giovedì 18 gennaio 2018

Cina, la Rivoluzione culturale di Mao è scomparsa dai libri di scuola


In Cina censurato il periodo della Rivoluzione culturale. Parlarne bene non si può (costò due milioni di morti e la rovina economica del paese), ma neanche male (metterebbe in crisi l'immagine del PCC di Mao “partito-guida” della nazione).

Francesco Radicioni

Cina, la Rivoluzione culturale di Mao è scomparsa dai libri di scuola


Che si tratti della carestia provocata dal Grande Balzo in Avanti, della guerra sino-giapponese o della tragedia della Tiananmen, la storia rimane uno dei temi politicamente più delicati per la leadership di Pechino. L’ultimo esempio è arrivato nei giorni scorsi, quando la Cina è stata accusata di aver rimaneggiato gli eventi della Rivoluzione Culturale in un libro di testo per le scuole medie.

Stando alle immagini comparse sui social, un intero capitolo della prima versione del manuale era dedicato al movimento che sconvolse la Repubblica Popolare tra gli anni ’60 e ’70. Nella nuova edizione lo spazio era stato ridotto a pochi paragrafi. Per introdurre la Rivoluzione Culturale, la prima versione del libro recitava «Mao Zedong credeva erroneamente che la leadership centrale del Partito avesse un problema di revisionismo e che il paese si trovasse di fronte al rischio della restaurazione del capitalismo».

Nella nuova edizione, la scelta del Grande Timoniere non era più accompagnata dall’avverbio «erroneamente» ed era sparito il riferimento al Partito Comunista. «Un paese che non riesce a fare i conti con il passato, non può avere un futuro luminoso», si notava su Weibo. Dopo giorni di dibattito, l’editore - la People’s Education Press del Ministero dell’Istruzione - chiariva che nel libro di testo che entrerà nelle aule a primavera, sarà spiegato «background, storia e traumi» degli anni tumultuosi della Rivoluzione Culturale.



Un periodo di caos politico in cui Mao Zedong sfruttò l’entusiasmo e l’ingenuità delle Guardie Rosse - giovanissimi studenti del liceo e delle università - per riaffermare il proprio controllo sul Partito Comunista. «Ribellarsi è giusto» diceva il Grande Timoniere. Uno slogan che ebbe molta eco nelle università europee. Dal maggio 1966, in milioni furono messi alla gogna e patirono torture perché considerati «elementi di destra». Nella furia iconoclasta furono abbattuti i simboli della «decadenza borghese», rasi al suolo edifici storici, chiuse le università.

Quando Mao capì che la situazione era andata fuori controllo e che le Guardie Rosse minacciavano anche il suo potere, mandò i giovani nelle campagne per «essere rieducati». L’economia uscì in ginocchio dalla Rivoluzione Culturale e si stima che i morti furono quasi due milioni. Anche figure di spicco della Cina caddero vittima di quegli eccessi. Tra loro, Deng Xiaoping e Xi Zhongxun, padre dell’attuale presidente cinese.

La leadership di Pechino è consapevole che oltre ai successi economici, la legittimità del Partito Comunista poggia ancora sulla retorica romantico-rivoluzionaria della fondazione della Repubblica Popolare e della sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale.


Appena assunta la leadership del Partito Comunista, Xi Jinping ha così messo in guardia dal «nichilismo storico». «Perché l’Unione Sovietica è collassata?», si chiedeva il leader cinese. «Perché ha rigettato il ruolo del Partito Comunista Sovietico, così come le figure di Lenin e Stalin», rispondeva Xi. La Cina ha così recentemente approvato una legge che punisce la diffamazione degli eroi e dei martiri comunisti. Una linea che punta anche a mantenere l’unità del Partito. Nel maggio 2016 – 50esimo anniversario della Rivoluzione Culturale – l’unico commento ufficiale è stato affidato a un editoriale del Quotidiano del Popolo.

Dopo la morte del Grande Timoniere, la Rivoluzione Culturale è stata definita «una catastrofe», anche se Deng Xiaoping non ha voluto annerire troppo la sua eredità. Mao è stato accusato di essersi «gradualmente distaccato dalla realtà e dal popolo», ma le principali responsabilità per gli eccessi di quel decennio furono addossate alla Banda dei Quattro, una «piccola cricca controrivoluzionaria» guidata dalla moglie di Mao, Jiang Qing.

All’inizio degli anni ’80, il giudizio storico su Mao Zedong è stato cristallizzato nella formula «70% giusto, 30% sbagliato». Una sottigliezza che ha consentito alla leadership cinese di preservare intatta la storia rivoluzionaria del Partito Comunista e l’eredità del fondatore della Repubblica Popolare. Anche per questo il ritratto del Grande Timoniere continua a incombere sull’ingresso della Città Proibita, nel cuore di Pechino.


La Stampa – 18 gennaio 2018