La rinascita della
coscienza occitana nelle valli piemontesi. Quanto ha contato la
musica? Riproponiamo una vecchia intervista a Sergio Berardo, leader
dei Lou Dalfin.
Marcello Parilli
Occitania, la sfida
del popolo senza Stato né confini
L’Occitania è la
nazione che non c’è, quell’area di pensiero, parola e cultura
ben piantata nella Francia meridionale che va dall’Atlantico ai
Pirenei fino al Massiccio Centrale, sconfinando a Sud nella catalana
Val d’Aran e a Est in quattordici valli alpine tra le provincie di
Torino, Cuneo e Imperia, lembo estremo di questa specie di arco
latino. Un territorio con 13 milioni di abitanti che sulla carta
hanno in comune l’occitano (la mitica lingua d’oc conosciuta da 7
milioni di persone ma parlata solo da due) e un’identità in
filigrana difficile da far riemergere, tanto che la parola
«Occitania» evoca più un arcipelago di particolarismi e diversità
che un’unica nazione, per quanto senza Stato.
Nelle valli occitane del
Piemonte, per esempio, c’è sempre stato un forte legame di sangue,
di lingua e di lavoro con la Provenza francese che le Alpi non hanno
mai impedito, perché i montanari di queste parti non sono mai stati
attaccati alle loro rocce come i licheni. Erano commercianti di
stoffe, di capelli o di acciughe (ancora oggi base della bagna cauda,
regina delle tavole piemontesi), venditori ambulanti di bibbie o
suonatori di ghironda (veri e propri professionisti) che
attraversavano continuamente il confine lungo sentieri oggi
ripercorsi dagli appassionati, e tatuati nell’anima avevano il
nomadismo, il rischio del sogno, l’avventura almeno quanto i
contadini di pianura erano tutt’uno con i campi, i cicli stagionali
e la stanzialità. Due filosofie di vita agli antipodi.
«Qualcuno dice che la
montagna divide le acque ma unisce gli uomini, e personalmente io mi
sento più a casa a Marsiglia che a Milano — dice Sergio Berardo,
leader della band Lou Dalfin, che da 27 anni si è messa al servizio
della rinascita dell’orgoglio e della consapevolezza occitana in
territorio italiano —. Solo che fino a trent’anni fa qui,
dell’Occitania, non fregava niente a nessuno. I primi attivisti che
si ispiravano agli occitanisti francesi del movimento Félibrige
erano considerati personaggi eccentrici e innocui, erano "lhi
ucitàn", come fossero qualcosa di altro da sé. Intellettuali,
specialisti, volontari e idealisti che hanno fallito perché distanti
dalla realtà del territorio. Non hanno saputo sintonizzarsi con un
sentimento popolare che pure era presente. Davano l’impressione che
l’Occitania fosse un’idea bizzarra che stava solo nella loro
testa».
Poi, appunto, è accaduto
un piccolo miracolo: è arrivata la musica (e, a ruota, la riscoperta
delle danze tradizionali) che è riuscita là dove la politica aveva
fallito. A ogni concerto dei Lou Dalfin (cioè «il delfino»,
simbolo presente ovunque, su fontane, archivolti, pietre scolpite,
decorazioni di mobili), il pubblico aumentava e, al suono di
ghironda, organetto e cornamusa (il solo Berardo suona 24 strumenti
diversi), ha cominciato a prendere coscienza di essere un popolo con
una storia alle spalle, una lingua da parlare e tradizioni proprie.
E tutto senza barriere
culturali o generazionali: «Ai nostri concerti ci sono anziani che
ballano in maniera ortodossa , alpini, famiglie che fanno immensi
girotondi, ma anche ragazzini che fanno la break dance o pogano sotto
il palco (il ballo punk a base di spintoni e spallate, ndr). E
convivono tutti nello stesso spazio — dice Berardo —: la musica e
il ballo hanno scardinato come un grimaldello l’indifferenza per la
propria identità e il proprio territorio. Noi non abbiamo diamanti
né petrolio, ma note e passi di danza che creano scambio e
comunicazione. Queste sono le ricchezze della nostra terra. E la
musica popolare deve divertire la gente, non chiudersi in circoli per
pochi appassionati col mito del "buon selvaggio". Deve
aprirsi al mondo, anche contaminarsi con basso, batteria e chitarra
elettrica, se è il caso, altrimenti la uccidiamo».
Molto hanno fatto anche
organizzazioni e gruppi innamorati, ognuno a suo modo (perché la
piccola «guerra di religione » è sempre dietro l’angolo),
dell’idea di Occitania, dalla Chambra d’oc a Espaci Ocitan, dal
Félibrige al giornale Ousitanio Vivo, dall’Istituto di Studi
Occitani all’associazione culturale La Valaddo fino al Centre
Prouvençal Coumboscuro, che non chiedono l’indipendenza, ma il
rispetto, sancito dalla Costituzione, delle norme per la tutela delle
minoranze linguistiche. Ma per una vera «reconquista» di radici e
identità servirebbe anche una classe politica più coraggiosa e
lucida nel comprendere le vere caratteristiche del proprio
territorio. Sono state finanziate locande occitane che proponevano
serate a base di pizza, organizzati raduni di Ferrari su strade dove
si mette a stento la terza, intitolate strade a illustri occitani
d’oltralpe come la poetessa Marcela Delpastre o l’autore della
grammatica occitana Louis Alibert, ma ignoti ai locali, ipotizzati
impianti di risalita in valli adatte soprattutto al trekking e allo
sci di fondo, col solo risultato di arricchire qualche speculatore
immobiliare.
«La montagna è stata
abbandonata dalla politica — conclude Sergio Berardo —. Ci stanno
togliendo i pochi soldi che ci davano e qui non vengono neanche più
a fare i comizi. Siamo considerati solo aree di passaggio per strade
e ferrovie, o al massimo un parco- giochi della pianura. Mentre per
vivere meglio dovremmo smettere di essere provincia e capire che
siamo da sempre una frontiera. E che se perdiamo il rapporto con la
nostra terra e con le nostre tradizioni, non siamo più niente».
il Corriere della sera - 10 novembre 2009