L’ultima ondata di libri che immaginano mondi alternativi ci racconta emergenze ambientali, tecno-incubi, colonie spaziali senza legge. Esasperando il catastrofismo tipico dei “classici” nati in piena Guerra fredda.
Paolo Di Paolo
Chi ha paura della
nuova fantascienza?
Esiste un futuro che
non sia stato già immaginato? Scegliendo per un’antologia le
migliori storie di fantascienza pubblicate nel 1959 — Le grandi
storie della fantascienza/ 21, appena ristampato da Bompiani —
Isaac Asimov pesca autori che tirano in ballo tirannie politiche,
olocausto nucleare, eccessi inquietanti di corporativismo aziendale.
Una freschissima serie tv, Electric Dreams, recupera i racconti
scritti da Philip K. Dick negli anni Cinquanta: viaggi spaziali,
creature sintetiche, videogame, menti sotto controllo. I classici del
genere non perdono smalto nei cataloghi editoriali: continue ristampe
per Wells, per Clarke; troneggia Margaret Atwood, rispolverata su
carta e su piccolo schermo ( Il racconto dell’ancella). Un
inclassificabile come Antoine Volodine — partito come autore di
fantascienza puro — prosegue su strade a metà fra fantastoria
radioattiva ed esotismo.
L’immaginario fantascientifico cambia davvero, riesce a evolvere? O gira all’infinito su sé stesso? Alieni, uomini macchina, avanzamenti tecnologici votati all’apocalisse c’erano nelle storie d’inizio Ventesimo secolo e ci sono ancora. Se il grande Bradbury rivendicava il tentativo costante di «scartare tutti i futuri negativi», mostrando una certa antipatia per i catastrofisti, la gran parte dei suoi nipoti non pare troppo disposta all’ottimismo. Per spiegare la «felice casualità» della sua scelta di campo letteraria, l’autore di Fahrenheit 451 tendeva un filo lunghissimo da Platone a Rabelais, da Tommaso Moro a Swift. «I romanzi di fantascienza sono i romanzi delle idee» chiariva in una delle interviste raccolte in Siamo noi i marziani (Bietti).
Sociologia, psicologia e storia, «messe insieme e inquadrate nel tempo». «Sempre e solo per presagire l’autodistruzione umana?», domanda opportunamente l’intervistatore. L’interrogativo resta valido. E uno sguardo sulla produzione più recente, che è tornata a occupare grandi spazi sui banconi delle librerie, fa pensare di dover temere il (solito) peggio. Ecco i filoni principali.
Metropoli sommerse dall’acqua per gli effetti del disastro climatico: Kim Stanley Robinson, New York 2140 (Fanucci). Robinson, laureato su Dick, si mostra più che consapevole di come in ogni racconto fantascientifico sia in gioco una visione contemporanea: «New York non è tanto un posto, quanto un’idea o una nevrosi». Umana, naturalmente: scrivendo delle intenzioni poco benevole degli alieni verso la nostra specie, il cinese Cixin Liu ( Il problema dei tre corpi, Mondadori) mette in scena una guerra esterna che si risolve in devastante guerra interna. Più che la guerra dei mondi, utilizzata all’epoca come metafora della Guerra fredda, qui c’è l’eterna guerra nel (nostro) mondo.
Laddove fosse trapiantato
— sulla Luna, per esempio — non andrebbe meglio. Andy Weir —
autore del bestseller The Martian, diventato film per la regia di
Ridley Scott — in Artemis (Newton Compton) racconta la prima
colonia umana sul nostro satellite. Case-capsule, corridoi, ascensori
e scale «esattamente identiche a quelle sulla Terra».
Negozi che non espongono i prezzi: «Se ti serve saperli, non ti puoi permettere la merce». I borghesi terrestri che si regalano una vacanza — una volta sola nella vita — «di solito soggiornano negli alberghi peggiori». Tutto (o quasi) come sul nostro pianeta: soldi su soldi, contrabbando, criminalità. La protagonista del romanzo è una truffatrice.
Niente di nuovo nell’universo — almeno dove gli umani mettono piede. L’unica cosa che, dalla colonia lunare, si può invidiare ai terrestri è la velocità di Internet: c’è un network locale su Artemis, «ma quando si tratta di ricerche, il tutto viene rimbalzato sui server della Terra». Incontentabili Sapiens!
In uno dei saggi più illuminanti usciti in italiano nell’anno appena concluso — Alieni. C’è qualcuno là fuori? (Bollati Boringhieri) — il cosmologo Martin Rees garantisce che nei prossimi decenni di questo secolo «esploratori robotici dotati di un’intelligenza di livello umano» ci precederanno sulle strade dell’universo.
L’immaginazione degli scrittori è già stata lì. Poi magari è tornata indietro, spazientita dalla lentezza della realtà. Uno come William Gibson, per esempio — che ha già festeggiato da un po’ i trent’anni del suo Johnny Mnemonic mezzo umano mezzo cyborg e del cupissimo Neuromante, ristampato da Mondadori nei mesi scorsi — nel 2014 aveva deciso di ambientare un nuovo romanzo fra due futuri. Quello più prossimo, nel frattempo, è già passato. Anno 2017: Hillary Clinton è presidente degli Stati Uniti. Dite che non è andata così? Lo stesso Gibson è stato spiazzato dagli eventi, ma non ha voluto modificare quanto scritto. Agency — questo il titolo — uscirà così: con dentro un futuro superato — molto in peggio — dal presente.
Due sostantivi —
“paranoia” e “mistero” — saltano all’occhio in una
rassegna annuale di titoli fantascientifici curata dalla rivista
specializzata If. Le distopie non si contano: le più intelligenti
lavorano, più che su un futuro “ripetitivo”, su una realtà
angosciosamente aumentata. Senza confini di genere: è il caso di
Exit West di Mohsin Hamid, che provoca radicalmente il nostro
presente, evitando sotterranee nostalgie e scommettendo sul politico
(lo fa pure un romanzo italiano recente, Un attimo prima di Fabio
Deotto, Einaudi).
Non si adagia sul
post-apocalittico Jeff VanderMeer, lo scrittore americano del
“bizzarro”, il filone new weird, curatore con sua moglie di
un’antologia di scrittrici visionarie, tra fantasy, fantascienza e
femminismo ( Le visionarie, in uscita a febbraio per Nero Editions).
Con il romanzo Borne, in arrivo per Einaudi, «non sviluppa la
distopia, ma la dà per scontata», spiega il traduttore, Vincenzo
Latronico. La creaturina aliena che una “cacciarifiuti” trova in
una discarica cresce come una pianta, e inizia a parlare. La
cacciarifiuti se ne prende cura come di un figlio adottivo. Il
romanzo sposta l’asse sull’amore materno, sulla riluttanza della
natura umana — come ha scritto il New Yorker — «ad arrendersi al
lato peggiore di sé».
La Repubblica – 17
gennaio 2018