In Cina censurato il
periodo della Rivoluzione culturale. Parlarne bene non si può (costò
due milioni di morti e la rovina economica del paese), ma neanche
male (metterebbe in crisi l'immagine del PCC di Mao “partito-guida”
della nazione).
Francesco Radicioni
Cina, la Rivoluzione
culturale di Mao è scomparsa dai libri di scuola
Che si tratti della carestia provocata dal Grande Balzo in Avanti, della guerra sino-giapponese o della tragedia della Tiananmen, la storia rimane uno dei temi politicamente più delicati per la leadership di Pechino. L’ultimo esempio è arrivato nei giorni scorsi, quando la Cina è stata accusata di aver rimaneggiato gli eventi della Rivoluzione Culturale in un libro di testo per le scuole medie.
Stando alle immagini
comparse sui social, un intero capitolo della prima versione del
manuale era dedicato al movimento che sconvolse la Repubblica
Popolare tra gli anni ’60 e ’70. Nella nuova edizione lo spazio
era stato ridotto a pochi paragrafi. Per introdurre la Rivoluzione
Culturale, la prima versione del libro recitava «Mao Zedong credeva
erroneamente che la leadership centrale del Partito avesse un
problema di revisionismo e che il paese si trovasse di fronte al
rischio della restaurazione del capitalismo».
Nella nuova edizione, la
scelta del Grande Timoniere non era più accompagnata dall’avverbio
«erroneamente» ed era sparito il riferimento al Partito Comunista.
«Un paese che non riesce a fare i conti con il passato, non può
avere un futuro luminoso», si notava su Weibo. Dopo giorni di
dibattito, l’editore - la People’s Education Press del Ministero
dell’Istruzione - chiariva che nel libro di testo che entrerà
nelle aule a primavera, sarà spiegato «background, storia e traumi»
degli anni tumultuosi della Rivoluzione Culturale.
Un periodo di caos
politico in cui Mao Zedong sfruttò l’entusiasmo e l’ingenuità
delle Guardie Rosse - giovanissimi studenti del liceo e delle
università - per riaffermare il proprio controllo sul Partito
Comunista. «Ribellarsi è giusto» diceva il Grande Timoniere. Uno
slogan che ebbe molta eco nelle università europee. Dal maggio 1966,
in milioni furono messi alla gogna e patirono torture perché
considerati «elementi di destra». Nella furia iconoclasta furono
abbattuti i simboli della «decadenza borghese», rasi al suolo
edifici storici, chiuse le università.
Quando Mao capì che la
situazione era andata fuori controllo e che le Guardie Rosse
minacciavano anche il suo potere, mandò i giovani nelle campagne per
«essere rieducati». L’economia uscì in ginocchio dalla
Rivoluzione Culturale e si stima che i morti furono quasi due
milioni. Anche figure di spicco della Cina caddero vittima di quegli
eccessi. Tra loro, Deng Xiaoping e Xi Zhongxun, padre dell’attuale
presidente cinese.
La leadership di Pechino
è consapevole che oltre ai successi economici, la legittimità del
Partito Comunista poggia ancora sulla retorica
romantico-rivoluzionaria della fondazione della Repubblica Popolare e
della sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale.
Appena assunta la
leadership del Partito Comunista, Xi Jinping ha così messo in
guardia dal «nichilismo storico». «Perché l’Unione Sovietica è
collassata?», si chiedeva il leader cinese. «Perché ha rigettato
il ruolo del Partito Comunista Sovietico, così come le figure di
Lenin e Stalin», rispondeva Xi. La Cina ha così recentemente
approvato una legge che punisce la diffamazione degli eroi e dei
martiri comunisti. Una linea che punta anche a mantenere l’unità
del Partito. Nel maggio 2016 – 50esimo anniversario della
Rivoluzione Culturale – l’unico commento ufficiale è stato
affidato a un editoriale del Quotidiano del Popolo.
Dopo la morte del Grande
Timoniere, la Rivoluzione Culturale è stata definita «una
catastrofe», anche se Deng Xiaoping non ha voluto annerire troppo la
sua eredità. Mao è stato accusato di essersi «gradualmente
distaccato dalla realtà e dal popolo», ma le principali
responsabilità per gli eccessi di quel decennio furono addossate
alla Banda dei Quattro, una «piccola cricca controrivoluzionaria»
guidata dalla moglie di Mao, Jiang Qing.
All’inizio degli anni
’80, il giudizio storico su Mao Zedong è stato cristallizzato
nella formula «70% giusto, 30% sbagliato». Una sottigliezza che ha
consentito alla leadership cinese di preservare intatta la storia
rivoluzionaria del Partito Comunista e l’eredità del fondatore
della Repubblica Popolare. Anche per questo il ritratto del Grande
Timoniere continua a incombere sull’ingresso della Città Proibita,
nel cuore di Pechino.
La Stampa – 18 gennaio
2018