lunedì 5 marzo 2018

Il paese del Gattopardo


In Italia, dove non c'è mai stata una rivoluzione, ogni cambiamento è immediatamente definito rivoluzionario. Anche Grillo e Salvini non sfuggono a questa legge.

Giorgio Amico

Il paese del Gattopardo

L'Italia come nazione ha poco più di 150 anni. Non è molto, ma neppure troppo poco. La Germania, tanto per fare un esempio, ne ha dieci di meno. 150 anni che testimoniano del tentativo ripetuto e sempre sconfitto di fare dell'Italia un paese davvero unitario, in una parola di fare gli italiani.

Per prima ci provò la Massoneria che non a caso Gramsci definì l'unico vero partito nazionale in un'Italia microborghese fatta di consorterie locali. Il suo tentativo di trasformare le masse in nazione si fondò sulla mitizzazione del Risorgimento, rimuovendone con cura ogni elemento dissonante a partire dall'insorgenza endemica delle plebi meridionali. Una vera e propria religione della patria, con i suoi riti e i suoi simboli, destinata ad entrare in crisi quando il deflagrare dei contrasti interimperialistici nella prima guerra mondiale mise in piena luce tutte le contraddizioni del paese: una borghesia imprenditoriale incapace di reggersi senza il sostegno dello Stato, la pervasività e l'inefficienza della macchina burocratica, la corruzione diffusa, il malaffare politico. Unica fra le potenze vincitrici, l'Italia si trovò nel dopoguerra in condizioni molto simili a quelle degli imperi sconfitti. Incapace di superare la prima grande prova con cui si era dovuta confrontare.

Il secondo tentativo fu quello del fascismo. Obiettivo dichiarato di Mussolini modernizzare il paese e nello stesso tempo formare quelli che per lui dovevano diventare gli italiani autentici. Due obiettivi intimamente legati: costruire un'Italia nuova per un popolo nuovo capace di recuperare a pieno la sua eredità millenaria. Il mito fondante fu quello della tradizione romana rivisitata alla luce del combattentismo delle trincee. Il mito del Grappa e del Piave e poi dell'Impero risorto sui colli di Roma si affiancò ai vecchi (e un po' logori) richiami risorgimentali. Fu un tentativo di modernizzazione dall'alto, una sorta di New Deal totalitario, di cui la guerra dimostrò l'intrinseca debolezza e le contraddizioni non molto diverse da quelle già manifestate dall'Italia giolittiana.

Il terzo tentativo è stato quello repubblicano incentrato sul mito fondante della Resistenza e dell'antifascismo. Rinascita si chiamava non a caso la rivista teorica del PCI, fondata da Togliatti nel 1944. Ancora una volta si trattava di rifare gli italiani, secondo un nuovo modello che si riallacciava da parte laica ad una lettura in chiave democratica e repubblicana di un Risorgimento culminante nella Resistenza e da parte cattolica ad una visione della Chiesa come fattore centrale di coesione e civilizzazione del paese.

Un processo dall'andamento complesso e contradditorio, ma connotato dalla sostanziale continuità dell'apparato statale e di una pratica imprenditoriale garantita dalle sovvenzioni pubbliche mirante più alla speculazione e alla rendita che allo sviluppo. Un processo entrato definitivamente in crisi ancora una volta a causa di fattori internazionali.

Come l'Italietta giolittiana e l'Italia imperiale mussoliniana non avevano retto alla prova della guerra, così l'Italia repubblicana, democratica ed antifascista, non ha retto alla prova per tanti versi simile ad una guerra (pensiamo solo al crollo dell'impero sovietico) della mondializzazione.

La liberalizzazione del movimento dei capitali, delle merci e degli uomini (chè poi in sintesi queste sono le moderne migrazioni: trasferimenti giganteschi di forza lavoro su scala globale) ha fatto saltare il “modello italiano” di capitalismo protetto e con questo i fragili legami e le mediazioni che tenevano insieme il paese.

Come per la vita degli uomini, così per i popoli ci sono fasi ed esperienze che è rischioso saltare. L'Italia non ha sperimentato la Riforma religiosa (come l'Europa centrosettentrionale) né una vera rivoluzione borghese (come Inghilterra e Francia). I grandi mutamenti sono sempre avvenuti più come riflesso di trasformazioni epocali avvenute altrove che per spinte interne. Insomma l'Italia come paese del Gattopardo, dove tutto deve continuamente cambiare perchè tutto resti com'è.