Un bell'intervento sulla tragedia di Amatrice, metafora della morte di una cultura. Perchè - sostiene Salinari - l’abbandono dei territori da parte della politica è solo la conseguenza di un abbandono precedente, l’allontanamento simbolico di ciò che una volta si chiamava tradizione.
Raffaele K. Salinari
L'amatriciana di
Dioniso
Leggo di una catena di
ristoranti internazionali che propongono un surplus di due euro per
la pasta all’Amatriciana da versare ai terremotati. Bene. Ma noi,
italiani, penseremo alla distruzione di Amatrice quando cucineremo in
futuro, o ordineremo in qualche ristorante magari in giro per il
mondo, un piatto di questi spaghetti? Saremo in grado, gustandolo, di
fare il collegamento tra il nostro piacere sensoriale e la cultura
che originariamente lo ha sviluppato, oramai ridotta in polvere
anche, e forse soprattutto, dalla nostra incuria proprio per quei
luoghi che l’hanno generato?
In questi giorni
terribili si susseguono le notizie dalle zone terremotate e le
conseguenti polemiche sulle mancate norme di messa in sicurezza del
nostro territorio nazionale che, notoriamente, condivide con altre
parti del mondo il triste primato di un rischio sismico elevatissimo.
Eppure ogni volta la pellicola della ricostruzione sembra ripetersi,
seppur aggiornata nelle date e magari nelle tecniche con le quali
viene presentata, nel suo format insomma; ma il contenuto, i suoi
protagonisti, e spesso il finale, sembrano non cambiare mai. E
allora, al di qua della cronaca e della politica, al di qua dei
dibattiti sui fondi e le opere da realizzare, forse sarebbe anche il
caso di proporre un altro piano per la ricostruzione, non solo dei
livelli materiali, che pure contano e molto, ma di quelli culturali
che li sostengono e motivano in profondità.
L’abbandono dei
territori da parte della politica, infatti, è solo la conseguenza,
comunque colpevole, di un abbandono precedente, quello simbolico,
dell’allontanamento della relazione tra un luogo e la produzione
del suo senso specifico: ciò che una volta si chiamava tradizione.
Ogni territorio, sino a prima che la modernità bioliberista non ne
omologasse i contenuti, produceva il suo peculiare e irripetibile
aspetto culturale, che si esprimeva in determinanti simboliche forti
e riconoscibili, in vere e proprie forme identitarie che lì e solo
lì potevano nascere. Ne ha già lucidamente parlato Enzo Scandurra
nel suo articolo sui Sassi di Matera, evidenziando i passi da fare a
livello locale per valorizzare tutto questo.
Ma non basta, esiste
anche un altro aspetto, per così dire “glocale”: le tradizioni a
forte radicamento territoriale, nate in biomi, per usare una immagine
ambientalista, specifici, avevano anche la capacità di trasferirsi
altrove, di metaforizzarsi, di farsi, almeno in parte, egemonia
culturale, pur mantenendo intatta la loro essenza. Quanti esempi si
potrebbero fare, mediati da ogni aspetto delle nostre multiformi
terre. Nessuno può produrre, per restare in campo culinario, tanto
caro gli italiani, il Culatello se non nelle terre parmensi, così
come le mozzarelle di bufala in Campania o il pecorino sardo, quello
vero!, al di fuori della Sardegna. Una volta, quando l’Italia della
Rinascenza era il centro culturale del Mondo moderno, era questo che
esportavamo: non il prodotto locale in sé, ma la visione che lo
produceva, la capacità di legare locale e globale, di uscire dalla
provincia restando radicati nelle nostre specificità; si chiamava e
si chiama ancora Made in Italy.
Eppure, e qui sta il
senso di una tradizione che diviene strumento di lotta politica,
assistiamo ad una progressiva distruzione e conseguente scomparsa di
queste diversità. Dove sono gli artigiani? Dove il rispetto per il
loro lavoro? Dove le scuole in cui la storia dell’Arte del nostro
Paese viene insegnata come materia fondamentale? Dove, in sintesi, i
luoghi culturali in cui si insegna a vedere con gli occhi ciò che
abbiamo sotto gli occhi?
A questi livelli la
politica italiana sembra solo adeguarsi al discorso dominate: quello
del Mc word a guida Usa. Anche l’Europa liberista, quella del Ttip,
lavora contro questa necessità: si vorrebbe addirittura che il vino
diventasse una bevanda come la Coca Cola, definito da una semplice
etichetta che ne certifica i principali componenti – alcool, aromi
naturali, conservanti – aprendo così la strada alla distruzione di
una radice fondante, quella dionisiaca, della nostra diversità a
livello mondiale, oltre a che a causare un danno irreparabile a
questo settore produttivo. Ma non tutto e non tutti si possono
comprare con i dollari. E dunque prima ancora delle ricostruzioni,
necessarie ed urgenti, o meglio tra una ricostruzione e un’altra, è
sul piano culturale e simbolico che va portata l’attenzione se si
vuole ottenere lo sguardo perspicuo di cui abbiamo assoluto bisogno
per “vedere” il nostro territorio non come un semplice insieme di
edifici ma come realmente è: una geografia immaginale complessissima
e variegata, fragile ma al tempo stesso potente, che deve farci prima
di tutto risuonare e commuovere con le sue suggestioni.
Il Manifesto – 26
agosto 2016