Roaschia è un paesino
a 20 chilometri da Cuneo, abitato oggi da poco più di 100 persone.
Un borgo di montagna da dove in estate partivano i pastori
transumanti e i loro greggi di pecore, considerati ladri d'erba e guardati con
sospetto dai contadini della pianura. Marco Aime, professore di antropologia presso l'Università di Genova, che ha trascorso in
questo paese periodi della sua infanzia e della sua adolescenza, ne
racconta la storia in un piccolo bellissimo libro. Ne presentiamo le
prime pagine.
Marco Aime
Con i pastori lungo i sentieri della
transumanza
Partivano. La gente di
queste parti è sempre partita. Da questa borgata, da
questa valle. Non per salire sulle creste, per vedere un
orizzonte nuovo o per conoscere posti diversi. No. Partiva perchè ci
sono terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere
sempre. Non tutto l’anno. E allora si va, finchè ci sono posti
dove andare.
Dovevi vedere la piazza
quando partivamo, era piena di pecore. Ce n’erano
dappertutto! Toni si gratta la testa sotto il cappello di panno,
guarda verso il campanile che si infila in un cielo livido dal
freddo. LaRuera era bianca! Tutta coperta di pecore. Tu forse
non te lo ricordi nemmeno.
No, non me lo ricordo, ma
non per l’età. Non me lo ricordo perchè io a Roaschia ci
andavo in vacanza da bambino, nei primi anni Sessanta. Ci andavo
in luglio o in agosto, ma i pastori partivano dopo,
quandol’odore del primo umido d’autunno calava sul paese. Le
nuvole iniziavano ad arrotolarsi su se stesse e a compattarsi,
preparandosi ai grandi lavori dell’inverno. Ora mi sembra
persino strano essere qui, a fare una ricerca, a fare l’antropologo.
Di solito un antropologo si occupa di cose lontane, va a ficcare
il naso nelle case di gente straniera, diversa da lui. Quanto
sono diversi Toni e gli altri pastori da me? Tanto, abbastanza da
stupirmi con quei loro racconti, da spingermi a cercare nelle
pieghe della loro storia, e per niente, perchè anche se non mi
ricordo quella piazza con tutte quelle pecore, dei pastori sì che
mi ricordo. Ne sentivo sempre parlare a casa, dai miei, dai nonni, e
quando, da bambino, non volevo mangiare qualcosa e facevo lo
schizzinoso, mi dicevano sempre: Dovresti andare un po’
con i pastori, vedi che impareresti! Era una minaccia.
I pastori arrivavano qui
a Roaschia dalla val Pesio, dalla val Vermenagna, dalla valle
Stura, dalla val Chisone, da quegli alpeggi dove avevano passato
l’estate. Si ritrovavano in paese, prima di andarsene di
nuovo. Era sempre la stessa scena, uguale tutti gli anni.
Roaschia era combinata
così, c’erano tre mestieri in pista: contadino, pastore e
commerciante. Tutti e tre ti portavano via. Lo dice senza
rabbia, Toni, e senza rimpianto. Lo dice così, come si parla di
una cosa di cui non si può fare a meno. Come la pioggia, la
neve, il fulmine, il lupo.
Partivano.
(...)
Roaschia era un paese
fatto per andarci via. Incastonato al fondo di una valle chiusa,
stretta, dura. Un pugno di case in basso e più di trenta
borgate (i teit, come li chiamano qui),sparse, arroccate
sulla pietra, aggrappate ai pendii, affogate nei castagni. Dove si
poteva vivere, i roaschini lo hanno fatto. Ogni metro quadrato è
stato limato, scalpellato, scavato per farci una casa. Gli
uomini sono tenaci, ma possono fino a un certo punto. Poi basta. Non
c’è più spazio, e allora bisogna partire. Andare via. Via di
qui, da questo paese ingoiato dalle montagne, al fondo di
una valle, che è anche il fondo della strada. Come a dire: di
qui non si va da nessuna parte. Invece partivano, via da
Roaschia, il paese dei miei nonni, materni e paterni. Non quello dei
miei genitori, no, loro sono nati a Torino e mia madre è
cresciuta a Savona. Perchè quella di Roaschia era gente
che partiva, partiva sempre.
Marco Aime
Rubare l'erba
Ponte alle Grazie
12 euro