triste primato di un rischio sismico elevatissimo. Eppure ogni volta la pellicola della ricostruzione sembra ripetersi, seppur aggiornata nelle date e magari nelle tecniche con le quali viene presentata, nel suo format insomma; ma il contenuto, i suoi protagonisti, e spesso il finale, sembrano non cambiare mai. E allora, al di qua della cronaca e della politica, al di qua dei dibattiti sui fondi e le opere da realizzare, forse sarebbe anche il caso di proporre un altro piano per la ricostruzione, non solo dei livelli materiali, che pure contano e molto, ma di quelli culturali che li sostengono e motivano in profondità.

L’abbandono dei territori da parte della politica, infatti, è solo la conseguenza, comunque colpevole, di un abbandono precedente, quello simbolico, dell’allontanamento della relazione tra un luogo e la produzione del suo senso specifico: ciò che una volta si chiamava tradizione. Ogni territorio, sino a prima che la modernità bioliberista non ne omologasse i contenuti, produceva il suo peculiare e irripetibile aspetto culturale, che si esprimeva in determinanti simboliche forti e riconoscibili, in vere e proprie forme identitarie che lì e solo lì potevano nascere. Ne ha già lucidamente parlato Enzo Scandurra nel suo articolo sui Sassi di Matera, evidenziando i passi da fare a livello locale per valorizzare tutto questo.

Ma non basta, esiste anche un altro aspetto, per così dire “glocale”: le tradizioni a forte radicamento territoriale, nate in biomi, per usare una immagine ambientalista, specifici, avevano anche la capacità di trasferirsi altrove, di metaforizzarsi, di farsi, almeno in parte, egemonia culturale, pur mantenendo intatta la loro essenza. Quanti esempi si potrebbero fare, mediati da ogni aspetto delle nostre multiformi terre. Nessuno può produrre, per restare in campo culinario, tanto caro gli italiani, il Culatello se non nelle terre parmensi, così come le mozzarelle di bufala in Campania o il pecorino sardo, quello vero!, al di fuori della Sardegna. Una volta, quando l’Italia della Rinascenza era il centro culturale del Mondo moderno, era questo che esportavamo: non il prodotto locale in sé, ma la visione che lo produceva, la capacità di legare locale e globale, di uscire dalla provincia restando radicati nelle nostre specificità; si chiamava e si chiama ancora Made in Italy.

Eppure, e qui sta il senso di una tradizione che diviene strumento di lotta politica, assistiamo ad una progressiva distruzione e conseguente scomparsa di queste diversità. Dove sono gli artigiani? Dove il rispetto per il loro lavoro? Dove le scuole in cui la storia dell’Arte del nostro Paese viene insegnata come materia fondamentale? Dove, in sintesi, i luoghi culturali in cui si insegna a vedere con gli occhi ciò che abbiamo sotto gli occhi?

A questi livelli la politica italiana sembra solo adeguarsi al discorso dominate: quello del Mc word a guida Usa. Anche l’Europa liberista, quella del Ttip, lavora contro questa necessità: si vorrebbe addirittura che il vino diventasse una bevanda come la Coca Cola, definito da una semplice etichetta che ne certifica i principali componenti – alcool, aromi naturali, conservanti – aprendo così la strada alla distruzione di una radice fondante, quella dionisiaca, della nostra diversità a livello mondiale, oltre a che a causare un danno irreparabile a questo settore produttivo. Ma non tutto e non tutti si possono comprare con i dollari. E dunque prima ancora delle ricostruzioni, necessarie ed urgenti, o meglio tra una ricostruzione e un’altra, è sul piano culturale e simbolico che va portata l’attenzione se si vuole ottenere lo sguardo perspicuo di cui abbiamo assoluto bisogno per “vedere” il nostro territorio non come un semplice insieme di edifici ma come realmente è: una geografia immaginale complessissima e variegata, fragile ma al tempo stesso potente, che deve farci prima di tutto risuonare e commuovere con le sue suggestioni.


Il Manifesto – 26 agosto 2016