In
Italia, dove non c'è mai stata una rivoluzione, ogni cambiamento è immediatamente definito rivoluzionario. Anche Grillo e Salvini non sfuggono a questa legge.
Giorgio Amico
Il paese del Gattopardo
L'Italia come nazione ha
poco più di 150 anni. Non è molto, ma neppure troppo poco. La
Germania, tanto per fare un esempio, ne ha dieci di meno. 150 anni
che testimoniano del tentativo ripetuto e sempre sconfitto di fare
dell'Italia un paese davvero unitario, in una parola di fare gli
italiani.
Per prima ci provò la
Massoneria che non a caso Gramsci definì l'unico vero partito
nazionale in un'Italia microborghese fatta di consorterie locali. Il
suo tentativo di trasformare le masse in nazione si fondò sulla
mitizzazione del Risorgimento, rimuovendone con cura ogni elemento
dissonante a partire dall'insorgenza endemica delle plebi
meridionali. Una vera e propria religione della patria, con i suoi
riti e i suoi simboli, destinata ad entrare in crisi quando il
deflagrare dei contrasti interimperialistici nella prima guerra
mondiale mise in piena luce tutte le contraddizioni del paese: una
borghesia imprenditoriale incapace di reggersi senza il sostegno
dello Stato, la pervasività e l'inefficienza della macchina
burocratica, la corruzione diffusa, il malaffare politico. Unica fra
le potenze vincitrici, l'Italia si trovò nel dopoguerra in
condizioni molto simili a quelle degli imperi sconfitti. Incapace di
superare la prima grande prova con cui si era dovuta confrontare.
Il secondo tentativo fu
quello del fascismo. Obiettivo dichiarato di Mussolini modernizzare
il paese e nello stesso tempo formare quelli che per lui dovevano
diventare gli italiani autentici. Due obiettivi intimamente legati:
costruire un'Italia nuova per un popolo nuovo capace di recuperare a
pieno la sua eredità millenaria. Il mito fondante fu quello della
tradizione romana rivisitata alla luce del combattentismo delle
trincee. Il mito del Grappa e del Piave e poi dell'Impero risorto sui
colli di Roma si affiancò ai vecchi (e un po' logori) richiami
risorgimentali. Fu un tentativo di modernizzazione dall'alto, una
sorta di New Deal totalitario, di cui la guerra dimostrò
l'intrinseca debolezza e le contraddizioni non molto diverse da
quelle già manifestate dall'Italia giolittiana.
Il terzo tentativo è
stato quello repubblicano incentrato sul mito fondante della
Resistenza e dell'antifascismo. Rinascita si chiamava non a caso la
rivista teorica del PCI, fondata da Togliatti nel 1944. Ancora una
volta si trattava di rifare gli italiani, secondo un nuovo modello
che si riallacciava da parte laica ad una lettura in chiave
democratica e repubblicana di un Risorgimento culminante nella
Resistenza e da parte cattolica ad una visione della Chiesa come
fattore centrale di coesione e civilizzazione del paese.
Un processo
dall'andamento complesso e contradditorio, ma connotato dalla
sostanziale continuità dell'apparato statale e di una pratica
imprenditoriale garantita dalle sovvenzioni pubbliche mirante più
alla speculazione e alla rendita che allo sviluppo. Un processo
entrato definitivamente in crisi ancora una volta a causa di fattori
internazionali.
Come l'Italietta
giolittiana e l'Italia imperiale mussoliniana non avevano retto alla
prova della guerra, così l'Italia repubblicana, democratica ed
antifascista, non ha retto alla prova per tanti versi simile ad una
guerra (pensiamo solo al crollo dell'impero sovietico) della
mondializzazione.
La liberalizzazione del
movimento dei capitali, delle merci e degli uomini (chè poi in
sintesi queste sono le moderne migrazioni: trasferimenti giganteschi
di forza lavoro su scala globale) ha fatto saltare il “modello
italiano” di capitalismo protetto e con questo i fragili legami e
le mediazioni che tenevano insieme il paese.
Come per la vita degli
uomini, così per i popoli ci sono fasi ed esperienze che è
rischioso saltare. L'Italia non ha sperimentato la Riforma religiosa (come
l'Europa centrosettentrionale) né una vera rivoluzione borghese
(come Inghilterra e Francia). I grandi mutamenti sono sempre avvenuti
più come riflesso di trasformazioni epocali avvenute altrove che per
spinte interne. Insomma l'Italia come paese del Gattopardo, dove
tutto deve continuamente cambiare perchè tutto resti com'è.